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 2005  novembre 10 Giovedì calendario

Yitzhak Rabin. Vanity Fair 10/11/2005. Dal libro El mundo según Gabriel García Márquez, alla voce "Guerra": " più facile iniziare una guerra che terminarla"

Yitzhak Rabin. Vanity Fair 10/11/2005. Dal libro El mundo según Gabriel García Márquez, alla voce "Guerra": " più facile iniziare una guerra che terminarla". Il 4 novembre 1995 era festa grande a Tel Aviv, in piazza dei Re d’Israele. Sul palco c’erano il ministro degli Esteri Shimon Peres e il primo ministro Yitzhak Rabin, ex capo di Stato maggiore ed ex eroe della guerra dei Sei giorni, accanto alla cantante Miri Aloni, che intratteneva il pubblico con la sua Shir Ha Shalom ("canzone per la pace"). Dopo lunghi mesi di insulti, minacce e violenta opposizione da parte della destra, Rabin sembrava finalmente tranquillo, sereno e perfino sorridente; impacciato e un po’ buffo, si mise a cantare, malgrado la timidezza e malgrado fosse stonato come una campana. Poi disse: "Permettetemi di dirvi che sono profondamente commosso. Vorrei ringraziare ognuno di voi personalmente perché siete qui a dimostrare, con la vostra presenza, che credete alla pace e che volete combattere la violenza. Anche il governo di cui ho l’onore di essere a capo, assieme al mio amico e collega Shimon Peres, ha deciso di credere alla pace". E scese, ancora sorridente, dal palco. Sua moglie, Leah, rimase un po’ indietro. Anche Shimon Peres. Tutti noi ci ricordiamo perfettamente dove eravamo in quel momento: Aharon Barnea, allora e ancora oggi anchorman del secondo canale israeliano, era lì, di ottimo umore, a vedere tutta quella bella gente in piazza. "Finalmente", stava dicendo a se stesso, "era ora...". La dottoressa Zvia Valdan (la figlia di Shimon Peres) era appena tornata da una gita in Galilea e stava mettendosi davanti alla tivù mentre Ayelet Nahmias, allora giovanissima collaboratrice nell’ufficio del primo ministro, stava commentando il successo della serata con amici, e il dottor Yoram Peri, allora consigliere politico di Yitzhak Rabin, era già tornato a casa. Io ero a una festa di compleanno. Della manifestazione mi ero completamente dimenticata. Mentre si avvicinava all’automobile che lo aspettava con lo sportello aperto, Rabin si girò per chiedere: "Ma dov’è Leah?". Furono le sue ultime parole. Un giovane uomo con gli occhi e i capelli scuri si avvicinò e sparò tre colpi. Uno ferì la guardia del corpo, le altre due il primo ministro di Israele. Nel caos che seguì si sentì una voce urlare due volte un misterioso "Colpi a salve!", poi Menahem Damti, l’autista, caricò i due feriti in macchina e partì, da solo, in una corsa disperata per l’ospedale Ichilov, a pochi minuti di distanza. Nell’altrettanto misterioso video amatoriale che riprese quella scena nei minimi particolari si vede perfettamente, e a lungo, il ragazzo bruno. Era Ygal Amir, un giovane ebreo religioso di estrema destra. Nel processo che seguì fu condannato all’ergastolo. Non ha mai chiesto perdono né mai si è dichiarato pentito. Per molti, come per la giovane donna di origine russa che lo ha sposato, Ygal Amir è stato e rimarrà un eroe. Pochi secondi dopo gli spari, fu Aharon Barnea il primo a ricevere dalla redazione la notizia. D’istinto, si mise a correre all’impazzata, a piedi, nella direzione dell’ospedale. Quando arrivò, Leah era già lì, con la figlia Dalia, e il primo ministro era ancora in sala operatoria. Alcuni minuti dopo Barnea ne annunciò la morte, con la voce strozzata dal pianto. Io ricordo che poi si fece un atterrito silenzio di tomba. E ricordo la piazza dei Re d’Israele, quella che è oggi la piazza Rabin, e quando ci arrivai già c’erano i primi ragazzi che accendevano candele. Sarebbero restati lì, a volte cantando, a volte in silenzio o chiacchierando, continuando ad accendere quelle luci che cercavano di sconfiggere il buio. La sera la piazza sembrava un cielo stellato alla rovescia. Lo fecero per un mese. Ero convinta, allora, che dopo la tragedia tutto sarebbe cambiato. Che destra e sinistra avrebbero iniziato a dialogare più serenamente. Che d’ora in poi avrebbero capito che quella era la strada della perdizione. Che la morte di Rabin non sarebbe stata invano. Ai funerali parteciparono 80 capi di Stato. Arrivò Clinton e venne l’erede al trono marocchino, l’Egitto fu rappresentato dal presidente Mubarak e la Giordania da re Hussein. Dall’Italia arrivarono il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l’allora primo ministro Lamberto Dini e Susanna Agnelli; dall’Olanda, la regina Beatrice. "Fu in quel giorno", ricorda Ayelet Nahmias, che rimase sempre vicina e amica della famiglia, "che la vedova Leah iniziò a comportarsi come una vera regina, ma una regina del popolo, custode fedele della memoria del marito, e fu per questo poi molto amata e altrettanto odiata e vituperata. Ma chi commosse il mondo fu Noah, la nipote che parlò del nonno, del suo amato nonno, del suo eroe, del tocco caldo delle sue mani e dei suoi buffi sorrisi sghembi, a mezza bocca". E Clinton coniò una frase geniale che sarebbe diventata il simbolo di un’epoca: disse (in perfetto ebraico) "haver, ata haser" ("amico, ci manchi") e si conquistò per sempre un intero Paese. Dottoressa Valdan, suo padre Shimon Peres era lì quella sera. E Ygal Amir intendeva uccidere anche lui. Lei certo si spaventò quando seppe dell’assassinio. "Veramente no. All’inizio, quando mia figlia me lo disse, non riuscii a crederci, mi sembrava impossibile". Eppure la vostra famiglia era stata minacciata. "Altroché! Nella buca delle lettere trovavamo vetri rotti, feci, cose terribili...". Non avvertiva il pericolo? "Credevo che quelle minacce fossero solo la disperazione di chi sapeva di aver perso la partita. Di chi aveva capito che il dado era tratto e la pace aveva vinto e non riusciva a farsene una ragione. Dio, quanto mi sbagliavo...". Infatti bastò un mese di lutto e tornò la normalità. Tutti dimenticarono. Peres perse, in favore di Netanyahu, le elezioni del 1996 e ben poco rimase dell’ottimismo di quella sera, della speranza di pace. E di Rabin, dieci anni dopo, è rimasto ancora meno: il nome di una piazza, alcune strade, un centro studi, l’automobile (l’ho scoperta per caso posteggiata proprio sotto il centro studi), un francobollo, una targa, dei graffiti messi sotto vetro per proteggerli dai vandali. Forse proprio per non far dimenticare, il dottor Yoram Peri, l’ex consigliere politico di Rabin, si mise subito al lavoro e iniziò, in modo quasi compulsivo, il lavoro di ricerca che sarebbe poi diventato il libro Brothers at War. Rabin’s Assassination and the Cultural War in Israel". Dottor Peri, che cos’ha scoperto nella sua ricerca? "Che la morte di Rabin, più che rappacificare, ha messo a fuoco le differenze, le spaccature all’interno della società israeliana. Che in Israele, come negli Stati Uniti, convivono due gruppi: i progressisti, i liberali, coloro che guardano al futuro io li chiamo ”metro” (metropolitani, ndr), perché di solito vivono nelle grandi città che si definiscono prima di tutto israeliani, e i ”retro” (retrogradi?), che guardano al passato, sono conservatori, e si considerano prima ebrei e poi israeliani. Solo il 46 per cento della popolazione e sono quasi tutti ”metro” considera l’uccisione di Rabin un trauma nazionale. Il 53 per cento pensa che non lo sia affatto; opinione che tra i coloni sale al 67 e, tra i religiosi, all’80". Quindi ha vinto chi ha ucciso? Se per la maggioranza la morte di Rabin e del processo di pace non sono dei traumi... "In un certo senso Amir ha ottenuto ciò che voleva. Molti pensano che la morte di Rabin non sia stata una gran tragedia...". Ad Ayelet Nahmias, che lavorava a stretto contatto con Rabin, chiedo se la pensa come il dottor Peri. Lei non ne è del tutto convinta: " troppo presto per dirlo con sicurezza". Ma dove sono finiti tutti i giovani delle candele? "Forse è colpa nostra se non abbiamo saputo far nulla della loro, e della nostra, commozione". Che cosa la fa più soffrire oggi, pensando a Rabin? "Che molti abbiano continuato ad attaccarlo, come uomo e come fautore degli accordi di pace, anche dopo la sua morte. Che abbiano continuato a ucciderlo giorno dopo giorno. Non se lo meritava. Non era perfetto, ma era un bravo politico e una brava persona, combinazione rarissima". "Una bravissima persona", conferma Menahem Damti, l’autista. "E così gentile e educato. Un padre. Mi manca moltissimo". Si ricorda quell’ultima sera? "E come potrei dimenticarla? Era come un brutto film: la corsa in ospedale, la confusione, il panico, lui, io, e la guardia del corpo ferita, soli, in automobile. Ricorderò sempre...". Ma la piazza non ricorda. Si parla di costruirci sotto un grande parcheggio e, per la festa ebraica di Simchat Torà, moltissimi (retro?) ci hanno danzato con i rotoli della Torà in braccio, mentre l’angolo con la targa che ricorda l’omicidio era buio e solitario, senza una luce. Senza un fiore. E alla targa di commemorazione mancava una lettera. Chi invece non dimentica è Aharon Barnea, l’anchorman. Rabin, dice, gli manca. "A volte mi sembra che con lui mi abbiano rubato il Paese. Le racconterò un episodio di quel giorno che non ho mai raccontato a nessuno. Dopo aver trasmesso l’annuncio della morte, vidi una cinquantina di ragazzi religiosi che cantavano felici: ”Il delinquente di Oslo è morto”. Dall’altra parte, arrivavano altri ragazzi con cartelli che dicevano: ”Bibi (Benjamin Netanyahu, ndr), il sangue di Rabin è sulle tue mani”. Io decisi di non parlarne e di non far vedere le immagini in tv, perché avevo paura di una guerra civile. Non potevo immaginare che, dopo, avremmo visto ben di peggio. Pensi al ritiro da Gaza...". Dottoressa Valdan, ma allora è stato davvero tutto inutile. "No. Abbiamo imparato molto: ad esempio, che con certi fondamentalisti estremisti è inutile discutere, come dimostra il modo in cui è stato eseguito il ritiro da Gaza. E abbiamo imparato a prendere sul serio le loro minacce (Sharon non esce di casa quasi mai ed è protetto da un esercito di guardie del corpo; da quando è stato eletto è andato al ristorante due volte, ndr)". Una conclusione un po’ pessimistica. "No. Quell’assassinio alla fine ha lasciato un segno nella coscienza collettiva. stato un segnale d’allarme. Se non ci fosse stato, forse non sarebbe stato eseguito il ritiro da Gaza perché loro avrebbero continuato la protesta e noi non avremmo avuto la necessaria determinazione". Quindi Sharon, tra i principali e più violenti detrattori degli accordi di pace, di suo padre e di Rabin, alla fine è diventato "uno di noi". "Sharon ha capito con grande ritardo ciò di cui noi parlavamo dieci e più anni fa. Meglio tardi che mai...". Da El mundo según Gabriel García Márquez, alla voce "Destino": "Le lezioni con cui usa sorprenderci il destino rendono più evidenti la nostra condizione di giocattoli di un azzardo indecifrabile, la cui unica e desolante ricompensa sono, spesso, l’incomprensione e l’oblio". Manuela Dviri