MACCHINA DEL TEMPO APRILE 2005, 10 novembre 2005
Il recente disastro provocato dallo tsunami nel Sud-Est asiatico ha fatto scoprire al mondo l’esistenza di popolazioni che, sulle isole Andamane (India), vivono ancora oggi completamente isolate dal mondo ”civilizzato”
Il recente disastro provocato dallo tsunami nel Sud-Est asiatico ha fatto scoprire al mondo l’esistenza di popolazioni che, sulle isole Andamane (India), vivono ancora oggi completamente isolate dal mondo ”civilizzato”. Ma quanti sono ancora e dove vivono quelli che, a un primo sguardo, ci appaiono del tutto simili, per aspetto e condizioni di vita, ai primitivi? Si stima che sulla faccia della Terra esista ancora una settantina di tribù ”non contattate”, cinquanta delle quali si trovano in Amazzonia, mentre le altre si dividono tra le Andamane e gli atolli di Papua Nuova Guinea, per un totale di qualche migliaio d’individui. Di alcuni di loro non si conoscono nemmeno gli stili di vita, la lingua o il numero, mentre di altri, che non hanno neanche un nome, si ha notizia solo da tribù confinanti o da qualche intrepido antropologo. Gli studiosi e le organizzazioni che si occupano di popoli tribali sono però concordi nell’affermare che molto difficilmente qualcuna di queste tribù si può considerare realmente isolata. O attraverso incontri avvenuti anni o secoli prima, o attraverso il contatto con tribù vicine, con missionari intraprendenti o, purtroppo, individui senza scrupoli a caccia di terre e risorse da sfruttare (allevatori, taglialegna, cercatori d’oro e di schiavi), tutti hanno probabilmente avuto a che fare con stranieri di cui spiano ogni movimento e abitudine dal profondo della foresta, e di cui hanno visto certamente i battelli o gli aerei. Chi ha avuto sporadiche frequentazioni con questi popoli ne parla come d’individui curiosi, disposti al contatto, ma fieri del proprio stile di vita e, soprattutto, diffidenti. Lo straniero (generalmente bianco) li ha quasi sempre trattati come esseri inferiori o addirittura animali, facendo della violenza e dello sfruttamento il proprio biglietto da visita. Quando i primi europei arrivarono in Brasile 500 anni fa, nel Paese vivevano presumibilmente dai 5 ai 13 milioni di persone appartenenti ad almeno mille popoli diversi. Di quel nucleo originario, decimato da sterminii e malattie sconosciute ai loro organismi (soprattutto morbillo, malaria, influenza, varicella, polmonite), rimangono oggi solo 350 mila individui suddivisi in poco più di 200 tribù, mentre di centinaia di altre non si conserva più alcuna traccia. Si tratta quindi di milioni di morti, un vero e proprio genocidio. Senza contare che nessuna di queste terre, nonostante ci vivano da sempre, è a tutt’oggi di proprietà indigena. Con questi presupposti, chi è sopravvissuto si ritira sempre più nell’interno della foresta chiudendosi nell’isolamento che, se spesso è una scelta di vita, rischia di diventare anche l’unica via di salvezza. Di questo passo, è possibile che una non desiderata integrazione possa arrivare solo in seguito alla costrizione da parte delle autorità. Esistono comunque esempi di assimilazione costruttiva, come quelli di Joênia Batista, prima donna india a diventare avvocatessa in Brasile per difendere i diritti della propria tribù, o come Leonor Zalabata, indigena arhuaco che, dopo essere diventata dentista a Bogotà, è tornata tranquillamente a crescere i suoi bambini e a vivere nelle capanne del suo villaggio. L’isolamento può essere però determinato anche da fattori geografici: è il caso dei Sentinelesi, altra piccola tribù delle Andamane, che accoglie a colpi di freccia chiunque tenti di avvicinarsi a North Sentinel Island, che ci provi in elicottero o in canoa. Proprio in questa zona, a più di 1.100 km dalle coste indiane, si verifica una situazione antropologicamente interessante. Nelle varie isole delle Andamane vivono i Grandi Andamanesi, gli Onge, gli Jarawa e, appunto, i Sentinelesi. Tutte tribù negroidi i cui antenati pare siano migrati dall’Africa non più di 60 mila anni fa. Curiosamente i quattro gruppi, che hanno uno stile di vita simile (sono nomadi, cacciano maiali selvatici e varani, pescano con arco e frecce e raccolgono miele, radici e bacche nella foresta), parlano invece lingue completamente differenti, senza quindi comprendersi. Cosa che fa pensare che abbiano vissuto completamente isolati fin dal loro remoto arrivo nelle Andamane. Altro punto controverso è la definizione di primitivi: se infatti questi popoli vivono ignorando carte di credito e computer (ma anche manufatti molto meno sofisticati), non è esatto affermare che non abbiano a loro volta subito un’evoluzione sostanziale rispetto agli uomini delle caverne: la straordinaria conoscenza delle erbe medicinali e la raffinatezza di certe tecniche di caccia (dai rifugi mimetizzati sugli alberi alle sostanze usate per intontire i pesci senza avvelenarli), sono solo un paio di esempi di chiara evoluzione e di perfetta padronanza dell’ambiente. Certo, ci sarà difficile pensare di vivere come loro raccogliendo nelle foreste frutti, bacche, miele, ma anche uova di tartaruga e larve d’insetti, di cui vanno ghiotti, ma, forse, è solo questione di punti di vista. Abbiamo chiesto all’antropologo Alberto Salza se sia possibile parlare ancora oggi di popoli tribali ”isolati”: «Da un punto di vista biologico ed evolutivo, nessuna popolazione di Homo sapiens può definirsi ”isolata”. L’umanità è un continuum genetico: non esistono confini tra le popolazioni, e le cosiddette ”tribù” (spesso vere e proprie invenzioni parascientifiche) al moderno antropologo appaiono come culture dissolte in un insieme seriale, senza soluzione di continuità e con numerose sovrapposizioni. la risultante dell’’effetto migrazione” che, da oltre 4 milioni di anni, fornisce una configurazione fluida all’umanità, base per l’evoluzione biologica e culturale. Su questo continuo rimescolarsi del pool genetico-culturale, intervengono talvolta fattori estremi di tipo ambientale o culturale. Può avvenire che, per catastrofi naturali o per variazioni ecologiche di ampio livello, alcune famiglie restino ”isolate” per un periodo di tempo abbastanza lungo da instaurare il cosiddetto fenomeno genetico ”del fondatore”, per cui la popolazione assume le caratteristiche fisiche del primo nucleo originario. Inoltre, i sistemi culturali presenti nel gruppo originario insisteranno su se stessi, senza apporti esterni, portando così all’evoluzione di sistemi culturali originari, frutto dell’interazione con il nuovo ambiente isolatore. Queste popolazioni, attraverso tale dinamica sistemica, dopo generazioni avranno caratteristiche fisiche e culturali del tutto peculiari, le quali, spesso, possono portare a ulteriore isolamento in caso di ”primo contatto”: gli Onge delle Andamane, per esempio, hanno una pelle scurissima e la statura pigmoide; è chiaro che, in un ipotetico incontro con nuove popolazioni, questa loro diversità bloccherebbe eventuali matrimoni misti e meticciati culturali (quasi sempre, le popolazioni isolate vengono accomunate agli animali; in senso rovescio, è bene ricordare come la parola urangutang non significhi altro che ”uomo della foresta”)». L’isolamento è una scelta o un caso? «Se l’origine è spesso casuale, esistono esempi alternativi: qualche anno fa, venne trovata con trambusto mediatico una ”tribù paleosiberiana” rimasta totalmente isolata e sconosciuta. Si dimostrò in seguito come fosse invece una famiglia che, per dissensi interni, si fosse allontanata volontariamente dalla popolazione originaria molto tempo prima, insistendo nel separatismo fino a cancellare in senso attivo la memoria della cultura-madre. La scelta di mantenere l’isolamento ha spesso ragioni di sicurezza, come testimoniato dalle popolazioni della Nuova Guinea, in continua guerra tra loro. In Nuova Guinea 4 milioni di persone parlano mille lingue: 250 sono riconducibili al gruppo austronesiano e 750 si sono evolute autonomamente tra l’85% dei Papua; tra queste, 13 sono classificate ”isolate a livello di phylum” (in pratica esistono da sole) e hanno tra il 7 e il 12% di parole in comune, oltre a nessuna concordanza grammaticale con le altre. Nella mia biennale permanenza tra i Boscimani del deserto del Kalahari, in Africa meridionale, ho potuto constatare come una popolazione che non raggiungeva i 50.000 individui su un territorio più esteso di quello della Francia, parlasse 5 lingue foneticamente affini, ma con un vocabolario mutuamente incomprensibile per oltre il 50%. Questo significa che il modello umano si basa su fusione e fissione. La fissione dal grande gruppo garantisce la permanenza della fusione nel piccolo nucleo: una volta che avete una vostra lingua ”isolata” e uno stile di vita ”alternativo”, non capirete più il resto del mondo e preferirete restare isolati: succede anche ai nostri gruppi giovanili». I popoli isolati ci appaiono come primitivi, ma lo sono realmente? «L’evoluzione umana non si è arrestata. Da un punto di vista biologico (hardware corporeo e software mentale) e culturale non è possibile descrivere una ”scala” su cui misurare il cosiddetto progresso di una popolazione: siamo tutti evoluti allo stesso modo. Di conseguenza, un boscimane può essere un genio matematico (ne ho incontrato uno in mezzo al nulla) se il suo potenziale bioculturale verrà innescato da un ambiente favorevole. Inoltre, la dinamica culturale garantisce che ogni cultura evolva secondo proprie traiettorie di sviluppo: si fanno invenzioni, si cambiano le mode (tre anni fa, tra i pastori Samburu del Kenya andavano di moda gli scaldamuscoli al posto delle cavigliere di perline), si aggiungono neologismi. La creatività favorisce forme differenti, ma non meno importanti, di cultura: resta da decidere se non sia più profondo, per l’umanità, aver modificato negli ultimi due secoli tutta la musica e tutta l’arte moderna, come hanno fatto gli africani, o aver messo su globalizzazione (mercantile), internet e computer, come abbiamo fatto noi. Le due cose, in realtà, non sono comparabili: ecco la ragione per mantenere l’etnodiversità, a tutti i costi. Fornisce variabilità genetica e culturale alla Terra, condizione fondamentale per l’evoluzione della nostra specie». Un punto di vista interessante è quello che ci hanno espresso collegialmente i rappresentanti locali di Survival (vedi box) Fiona Watson (responsabile del Brasile), Jonathan Mazower (del resto del Sud America) e Sophie Grig con Miriam Ross, impegnate in Asia. «Certamente i fattori geografici influiscono, ma in genere l’isolamento è più dovuto a una scelta. probabile che quasi tutti gli isolati siano coscienti delle società esterne con le quali, se lo vogliono, possono avere contatti. Tirare frecce a chi si avvicina o nascondersi nelle foreste è invece un chiaro segnale di chi desidera mantenersi isolato». Spesso l’esperienza ha insegnato agli indigeni la massima prudenza: «Gli isolati hanno ottime ragioni per evitare i contatti - proseguono a Survival - visto che molti popoli sono stati completamente spazzati via da malattie, violenza e sfruttamento quasi immediati dopo il contatto. Molti isolati possono essere stati avvertiti da tribù vicine o possono aver avuto esperienze dirette che li hanno convinti a evitare ogni ulteriore contatto per proteggersi. I Jarawa, per esempio, sono probabilmente ben consci di quanto è accaduto ai loro vicini delle Grandi Andamane, la cui popolazione è crollata dai circa 5.000 del 1850 ai soli 43 di oggi a causa del contatto con gli inglesi e poi con gli indiani». Il team di Survival ritiene che definire le tribù isolate come ”primitive” significhi esprimere una forma latente di razzismo, anche se involontario: «Questi aggettivi riflettono una percezione dei popoli tribali che risale all’epoca coloniale, e che è non solo scientificamente sbagliata ma anche pericolosa; essi infatti alimentano i pregiudizi utilizzati ancora oggi per legittimare la violazione dei loro diritti (quante volte i governi e le multinazionali hanno costretto i popoli tribali a sedentarizzarsi ”per il loro bene”, per aiutarli a ”stare al passo” col resto del mondo?). Riferirsi alle tribù moderne come ”primitive” o ”paleolitiche”, significa sostenere implicitamente che esse siano uguali ai nostri antenati, e che non si siano in alcun modo evolute al contrario di noi. Tutte le società si adattano costantemente alla realtà, in perenne trasformazione. Certamente i cacciatori-raccoglitori di oggi non vivono come i nostri (e loro) antenati: si sono adattati sempre meglio ai loro ambienti, di cui conoscono ogni segreto, e utilizzano tecnologie più sofisticate di allora. Nessuno può negare l’esperienza o le abilità straordinarie dei popoli tribali. Pensiamo allo tsunami: le popolazioni meno ”acculturate” sono rimaste praticamente illese, forse grazie alla loro spiccata abilità di interpretare correttamente i segnali, e alla scelta di non abitare troppo vicini alle coste, mentre persone ”meno primitive” sono state travolte».