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 2005  novembre 10 Giovedì calendario

L’italiano vero, tra vent’anni non avrà l’autoradio in mano, un partigiano come presidente, il canarino sopra la finestra

L’italiano vero, tra vent’anni non avrà l’autoradio in mano, un partigiano come presidente, il canarino sopra la finestra. Appena alzato non dirà ”Buongiorno Italia, buongiorno Maria”, ma piuttosto ”Ah Alessia, l’artrite non mi ha fatto chiudere occhio”. Rimarrano solo gli spaghetti al dente. Pochi però, perché tenderà al sovrappeso. I Mario Rossi tra 30 anni saranno di media vecchiotti e rotondetti, vivranno in un appartamento di dimensioni medio-piccole, e lavoreranno a lungo, in attesa di poter raggiungere a una pensione abbastanza micragnosa. Forse non saranno neppure italiani veri, perché ci saremo mescolati con gli immigrati extracomunitari. E avranno pochi figli, e ancor meno nipoti. I veggenti vedono il futuro nel cristallo deformato di una sfera, i demografi in quello piatto del monitor di un computer, e forse anche per questo la loro visione è più nitida. In generale partono da dati quantitativi (nascite e morti) e qualitativi (flussi migratori, matrimoni). Poi li integrano, quando hanno ristretto il campo dell’indagine, con altri di diversa provenienza, quindi shekerano il tutto. I risultati dei loro studi servono a governi, aziende, comuni. Con le loro proiezioni si possono intuire le dinamiche della spesa pensionistica, e introdurre correttivi, oppure decidere la costruzione di un quartiere di case popolari, o lanciare nuovi prodotti. La demografia serve a tutti, anche se ancora pochi ne tengono conto. Almeno qui da noi. A detta della professoressa Annunziata Nobile, «in Italia, a parte la parentesi negativa del fascismo e delle vergognose leggi razziali, l’unica volta che la politica ha provato ad ascoltare questa scienza è stata una ventina d’anni fa, quando la parlamentare Maria Eletta Martini istituì il Comitato per la popolazione all’interno del quale c’erano Massimo Livi Bacci e Antonio Golini, due nomi di spicco della demografia». Si è trattato di un’esperimento, niente di più, naufragato poco dopo senza lasciare traccia. Ed ecco allora i governi programmare politiche demografiche, ma spesso senza i demografi. «Un errore», secondo la professoressa Nobile: «I dati sulla popolazione, per quanto possano fotografare una determinata situazione, di per sé non dicono nulla. Vanno interpretati, messi in relazione con quelli del passato e poi usati per immaginare il futuro». Già, ma come sarà il futuro della popolazione mondiale? Difficile dirlo con esattezza, ma forse oggi siamo in grado di sfatare un luogo comune: la Terra non rischia di scoppiare sotto il peso di un continuo aumento delle nascite, anzi rischia di spopolarsi e di conseguenza di invecchiarsi irrimediabilmente. In altre parole, nel mondo nasceranno sempre meno bambini, perché hanno smesso di fare figli non solo i Paesi ricchi, ma anche quelli più arretrati. L’allarme è stato lanciato a settembre dal Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione: il tasso di fertilità è calato dai 6 figli per donna del 1972 ai 2,9 di oggi e, secondo i demografi, continuerà a scendere più veloce che mai. I numeri dell’Us Census Bureau (la più importante agenzia di statistica americana) sul tasso di crescita medio della popolazione mondiale parlano chiaro: 1,97 per cento nel 1972, 1,13 nel 2004 e 0,43 nel 2049. L’elemento rivoluzionario è che lo spopolamento sarà condotto non tanto dalle nazioni industrializzate, che da tempo hanno ridotto il numero delle nascite (secondo un rapporto Onu del 2003, dal 1970 al 1990 la diminuzione media è stata di 1,88 figli per donna), ma da quelle in via di sviluppo. In queste ultime, fino a poco tempo fa, valeva il principio: «Se la vita è una lotteria meglio acquistare molti biglietti», come hanno detto i demografi R.M. May e D.I. Rubinstein. In poche parole, nelle aree più povere del mondo, soprattutto quelle rurali, le condizioni di vita erano più difficili, e quindi più basse le probabilità di sopravvivenza. Così si rimediava mettendo al mondo molti figli. Ora, al contrario, in queste zone la mortalità risulta più contenuta rispetto al passato, così come la natalità. Nel 2050, nei Paesi in via di sviluppo (definizione che esclude le regioni più povere come l’Africa subsahariana o alcune zone del Mediorente) la fertilità media scenderà al di sotto dei 2,1 figli per donna, il numero che garantisce il perfetto ricambio delle generazioni in caso di bassa mortalità e quindi la stabilità della popolazione (detto «tasso di sostituzione»). Tanto per farsi un’idea, la media europea è di 1,4 figli per donna, quella italiana di 1,2 (secondo i dati delle Nazioni Unite relativi al 2002). A guidare lo spopolamento ci saranno i Paesi dell’Europa dell’Est: secondo l’Onu, la Russia perde 750mila abitanti l’anno («una crisi nazionale», commenta Putin), mentre tutta l’Europa ex-comunista nel 2050 dovrebbe ridursi di 3 milioni di abitanti l’anno. Ma anche altri Paesi, ritenuti finora vere conigliere, hanno ingranato la retromarcia: la Cina, ad esempio, ha visto il suo tasso di fertilità ridursi dai 5,8 figli per donna del 1970 all’1,8 di oggi (1,3 secondo i dati di Pechino, che contesta l’Onu); nel 2019 raggiungerà il picco massimo di 1,5 miliardi di persone, per entrare poi in una fase di declino che potrebbe farle perdere dal 20 al 30 per cento della popolazione per generazione, a partire dalla metà di questo secolo. Perché i cinesi hanno iniziato a fare pochi figli? Le cause sono ben diverse da quelle dei Paesi occidentali: nel 1979 il leader di Pechino Deng Xiaoping annunciò la politica del contenimento delle nascite, operativa dal 1981, che impose a ogni coppia di mettere al mondo un solo bambino. Nel 1984 il malcontento delle zone rurali, abituate ad avere un maggior numero di figli da mettere al lavoro nei campi, fece spostare il limite a un ”figlio e mezzo”: si potevano partorire due bambini, ma solo se il primo era una femmina. Ovviamente si raggiungevano questi obiettivi imponendo sterilizzazioni e aborti (ufficialmente volontari), che riguardarono soprattutto le bambine, a cui le famiglie preferivano i maschi. Il paradosso è che oggi in Cina 20 milioni di ragazzi non trovano donne da sposare e questo numero ogni anno cresce di un milione e mezzo (nel 2020 ci dovrebbero essere 20 milioni di scapoli). Così chi può importa donne da marito dal Vietnam o dalla Corea del Nord. Nella provincia di Hebei, a Nord del Fiume Giallo, una moglie costa 600 dollari. I cinesi inoltre avranno anche il problema del 4-2-1, che non è un modulo di una squadra di calcio, ma l’incubo del sistema cinese: ogni figlio dovrà potenzialmente occuparsi del sostegno di due genitori e quattro nonni. In Iran, negli anni di Khomeini, ogni donna partoriva mediamente 6,5 ”soldati per l’Islam”. Oggi la media è scesa a 2,75. Stessa tendenza in Brasile, Tunisia, Indonesia, India e Thailandia. Tra i motivi del calo c’è la crescita dell’alfabetizzazione femminile. L’accesso delle donne all’istruzione determina infatti un abbassamento della fecondità, così come la possibilità di divorziare, l’aborto e la tendenza a spostare in avanti l’età del matrimonio. Secondo le Nazioni Unite, il 62 per cento delle donne sposate sta usando adesso qualche forma di controllo non naturale delle nascite. Un’altra causa importante della diminuzione delle nascite nei Paesi arretrati è la crescente urbanizzazione: «Avere un figlio in città è un costo, in campagna invece è una risorsa, un aiuto per il lavoro nei campi» spiega il sociologo Ben Wattemberg, che sentenzia: «Il capitalismo è il miglior contraccettivo». Anche qui è meglio far parlare i numeri: secondo i demografi dell’Onu, entro il 2007 (per la prima volta nella storia dell’umanità) più della metà della popolazione mondiale vivrà nelle città, i cui abitanti passeranno dai 3 miliardi del 2003 ai 5 del 2030, concentrati soprattutto nelle nuove aree urbane di Africa, Asia e America Latina. Il minor numero delle nascite potrebbe ridurre l’eccessivo sfruttamento delle risorse del pianeta, ma al tempo stesso creerebbe altri problemi. La prima conseguenza è l’invecchiamento della popolazione: ci saranno sempre meno lavoratori a sostenere gli anziani, con costi crescenti per pensioni e spesa sanitaria. Senza dimenticare che meno braccia al lavoro significano meno ricchezza, cioè, se non aumenta la produttività del lavoro, la nostra quota di reddito pro-capite si ridurrà, provocando un impoverimento generale. I dati in questo caso fanno paura: Massimo Livi Bacci in Storia minima della popolazione del mondo (Il Mulino, 2002) scrive che «la proporzione degli anziani con oltre 65 anni nei Paesi sviluppati si aggirava, nel 2000, attorno al 14 per cento e la previsione è che raddoppi nel 2050. Tra gli anziani, crescerà fortemente la quota dei molto anziani». In questo senso, secondo le proiezioni dell’Onu, gli over-65 europei passeranno dal 15,4 per cento del 1995 al 22,4 del 2025. Secondo le stime di settembre del Fondo Monetario internazionale, l’aggravio della spesa sanitaria e previdenziale nei 30 Paesi che fanno parte dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), tra i quali c’è l’Italia, tra il 2000 e il 2050 sarà attorno al 7% l’anno. Scenari estremi ma possibili. Secondo la professoressa Nobile, «le previsioni demografiche a breve termine, a meno di grandi sconvolgimenti, godono di un certo grado di precisione. Fare ipotesi sulla popolazione da qui a cinquant’anni è più difficile, perché la fecondità sicuramente sarà cambiata. Nel lungo periodo ci sono diverse generazioni che si succedono, non possiamo sapere come sarà il comportamento riproduttivo delle coppie del futuro. Però, le previsioni a lungo termine sono un avvertimento su uno scenario possibile, se non viene corretta la rotta». E allora, secondo il Fondo Monetario Internazionale, non ci sono alternative: oltre all’aumento della produttività del lavoro, bisogna mettere mano al sistema previdenziale. E anche in fretta, perché la demografia non permette distrazioni: in Italia l’ultimo treno per cambiare le pensioni parte nel 2020, quando il 50 per cento degli elettori avrà 50 anni e più. La demografia, oltre agli aspetti quantitativi della popolazione, studia anche le caratteristiche qualitative. Ogni persona, da quando nasce a quando muore, rimane sempre sotto la lente d’ingrandimento di questa scienza, passando da una categoria a un’altra: prima siamo persone in età non lavorativa, poi diventiamo forza-lavoro e infine pensionati, per fare un esempio. E così per la demografia, veniamo al mondo due, tre, anche quattro volte e più. Nasciamo prima come persone, poi, a seconda degli studi e delle indagini nelle quali veniamo contati, entriamo a far parte delle categorie più disparate. Per esempio, abbiamo una data di nascita come studenti, e in questa ”vita” scolastica c’è qualcuno che osserva la nostra longevità, si accorge se ”moriamo” con la terza media o tiriamo avanti fino alla laurea. I dati e le proiezioni della popolazione scolastica serviranno allo Stato per prevedere la costruzione di nuove scuole, la richiesta del mercato del lavoro, il numero di laureati tra 10 o 20 anni. La demografia produce previsioni, e sapere come sarà il futuro può servire a tutti. Anche alle aziende. Per questo negli anni Ottanta in America è nata la business demography. una parente stretta della demografia classica, ma con il pallino per gli affari. Chi lavora in questo settore collabora con le aziende perché possano sviluppare linee di prodotto azzeccate, avere la giusta quantità di personale, indovinare campagne pubblicitarie e marketing. Esempi di business demography ce li racconta la professoressa Filomena Racioppi: «L’esempio classico è quello della Lines. Produceva solo pannolini per bambini, ma quando ha capito che il trend era quello di una fecondità in diminuzione nei paesi sviluppati e di un allungamento della vita, si è parzialmente riconvertita (con profitto) alla produzione di pannoloni per anziani. Un caso simile è quello della Gerber. passata dagli alimenti per l’infanzia a quelli dietetici, saltando con perfetto tempismo dal vascello che affonda a quello che fila a vele spiegate. Ma il caso più divertente l’ho lasciato per ultimo. Un noto marchio di prodotti in plastica per neonati (biberon, ciucci eccetera) ha annusato un periodo di vacche magre e in un’altra nazione europea, con un nuovo marchio, ha cominciato a produrre preservativi». All’interno di un’azienda i demografi non lavorano da soli, ma si scambiano informazioni con sociologi e esperti di marketing. «Da qualche anno, grazie ai computer, di dati ce ne sono quanti se ne vogliono – spiega la professoressa Racioppi – E noi demografi, per essere utili, dobbiamo mettere al servizio dell’azienda una particolare sensibilità nell’interpretarli. Dovremmo essere capaci di individuare subito tra tante cifre quella che suggerisce una nuova lettura della realtà prossima ventura. Anche i metodi raffinati di trattamento delle informazioni propri della demografia possono tornare utili a una grande azienda, che noi considerariamo, per fini di studio, come una nazione con le sue leggi (i regolamenti interni), una popolazione (i dipendenti), che ha il suo indice di fecondità (le assunzioni) e di mortalità (la pensione o i licenziamenti). Quella dei dipendenti è una popolazione che produce anche dati di natura qualitativa, come i trasferimenti (paragonabili a flussi migratori) e gli avanzamenti di carriera. Una simile analisi può indicare un piano di assunzione ragionato, oppure le competenze che rischiano di restare scoperte nel futuro. I demografi all’interno di un’azienda possono quindi suggerire iniziative capaci di attenuare o annullare l’effetto di dinamiche che altrimenti potrebbero essere pericolose per la redditività e l’efficienza». Del resto da sempre un buon imprenditore deve avere un intuito ”demografico”. Gli serve per immaginare chi saranno i suoi clienti e come vorranno essere accontentati. Mentre un tempo bastava un’idea luminosa per sbancare il mercato, ora concorrenza spietata e una clientela divisa in innumerevoli nicchie rende indispensabili indagini mirate e accurate. Prendiamo ad esempio la Vespa: venne creata dal nulla, senza ispirarsi a qualcosa di già esistente. Corrado d’Ascanio, che la progettò, si mise di fronte al foglio bianco e non immaginò un prodotto, ma chi l’avrebbe comperata, creando proprio ciò che serviva: un mezzo economico come una moto, ma con la ruota di scorta, perché sulle strade del dopoguerra si forava facilmente. Il serbatoio era sotto la sella, così potevano guidarla anche le donne con la gonna, che di lì a poco avrebbero iniziato a lavorare fuori casa. La pedana era piatta, per trasportarci delle merci durante la settimana e un bambino in piedi la domenica, perché D’Ascanio immaginava la Vespa come un mezzo per tutta una piccola famiglia in un dopoguerra ottimista e operoso. Non fu certo aiutato da un demografo, ma seppe prevedere le nuove caratteristiche della popolazione. Era però un mercato meno conflittuale di quello attuale. Oggi per battere l’agguerrita concorrenza, non solo serve sapere dove va il mondo (e la sua popolazione), ma anche interpretare i dati: un’azienda che produce sedie e ignora il continuo aumento della popolazione obesa, va incontro al fallimento, e questo è intuitivo. Però chi pensa di lanciare una linea di negozi per la terza età sappia che lo attende una grossa delusione: i nonni sono sempre di più, ma in genere si sentono giovani. O almeno mai abbastanza bacucchi da doversi rivolgere a negozi fatti solo per loro. La demografia non perdona chi la prende sottogamba.