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 2005  novembre 10 Giovedì calendario

Non sono bastati le ricerche e gli studi dedicati a Marco Polo per il 750° anniversario della nascita, da poco trascorso, a fugare le ombre più fastidiose

Non sono bastati le ricerche e gli studi dedicati a Marco Polo per il 750° anniversario della nascita, da poco trascorso, a fugare le ombre più fastidiose. Una frangia di studiosi ancora dubita, e su cose pesanti. «Se Marco ci avesse fatto il piacere di morire in Cina», afferma Frances Wood, direttrice del Dipartimento cinese della British Library, «avrebbe risolto gran parte dei nostri problemi. Così non è stato: e quindi, per ciò che possediamo, Marco Polo potrebbe averci raccontato un sacco di frottole. Altro che Cina! molto più probabile che abbia trascorso quei 24 anni in una colonia genovese in Crimea, facendosi narrare da altri ciò che avevano trovato in quei luoghi». Insomma, Marco Polo mentiva sapendo di mentire, quando nel 1298 dettava le sue avventure orientali al compagno di cella, Rustichello da Pisa. Altro che corte di Kubilai Khan! Stai a vedere che l’autore de Il Milione altro non era che un fanfarone. «Era soltanto un astuto mercante che stava imbastendo uno straordinario e fantasioso curriculum vitae, in attesa di essere scarcerato dalle prigioni di Genova. Cosa che avverrà un anno dopo», afferma ancora la Wood, autrice britannica di Did Marco Polo go to China? (’Marco Polo andò in Cina?”), causa di non pochi scompigli nel mondo accademico internazionale. Perché la provocatrice non è proprio l’ultima arrivata: Frances Wood è sì un’affabile signora bionda di mezz’età, ma è anche una che ha storia e ideogrammi cinesi per pane e companatico quotidiani. Che incalza: «Se Marco Polo fosse andato davvero in Cina, perché non ha fatto parola della Grande Muraglia? E della scrittura cinese? Possibile che non l’abbia minimamente lasciato perplesso? E non parliamo del tè, dell’invenzione della carta, delle bacchette usate per mangiare, del Confucianesimo... Insomma, altro che gran viaggiatore: sarebbe stato addirittura un pessimo turista!». Peccato, perché la storia di questo diciassettenne, che nel 1271 vagò lungo gli 8.000 km della Via della Seta, fino a giungere a Pechino, era affascinante. Anche se di certo Marco non fu il primo a giungervi dall’Occidente: sul podio, il posto d’onore spetterebbe ex aequo a suo padre Niccolò e a suo zio Matteo, che dopo sei anni di viaggio raggiunsero nel 1266 la corte del Catai e altrettanto faticosamente tornarono a Venezia, per poi ripartir di nuovo con Marco. « vero», ammette Alvise Zorzi, scrittore ed eminente esperto di storia veneziana. «Ma non scordiamoci che Marco fu anche l’unico a lasciarci una testimonianza scritta. questa la cosa importante». Ma anche il viaggio , vero o falso che fosse, non fu proprio una passeggiata. Montagne altissime, deserti sterminati... C’è da chiedersi dove Marco trovasse le scarpe per camminare, ogni volta che ne consumava un paio. «Le scarpe non furono un vero problema», dice ancora Zorzi. «Era impossibile camminare per mesi, lungo la Via della Seta, senza incontrare anima viva. E Marco poteva acquistare un paio di scarpe anche dal primo pastore che passava. Molto più angosciante è pensare agli enormi dislivelli che dovette superare. Non per niente, attraversò l’Himalaya. E non dimentichiamo che per giungere in Cina dovette costeggiare in carovana tutto il deserto di Taklamakan, nel Sinkiang cinese, uno dei luoghi più depressi del pianeta». Da qui la famiglia Polo penetrò in una terra di leggende. O, almeno, così narra Polo. Ma la Wood e i suoi seguaci non lo credono in alcun modo. «Marco un mitomane? Non credo proprio», commenta John Larner, professore emerito di storia all’Università di Glasgow e autore del recente Marco Polo and the Discovery of the World (’Marco Polo e la scoperta del mondo”), best-seller inglese sul nostro eroe. «Avrei anch’io qualche domanda da fare alla Wood. storicamente accertato che Marco lasciò Venezia per 24 anni: se non si recò in Cina, dove andò? In una colonia genovese in Crimea, come afferma la Wood? Ma se così fosse, quando ”Il Milione” cominciò a circolare, almeno un centinaio d’italiani avrebbe gridato: ma che Cina! Era qui da noi!». Fin qui il buonsenso, d’accordo. Ma le frecce della studiosa inglese hanno ben altri bersagli. «Come la faccenda della Grande Muraglia?», domanda Larner, sorridendo. « vero, Marco non parla della Muraglia. Ma neppure gli storici cinesi che vissero tra il XII e il XIV secolo la menzionano. Cos’è, stavano anche loro in Crimea? La verità è che a quei tempi la Muraglia era un cumulo di macerie informi, anche perché i Mongoli conquistatori l’avevano distrutta. La Grande Muraglia che oggi è mostrata ai turisti, a nord di Pechino, fu costruita sotto la dinastia Ming, nel XVI secolo, almeno tre secoli dopo Marco». «Inoltre», sottolinea Zorzi, «si tenga presente che Polo non si trovava da quelle parti in gita di piacere. La sua intenzione era scrivere un vademecum a uso mercantile, non una guida turistica. Vi riportò ciò che interessava il commercio dell’epoca. Comunque, basterebbe un’occhiata al testamento di Marco e a quello dello zio Matteo, entrambi conservati alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Si citano le piastre d’oro ricevute dal Gran Khan, una sorta di passaporto che li avrebbe protetti nel viaggio di ritorno. Dove avrebbero potuto procurarsele, se non in Cina?». Ma allora non esisterebbero misteri sulla vita del viaggiatore? «No, un mistero vero esiste», conclude Zorzi. «Si narra che Polo fosse stato fatto prigioniero nella battaglia tra veneziani e genovesi a Curzola. Però, il suo nome non compare sulle liste dei capitani. Ritengo che, più verosimilmente, Marco sia stato catturato da corsari genovesi e poi rinchiuso in carcere, dove dettò Il Milione. Quanto sia vero, non è dato saperlo. Però un contatto con i genovesi lo dovette avere. Non si spiegherebbe perché, negli anni successivi, Genova si sia lanciata in una vera e propria corsa verso la Cina. chiaro che qualche indiscrezione era trapelata. E da chi altri potevano esser giunte le informazioni, se non dal nostro Polo?».