MACCHINA DEL TEMPO maggio 2005, 9 novembre 2005
Gli italiani, si sa, non amano pagare le tasse e il rito che si consuma in questi giorni, la denuncia della dichiarazione dei redditi, è di quelli meno attraenti, tanto che le cifre dell’evasione fiscale, nel nostro paese, ammontano a diverse manovre finanziarie messe assieme
Gli italiani, si sa, non amano pagare le tasse e il rito che si consuma in questi giorni, la denuncia della dichiarazione dei redditi, è di quelli meno attraenti, tanto che le cifre dell’evasione fiscale, nel nostro paese, ammontano a diverse manovre finanziarie messe assieme. Ma da dove deriva la pratica del pagare le tasse? E quali sono stati i passaggi storici fondamentali? Al tempo dei Faraoni: «Chi lavora scrivendo non è tassato». Non c’è Stato senza tasse, fin dai tempi più remoti. Basta guardare al regno egiziano, la prima complessa macchina statale della storia dell’umanità. Per i contadini, che stavano alla base della piramide sociale, il tempo del raccolto si trasformava in un incubo. Gli esattori giungevano puntuali, con un codazzo di sorveglianti, scribi, servi che venivano a misurare i campi e a controllare la quantità del raccolto, per quanto avrebbe dovuto l’agricoltore. «Il lavoro dei campi era duro; le malattie potevano distruggere la messe; i buoi da lavoro potevano morire di fatica o annegati nel fango: le tasse venivano però inesorabilmente riscosse» (R. Caminos). Nella Satira dei mestieri, risalente al Medio Regno (2150-1750 a.C.), un certo Duaf-Kethy, mentre accompagna il figlio alla capitale per farlo studiare nella scuola governativa per scribi, dipinge un quadro impressionante: «Sii scriba. Questo ti salverà dalla fatica e ti proteggerà da ogni tipo di lavoro. Ti risparmierà il portare la zappa e il piccone, in modo che non dovrai portare il canestro. Ti risparmierà l’aratro e ogni tipo di fatica. Lascia che ti ricordi lo stato miserevole del contadino quando vengono i funzionari per stabilire la tassa del raccolto e i serpenti hanno portato via metà del grano e l’ippopotamo si è mangiato il resto. Il vorace passero porta disastri ai contadini. Ciò che restava del grano sull’aia se n’è andato, i ladri lo hanno portato via. Egli non può pagare quello che deve per i buoi presi in prestito: inoltre, i buoi sono morti per l’eccessivo arare e trebbiare. E proprio ora attracca alla riva del fiume lo scriba per calcolare la tassa sul raccolto, con un seguito di servi con bastoni e di nubiani con rami di palma. Essi dicono: ”Mostraci il grano!”. Ma non ce n’è e il contadino è battuto senza pietà. legato, e gettato a testa in giù in uno stagno, ed è tutto inzuppato d’acqua. Sua moglie è legata in sua presenza, i suoi figli sono in ceppi. Ma lo scriba comanda tutti. Colui che lavora scrivendo non è tassato; non è obbligato a pagare. Ricordalo bene». L’esattore che torturava i parenti per scovare l’evasore. Qualche secolo dopo, stando al racconto dello storico alessandrino Filone (Sulle leggi speciali), le cose non erano affatto cambiate: «Poco tempo fa una certa persona fu nominata esattore delle tasse nel nostro distretto. Quando alcuni debitori, che erano in arretrato con i pagamenti, naturalmente a causa della povertà, fuggirono per timore delle possibili conseguenze di un’insopportabile punizione, egli prese a forza le loro mogli, i loro figli e i loro genitori, e altri parenti, e li percosse, li calpestò e li sottopose a ogni tipo di oltraggio e trattamento ignominioso, per far sì che costoro dicessero dove i loro parenti si erano rifugiati, oppure perché pagassero i debiti di costoro». Anche senza far uso di misure estreme, lo scriba con la sua asfissiante presenza non dava mai tregua. Appena i contadini avevano finito di vagliare il grano, eccolo arrivare con la tavolozza e la tavoletta con cui prendeva accuratamente nota, ai fini di stabilire l’importo del tributo, dell’ammontare del prodotto dei campi, che era stato calcolato in sua presenza prima che il grano ripulito fosse raccolto per essere immagazzinato nei granai. Quando i romani provarono a tassare le donne (e scoppiò la rivolta). Le tasse esistevano già al tempo dei tempi, cioè all’epoca dei re romani (Romolo, Numa Pompilio, ecc.). Gli esattori erano due e si chiamavano quaestores (magistrati). In epoca repubblicana, l’Aerarium Saturni (così detto perché il tesoro pubblico era custodito nel tempio di Saturno) appariva già abbastanza articolato: da una parte si tenevano i soldi per la guerra, dall’altra il denaro che si incassava per la liberazione degli schiavi (5 per cento del valore dello schiavo a ogni liberazione: la parola latina per indicare questo tributo era manomissione), da una terza parte si accumulavano le imposte annue raccolte su tutto il territorio della repubblica e nelle province. Mancavano, rispetto a oggi, la patrimoniale e l’imposta personale, considerati vincoli di schiavitù insopportabili. La guerra decennale contro Veio (406-396 a.C.) cambiò la situazione. Fu necessario reclutare in massa cittadini poveri e si pose il problema del loro sostentamento. Il Senato inventò il soldo militare (stipendium) e istituì un’imposta eccezionale, il tributum, così chiamato perché l’unità sociale di riferimento era la tribù, del cui pagamento si facevano garanti i tribuni aerarii, cioè i cittadini più facoltosi. A proposito: ”erario” viene dalla parola latina aes (genitivo: aeris), che significa rame o bronzo. Era quello il metallo con cui, al tempo del re Servio Tullio, venivano coniate le monete. Anche a quell’epoca ogni occasione era buona per tassare. Ma il fisco serviva soprattutto per finanziare la guerra. Eva Cantarella racconta che nel 42 a.C. venne proposto di finanziare le spese militari tassando 1.400 donne. Scoppiò una rivolta e Ortensia pronunciò uno storico discorso, riferito da Appiano: «Perché mai le donne dovrebbero pagare le tasse visto che sono escluse dalla magistratura, dai pubblici uffici, dal comando e dalla res publica?». In quel caso i triumviri le diedero ragione. Il caso di Vespasiano che mise le tasse persino sulla pipì. Ma pecunia non olet. Nella maggior parte dei caseggiati della Roma imperiale non esistevano latrine. Ce n’erano 144 pubbliche e altre gestite da privati. Questi ultimi vendevano le urine ai conciatori di pelli e pagavano per questo una tassa. Vespasiano, ripreso dal figlio Tito per quel genere di rendita, gli mise sotto il naso un denaro e gli chiese se puzzasse. Metodo (inventato da Caligola) per tassare anche l’amore. Le prostitute si facevano pagare in media due assi (il prezzo di una fetta di pane) e in un giorno, al ritmo di cinquecento rapporti, arrivavano ad incassarne mille (250 sesterzi). Ai tempi di Caligola, lo Stato imponeva un’imposta del 20 per cento. Anche oggigiorno, in certe nazioni come l’Olanda, una prostituta è tenuta alla dichiarazione dei redditi. Ma, con Caligola, siamo già in epoca imperiale, quando nasce il fiscus imperiale. La parola ”fiscus”, in origine, significava ”cesto”, un canestro di vimini. Poi passò a indicare recipienti di monete fatti di materiali più resistenti. Infine divenne notazione tecnica per indicare la cassa pubblica. Nel Tardo impero, il fisco aveva le caratteristiche di complessità e globalità che sono proprie delle amministrazioni moderne. Il ministro delle Finanze si chiamava Comes sacrarum largitionum, nome dato da Costantino. Le imposte erano di due tipi: il tributum, che colpiva i cittadini sulla base di liste (census) adoperate anche a scopi elettorali, e il vectigal, che raggruppava le restanti entrate statali, comprese quelle demaniali. Gli anacoreti si moltiplicano per sfuggire al fisco. Geminello Alvi: «L’Impero Romano era un formidabile sistema col quale le esazioni erano redistribuite per mantenere le legioni, fare strade e sfamare le plebi urbane, ma pure svagarle. Roma era perciò nel dovere continuo di fare conquiste, come le economie oggi devono far crescere il Pil. Perciò quando l’Impero divenne troppo grande per poter crescere, i suoi oneri militari rovinarono l’economia. Infatti nel Tardo impero le tasse raggiunsero altezze tali che la terra fu abbandonata e la carestia divenne cronica». Addirittura, molti cristiani fuggirono nel deserto per diventare anacoreti. Sant’Anastasio: «Lì, almeno, nessuno era tormentato dall’esattore delle tasse». La riforma protestante fu anche rivolta fiscale: storia delle ”decime”, delle ”taglie” e delle ”gabelle”. Dopo Roma, per alcuni secoli, niente tasse perché non esisteva più uno Stato in grado di riscuoterle. Però fin dal VI secolo, come ricorda Franco Cardini, «la Chiesa aveva applicato diocesi per diocesi e parrocchia per parrocchia un prelievo teoricamente pari a un 10 per cento (in pratica meno) dei proventi dell’agricoltura e di altre attività economiche, da destinarsi al sostentamento del clero e a varie necessità, anche caritatevoli: si tratta della celebre ”decima”», che recupera una tradizione del popolo ebraico. Una prassi che si prestò a parecchi abusi, tanto da provocare un diffuso malumore e, alla lunga, «costituì una delle cause almeno indirette della Riforma». La svolta si ebbe con l’età dei Comuni, nel XII secolo. Esplosione di commerci, nascita della classe dei mercanti e dei banchieri. I banchieri prestavano soldi ai re, i quali si rifacevano facendo pagare le tasse ai contadini e ai mercanti (preti e nobili erano esentati). Così per tutto l’Ancien Régime, cioè fino alla Rivoluzione francese. Tasse più odiose, tra le decine che bisognava pagare alla corona o ai signorotti locali: la ”taglia” (tagliava il patrimonio del contadino proprietario), la ”gabella” (obbligo di acquistare sale nella quantità e al prezzo fissati dall’autorità centrale). La Rivoluzione francese finse di abbassare le tasse: nascita della ”patrimoniale” e dell’imposta sul reddito. La Rivoluzione francese fu un punto di rottura nella storia europea, anche dal punto di vista fiscale. Nonostante il sistema tributario dell’Ancien Régime spremesse fino all’inverosimile i sudditi, la monarchia di Luigi XVI era sull’orlo del baratro: lo Stato spendeva il 20 per cento in più di quel che le sue risorse gli avrebbero consentito. Infatti, gli esattori del re erano le vittime preferite della ghigliottina (solo 40 nel primo anno). Però, nonostante tante dichiarazioni di principio dei rivoluzionari, il carico fiscale non diminuì. L’avvento di Napoleone segnò il compromesso tra lo slancio ideale rivoluzionario e le esigenze reali della macchina statale, soprattutto a causa delle costosissime campagne militari. Ma ormai il seme era stato gettato. In quegli stessi anni, il granduca Carlo di Sassonia inventò la patrimoniale, cioè il prelievo diretto basato sulla ricchezza del contribuente. Per finanziare la guerra contro Napoleone, il primo ministro britannico William Pitt nel 1799 introdusse invece l’imposta sul reddito (income tax), che è alla base dei sistemi fiscali contemporanei. ”La tassa che sconfisse Napoleone”, come viene ricordata, era un’imposta unitaria, ad aliquota unica, calcolata sulla ricchezza complessiva del contribuente. Era una svolta epocale: «Se nella Francia dell’Ancien Régime solo la povera gente paga le imposte, al di là della Manica le pagano solo i ricchi» (Tocqueville). L’aliquota del 91 per cento di Roosevelt. La storia insegna che i sistemi finanziari mutano sull’onda dei cambiamenti economici. E l’influenza del colore politico dei governi è relativa. La Destra storica, nel primo governo dell’Italia unita, seguì una politica di grande rigore fiscale. «Imposte, imposte e null’altro che imposte» era lo slogan di Quintino Sella, per la prima volta ministro delle Finanze nel 1862. Negli Stati Uniti, il presidente Roosevelt, democratico, alzò così fortemente la pressione fiscale che alla fine della Seconda guerra mondiale l’aliquota marginale sui redditi più alti era del 91 per cento! Negli ultimi anni i governi conservatori, al di qua e al di là dell’oceano, predicano un robusto taglio delle tasse, mentre i governi di sinistra cercano di difendere il Welfare state (con i costi che questo implica). Ma gli analisti guardano già a domani. Secondo Lester Thurow, del MIT di Boston, solo le tasse sul valore aggiunto e sui redditi delle persone fisiche sopravviveranno, le altre saranno cancellate dal tax shopping, la tendenza delle aziende di spostare le loro attività produttive nei paesi con una legislazione fiscale favorevole. In qualche modo, comunque, le imposte resteranno. Probabilmente aveva ragione l’imperatore filosofo Marco Aurelio: «Le tasse sono il prezzo della civilizzazione».