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 2005  novembre 10 Giovedì calendario

Un giro vita troppo largo, diversi tentativi di dieta falliti alle spalle. Poi la voglia di sentirsi più leggeri, di liberarsi velocemente di tutta quella ciccia di troppo, barattandola in salute e qualità della vita

Un giro vita troppo largo, diversi tentativi di dieta falliti alle spalle. Poi la voglia di sentirsi più leggeri, di liberarsi velocemente di tutta quella ciccia di troppo, barattandola in salute e qualità della vita. l’identikit dell’esercito di persone obese o in sovrappeso che si rivolge a centri specializzati, chiedendo un intervento chirurgico allo stomaco. I dati dell’American Society for Bariatric Surgery parlano chiaro: nel 2004 negli Stati Uniti è stato un boom di operazioni, aumentate del 37 per cento rispetto al 1999. Di pari passo si sono moltiplicati i siti web di sedicenti chirurghi, di fama più o meno sospetta, che vendono a caro prezzo pericolosi interventi dimagranti a colpi di bisturi. Truffatori che cavalcano l’onda degli allarmanti livelli di obesità della società americana, con il suo stile di vita a base di bibite gassate, fast food e cibi-spazzatura, una società per due terzi fuori taglia e per un terzo seriamente obesa. Ma ormai non si tratta più solo degli Stati Uniti. L’obesità è un fenomeno dilagante e in crescita in tutto il mondo occidentale, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ne parla come di uno dei «maggiori problemi di salute pubblica dei nostri tempi», come di una nuova «epidemia su scala mondiale». Paradossalmente, mentre nel Sud del mondo si lotta contro la fame e la denutrizione, nel Nord ci si ammala per la sovralimentazione: si mangia troppo, si mangia male, ci si muove meno e s’ingrassa di più. Al punto che oggi il numero delle persone sovrappeso è uguale a quello delle persone sottopeso, con ripercussioni che vanno ben oltre la dimensione estetica. Dietro il grasso che si arrotola su pancia e cosce si nascondono rischi nefasti per la salute: malattie metaboliche, diabete, ipertensione, iperlipidemia, malattie cardiovascolari e respiratorie, problemi alle articolazioni e tumori. Tirando le somme, un obeso vive un quarto in meno rispetto a un non obeso. In Italia sono 4 milioni e ben 16 milioni i sovrappeso.Un conto salato da pagare, non solo in termini di vite umane. In Italia 23 miliardi di euro della spesa pubblica sanitaria sono destinati a curare le patologie dell’obesità, e il costo sociale è ancora più elevato se si tiene conto che un’alta percentuale di persone obese abbandona l’attività lavorativa perché non è più in grado di muoversi: ben il 75,5 per cento degli obesi più gravi è costretto a lasciare il posto e il 12,5 per cento è obbligato a modificare la propria attività. Se si considera che dal 1994 a oggi, in Italia, il numero degli obesi è aumentato del 25 per cento, non è poca cosa. Ma quand’è che l’ago della bilancia deve far scattare il campanello d’allarme? «Per classificare gli stati di nutrizione si usa un parametro, l’indice di massa corporea (Bmi), che si ricava da una semplice formula: peso in chilogrammi diviso l’altezza al quadrato in centimetri», ci spiega Antonio Liuzzi, primario della divisione di endocrinologia dell’Istituto Auxologico Italiano di Piancavallo, vicino a Verbania (No), il centro d’eccellenza di ricovero e cura a carattere scientifico che si occupa d’obesità. «Si parla di sovrappeso per Bmi superiori a 25, di obesità per Bmi superiori a 30, di obesità estrema sopra 40». Negli ultimi 10 anni gli obesi sono passati da 200 a 300 milioni e nel 2020, secondo le stime, saranno 500 milioni. Numeri che riguardano da vicino anche il nostro Paese. In Italia oltre il 30 per cento della popolazione è in sovrappeso. Più uomini che donne, più al Sud che al Nord, più nei piccoli centri che nelle grandi città. Quasi uno su dieci è obeso: oltre quattro milioni di persone che vivono con 20, 30, 40 chili di troppo distribuiti sul corpo. Viene da chiedersi: come, non eravamo il Paese simbolo della buona cucina, modello della sana ed equilibrata dieta mediterranea? In realtà, come nota Maria Letizia Petroni, responsabile del servizio dietetica e nutrizione clinica dell’Istituto Auxologico di Piancavallo, «la nostra alimentazione abituale ha poco a che vedere con la tradizionale dieta mediterranea: è ad alta densità calorica e di scarsa qualità dal punto di vista nutrizionale. Il cibo pronto, ricco di grassi e povero di fibra, le bevande gassate, l’uso eccessivo di condimenti e una graduale modificazione del gusto verso sapori artificiali ci portano ad assumere più energia del necessario». Quando invece, continua Petroni, «il fabbisogno quotidiano si è drasticamente ridotto, sia nei bambini, che giocano meno all’aperto e trascorrono più tempo al computer e davanti alla televisione, sia negli adulti, abituati a condurre una vita più sedentaria». Lo stile di vita è l’imputato numero uno ai chili di troppo, ma gioca un ruolo anche la componente genetica. «L’obesità è una malattia complessa, dove interagiscono fattori genetici e ambientali», afferma Liuzzi. «Nei millenni è stato selezionato un corredo genetico, il ”genotipo risparmiatore”, capace di sopravvivere a condizioni di scarsità di cibo e di conservare energia in eccesso sotto forma di tessuto adiposo da utilizzare nei momenti di necessità. Adesso che il cibo è in eccesso, almeno nei Paesi ricchi, questi caratteri ereditari risultano però svantaggiosi e favoriscono l’obesità». L’impronta genetica è particolarmente evidente nei casi di obesità familiare: genitori grassi, che fanno figli grassi. L’Italia in questo senso non vanta un bel primato: i bambini italiani, infatti, sono al primo posto nella classifica dei più grassi d’Europa. Ragazzini e adolescenti cresciuti a merendine e hamburger, con il risultato che oltre il 30 per cento di loro è in sovrappeso e quasi l’8 per cento è obeso. «Un quadro drammatico», lo descrive Alessandro Sartorio, primario endocrinologo della divisione di recupero e rieducazione funzionale dell’Auxologico di Piancavallo, esperto di obesità infantile. «Soprattutto per la tendenza elevata che un bambino obeso resti tale da adulto. importante intervenire presto, sia perché nel ragazzo le possibilità di successo sono maggiori, sia perché una popolazione infantile più sana oggi sarà una popolazione meno malata domani». La distribuzione geografica dell’obesità in età pediatrica rispecchia quella degli adulti: al Sud la prevalenza è maggiore che al Nord, «per motivi ambientali e genetici, ma anche culturali», ci spiega Sartorio. ancora diffusa l’idea che un bimbo grassottello, con le guance rotonde e rosee, sprizzi salute da tutti i pori. Ma l’apparenza inganna. Come riferisce Cecilia Invitti, direttore dell’unità di diabetologia e malattie metaboliche dell’Ospedale San Michele di Milano, «circa il 20 per cento dei bambini sovrappeso ha una pressione arteriosa più alta dello standard e una percentuale simile soffre di sindromi metaboliche, che sono anticamera di future malattie cardiovascolari». Ma non finisce qui. «Il 4,5 per cento dei bambini obesi», continua Invitti, «ha un’intolleranza glucidica, fase che precede lo sviluppo del diabete. In Italia cominciano a comparire casi di diabete di tipo 2 - quello legato al metabolismo - anche nei bambini, cosa mai riscontrata in precedenza». Come arginare quest’avanzata dell’obesità? Per prima cosa, suggerisce la nutrizionista Petroni, riducendo il bilancio energetico giornaliero e combattendo la sedentarietà. Perdere dal 5 al 10 per cento del peso iniziale è sufficiente a contrastare molti effetti avversi dell’obesità, se poi il calo di peso è mantenuto. Mentre voler raggiungere a tutti i costi una taglia non adatta alla propria costituzione, o desiderare il peso di vent’anni prima, porterà probabilmente a un fallimento. La scelta migliore è rivolgersi a centri specializzati, per evitare di seguire inutili diete ”fai da te”, più controproducenti che benefiche. Il tutto e subito non è possibile, nemmeno con l’intervento chirurgico, che in generale è l’ultimo tentativo nella cura dell’obesità. C’è un meccanismo fisiologico, ci spiega Petroni, che si oppone al dimagrimento: «Il tessuto adiposo secerne un ormone, la leptina, che segnala all’ipotalamo quanta riserva energetica c’è nel corpo. Dimagrendo, il grasso si riduce e si riducono i livelli di ormone circolanti. Se la perdita di peso supera il 10-15 per cento del peso iniziale, l’ipotalamo interpreta il segnale come un allarme di ”carestia” alimentare e reagisce amplificando lo stimolo della fame e riducendo il dispendio energetico. Alla perdita di peso deve seguire un periodo di mantenimento, in cui l’organismo si abitua ai nuovi livelli di energia». Altrimenti si rischia l’effetto yo-yo: tutti i chili persi vengono recuperati in breve tempo e con gli interessi. Il guaio è che a ingrassare ci vuol poco, mentre la strada per dimagrire è tutta in salita. Sempre valido, invece, il motto ”prevenire è meglio che curare” su cui punta la campagna contro l’obesità del ministero della Salute. Nei mesi scorsi si è parlato di un’iniziativa per recapitare agli italiani, casa per casa, una cintura per misurare il proprio girovita e calcolare il proprio Bmi, ma lo stesso ministro Sirchia l’ha smentita. Certi, invece, sono i progetti di educazione nelle scuole che, come testimonia Sartorio (impegnato in una campagna contro l’obesità condotta in circa 50 scuole milanesi), possono dare ottimi risultati nel sensibilizzare gli insegnanti verso il problema e modificare i comportamenti alimentari dei bambini. Ma la prevenzione deve vedersela anche con gli spot televisivi, che con messaggi e immagini allettanti promuovono una gamma vastissima di prodotti alimentari, dietetici, e quant’altro possa far gola a chi ha problemi di peso o a chi ne vuole uscire. Perché l’obesità, in ultima analisi, è anche un business. Lo è per chi nel settore dei trasporti produce auto con abitacoli e sedili più ampi, come comincia ad accadere negli States; per le case editrici che pubblicano manuali per il dimagrimento ”fai-da-te” o per lanciare l’ultima moda tra le diete d’oltreoceano; per le catene di boutique per taglie forti; per gli alberghi che offrono sistemazioni a misura d’obeso. Ma non per tutti è un affare: numerose compagnie aeree, per esempio, hanno denunciato costi maggiorati dei voli aerei a causa del carburante in più necessario a trasportare un carico di passeggeri troppo pesante. Anche il colosso del fast food McDonald’s è corso ai ripari, inserendo insalate e frappè nei suoi menù, di fronte alle cause intentate da giovani obesi americani che lo accusano di aver favorito un’epidemia di grassi. Ma l’obesità non è un affare per chi ne soffre, che da un pò di chili in meno guadagnerebbe in soldi e in salute.