La Repubblica The New York Times 26/10/2005, pag.1-5 Shaila Dewan, 26 ottobre 2005
All’indomani di una calamità i cadaveri non trovano pace. La Repubblica The New York Times 26/10/2005
All’indomani di una calamità i cadaveri non trovano pace. La Repubblica The New York Times 26/10/2005. Tra le molte pubblicazioni edite dall’Organizzazione sanitaria panamericana, il numero5 della serie dedicata alle calamità si è rivelato un vero best-seller. Il suo titolo è Gestione delle salme in caso di calamità. L’organizzazione lo ha pubblicato nel tentativo di confutare la convinzione tanto diffusa quanto erronea secondo cui i cadaveri provocano epidemie e debbono pertanto essere smaltiti con la più grande sollecitudine. La pubblicazione cerca inoltre di stabilire alcuni punti fermi: non si dovrebbe ricorrere a fosse comuni né alla cremazione, qualora essa violi le pratiche culturali locali o i precetti religiosi. Infine, l’identificazione del morto è un ”diritto umano fondamentale” dei parenti che gli sopravvivono. Come hanno reso evidente le immagini di questo mese relative al terremoto in Asia e alle valanghe di fango in America Centrale, questi parametri non sono rispettati. In Kashmir dagli elicotteri sono stati lanciati sudari, per consentire alle famiglie di seppellire i loro cari in fosse poco profonde. Fuori da Città del Guatemala un sindaco ha chiesto che l’intero suo villaggio sia dichiarato cimitero con queste parole: ”Siamo stanchi, non sappiamo più dove scavare”. Nel frattempo in Louisiana le famiglie delle vittime dell’uragano lamentano l’attesa cui sono obbligate mentre i loro cari vengono minuziosamente sottoposti a radiografie, fotografie, autopsie e prelievo di Dna, così da rendere possibile un’identificazione su basi scientifiche. Anche se ormai tutti i corpi recuperabili sono stati recuperati, non si è attenuato lo sdegno per le immagini dei cadaveri lasciati a putrefarsi per le strade. Ricchezze e risorse ineguali non sono gli unici elementi di cui tener conto quando ci si deve occupare dei morti. Nelle calamità entrano in gioco anche i comportamenti culturali, i valori religiosi, le strutture sociali e le consuetudini di sepoltura. In Pakistan e in altri Paesi musulmani i corpi devono essere inumati entro 24 ore dalla morte e adempiere a questo precetto può essere più importante che predisporre una fossa individuale contrassegnata da una lapide. ”Il rapporto tra corpo e identità personale è importante in quelle società in cui ciascuno è diventato anonimo per gli altri”, dice Daniel J. Sherman, uno storico dell’università del Wisconsin a Milwaukee che ha studiato i riti di commemorazione dei defunti dalla Prima guerra mondiale all’11 settembre 2001. ”Nelle società più sviluppate le persone non si conoscono, mentre in un villaggio guatemalteco non è certo così”. Questa distinzione è stata evidente dopo lo tsunami che ha colpito l’Asia l’anno scorso, provocando la morte di molti turisti stranieri. Con grande rapidità in Thailandia si formò un consorzio di esperti internazionali incaricati di standardizzare le operazioni di identificazione degli stranieri. Laboratori hightech si adoperarono per dare un’identificazione precisa ai cadaveri tramite l’esame del Dna. Ma i morti thai non furono trattati nello stesso modo. Come dice Mary Jumbelic, un’anatomo-patologa che diresse il comitato scientifico consultivo per d’identificazione delle vittime thailandesi dello tsunami, almeno in parte ciò spiega con un preciso interdetto, che impone di non disturbare i morti: ”I thai esercitarono forti pressioni affinchè gestissimo l’identificazione dei corpi in modo differente. C’era la sensazione che non volessero che le salme dei thai fossero maneggiate”. Leslie Kanuwara, studiosa di buddismo presso l’università di Calgary, dice che le culture orientali sono influenzate dai concetti di karma e di fato, che le rendono in grado di sopportare meglio o accertarne le calamità naturali e le loro conseguenze. E’ d’accordo con lei Douglas Davies, docente di studi religiosi presso l’università di Durham in Gran Bretagna, autore di vari saggi sul legame tra morte e disastri naturali. ”Ciò che mi affascina dell’atteggiamento dei cristiani è il desiderio di prestare aiuto e assistenza per cercare di porre rimedio alla situazione”, dice. ”Non fanno riferimento a Dio per dire: ”E’ lui ad averlo voluto”, bensì in reazione all’accaduto, affinchè dal modo in cui si reagisce alla calamità trapeli l’amore per Dio”. I cittadini dei vari Paesi nutrono aspettative diverse nei confronti dei rispettivi governi. Dopo le valanghe di fango in Guatemala, per esempio, gli abitanti dei villaggi maya si sono mostrati diffidenti nei confronti degli aiuti portati dall’esercito, visto che in passato proprio l’esercito li aveva oppressi. Al contrario, dopo gli attentati dell’11 settembre, le autorità americane hanno passato al setaccio 1,2 milioni di tonnellate di macerie per recuperare anche il più minuscolo resto umano – 19.000 frammenti in tutto – e in seguito hanno speso milioni di dollari federali per identificarne quanti più possibile. Gli Stati Uniti non si sono assunti sempre un’analoga responsabilità nei confronti dei propri defunti. Durante la Guerra civile, per esempio, non esisteva alcuna modalità sistematica di identificazione dei soldati morti. Le famiglie dovevano attendere mesi o persino anni in preda all’angoscia prima di sapere qual era il destino di un loro caro partito soldato e dovevano fare assegnamento soltanto sui poco accurati elenchi dei defunti pubblicati dai giornali. Oggi, grazie alla tecnologia, il Pentagono può affermare che nessuno dei soldati morti in Iraq o in Afghanistan è rimasto senza identificazione. Questo ha fortemente accresciuto le aspettative nel mondo, anche in quei Paesi dove l’identificazione di un corpo con l’esame del Dna costa l’equivalente di un anno di stipendio. In ogni caso, il desiderio di conoscere la sorte di una persona cara e di recuperarne il corpo è universale. Nessuna società omette di onorare i propri defunti in qualche modo, dice il professor Davies, ”se non altro nel senso che si è comunque addolorati dalla perdita di qualcuno a cui si vuol bene”. ”Forse noi tendiamo a sottolineare di più il lutto a causa del nostro individualismo”, dice Davies, ”anche se non ne sarei poi così sicuro”. Shaila Dewan