MACCHINA DEL TEMPO maggio 2005, 9 novembre 2005
Medici-robot minuscoli come pillole per diagnosi sempre più precise e meno invasive per il paziente: il futuro della moderna medicina è già tracciato
Medici-robot minuscoli come pillole per diagnosi sempre più precise e meno invasive per il paziente: il futuro della moderna medicina è già tracciato. Dopotutto, gli oncologi non fanno che ripeterlo: con una diagnosi precoce molte forme di tumore potrebbero essere sconfitte. Ma, bisogna ammetterlo, gli esami a cui ci si dovrebbe sottoporre per garantire la tempestività di un’eventuale terapia sono, in alcuni casi, decisamente poco allettanti. Quanti, infatti, si sottoporrebbero a una gastroscopia o a una colonscopia, in assenza di sintomi allarmanti? Eppure, colon-retto e stomaco sono, dopo i polmoni, gli organi su cui è più difficile intervenire. Come combattere allora l’ostilità verso questi fondamentali test diagnostici? Rendendoli meno invasivi. quanto si ripromettono i ricercatori nel campo della microrobotica e delle nanotecnologie, grazie alla realizzazione di capsule endoscopiche, con telecamera incorporata, facili da ingoiare come pillole. Si tratta di piccolissime apparecchiature in grado, una volta ingerite, di fotografare l’interno dell’organismo e fornire al medico le immagini utili per la diagnosi, senza comportare alcun disturbo per il paziente. «Nel campo della prevenzione dei tumori allo stomaco o all’intestino, non esistono esami poco invasivi come il pap-test per l’utero. per questo che la maggior parte delle malattie asintomatiche dell’apparato digerente non è evidenziata per tempo», dice Arianna Menciassi, ricercatrice del laboratorio Crim (Center for applied research in micro and nano engineering) della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, impegnata nella costruzione di un ”robot in camice bianco”, lungo 20 mm e largo 15, dalle sorprendenti capacità diagnostiche. Il progetto decennale, coordinato dal professor Paolo Dario e finanziato dall’Imc (Intelligence microsystem center), un istituto pubblico della Corea del Sud, prevede la costruzione di un apparecchio dotato di 6 zampette, capace di muoversi autonomamente dallo stomaco al colon, con sembianze e dimensioni di uno scarafaggio, ma ambizioni da esperto clinico. «Noi abbiamo il compito di progettare il sistema di locomozione telecomandato della capsula, che è uno dei punti di forza di questo robot rispetto ad altri apparecchi già esistenti», afferma la ricercatrice. Fatto di materiale polimerico biocompatibile, lo ”scarafaggio” potrebbe infatti, grazie alla possibilità di seguire indicazioni esterne sul percorso da intraprendere, superare le prestazioni di altre capsule endoscopiche attualmente in uso. Come la Pill Cam, una pillola dotata di una telecamera di 4 grammi di peso e 11 mm di diametro, realizzata nel 2000 dalla Compagnia israeliana ”Given Imaging” che, una volta ingoiata, è però costretta a seguire un percorso fisiologico obbligato, nei tempi e nei modi dettati dall’organismo. « una telecamera passiva che registra indifferentemente tutto ciò che incontra, senza distinguere tra tessuto malato o sano», spiega Arianna Menciassi. «Il robot che stiamo progettando, invece, è capace di fermarsi, andare avanti o indietro, a seconda delle indicazioni esterne. Inoltre le zampette dell’apparecchio, di materiale superelastico, possono ritrarsi o distendersi all’occorrenza per ancorarsi meglio alle zone di tessuto scivoloso e allungare la permanenza in quei tratti che si vogliono analizzare meglio». Ispirato al tanto vituperato insetto nero, il microrobot di Pisa è già stato testato in vitro su tessuti animali e si sta preparando alla sperimentazione in vivo. «Proprio come gli scarafaggi, il robot possiede una certa ridondanza nell’apparato locomotorio, per cui è capace di continuare a camminare anche se subisce la lesione di un arto», prosegue la ricercatrice. Ma nel futuro della medicina ”lillipuziana” non ci sono solo apparecchiature diagnostiche. Grandi speranze sono riposte nella realizzazione di oggetti dalle dimensioni ancora più piccole, dell’ordine di un miliardesimo di metro (dieci volte il diametro di un atomo di idrogeno). Il primo scienziato a ipotizzare la possibilità di lavorare con questa unità di misura fu Richard Feynman (premio Nobel per la Fisica nel 1965), convinto della possibilità di arrivare un giorno a costruire componenti grandi quanto molecole, tenute insieme da forze covalenti. Ma fu Eric Drexler nel 1976 a coniare il termine ”nanotecnologie” per definire la tecnologia in grado di controllare la posizione di ogni atomo. quanto accade oggi con la microscopia scanning probe, che colloca singoli atomi o molecole esattamente nel punto desiderato, per creare oggetti di diametro inferiore ai 100 nanometri (nm). «Lavorare nel micro piuttosto che nel nano non è solo questione di dimensioni. Cambia anche l’approccio. Nel micro si segue un processo top-down: si parte dal grande e si riduce sempre più. Nel nano si lavora esclusivamente con un approccio dal basso. un tipo di ricerca più vicina alla fisica o alla biochimica», conclude Arianna Menciassi.