Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  novembre 09 Mercoledì calendario

Dell’inizio della fine sappiamo data e ora: erano le 3 del mattino del 16 aprile 1945, quando il maresciallo sovietico Zukov, cui era stato conferito l’onore di conquistare Berlino, diede il via all’offensiva finale, gettando nella mischia 2 milioni e mezzo di uomini, 41

Dell’inizio della fine sappiamo data e ora: erano le 3 del mattino del 16 aprile 1945, quando il maresciallo sovietico Zukov, cui era stato conferito l’onore di conquistare Berlino, diede il via all’offensiva finale, gettando nella mischia 2 milioni e mezzo di uomini, 41.600 cannoni, 6.250 carri armati e 7.560 velivoli. Lo racconta lo storico Joachim Fest nella sua accuratissima ricostruzione degli ultimi giorni di Hitler, Der Untergang (La caduta), da cui è stato tratto anche il film che in Germania sta risvegliando polemiche e paure mai sopite (vedi box). Tre giorni prima Hitler aveva vissuto le sue ultime ore di esaltazione: il ministro della Propaganda Joseph Goebbels, eccitatissimo da decine di oroscopi, gli aveva telefonato per comunicargli la morte improvvisa del presidente americano Roosevelt. Nel bunker per qualche ora si respirò un’atmosfera euforica, ma non durò a lungo: alla fine Hitler si lasciò cadere su una poltrona, con «l’aria di chi non nutre più alcuna speranza» (così Albert Speer, ministro per gli Armamenti). Il terrore dell’isolamento aveva marcato tutta la vita di Hitler: fin dal 1933, da pochi mesi a capo del governo tedesco, aveva ordinato una serie di lavori di fortificazione della Cancelleria del Reich e la realizzazione di rifugi sotterranei, resi negli anni sempre più estesi e sicuri. Il bunker in cui Hitler si ritirò definitivamente nel novembre 1944 si estendeva fin sotto il giardino della Cancelleria, terminando in un torrione di cemento, l’uscita di emergenza. Nei 12 locali del piano superiore trovavano posto gli alloggi di una parte del personale, la cucina dietetica di Hitler e alcuni uffici amministrativi. Mediante una scala si accedeva al piano inferiore, la cui costruzione era iniziata nel 1941, composto da venti locali collegati da un lungo corridoio: sulla destra c’erano le stanze di Martin Bormann, segretario generale del partito nazista, di Goebbels, del medico delle SS Stumpfegger e altri uffici; a sinistra c’erano sei stanze, l’alloggio di Hitler; tra questo e l’ingresso, la sala delle conferenze. La vita nel bunker scorreva come la parodia allucinata di quella d’un tempo: Hitler oscillava tra scoppi d’ira sempre più incontrollabili, momenti di abbattimento in cui s’aggirava muto per i sotterranei e altri in cui si lasciava convincere dalle sue stesse menzogne che la guerra volgeva al meglio. Durante la giornata restava per lo più nel suo soggiorno, dominato da un ritratto di Federico il Grande, arredato solo da una scrivania, un divanetto, un tavolo, tre sedie e la cuccia della lupa Blondi. Chi lo vide negli ultimi mesi della sua vita, descrive Hitler come un uomo vecchio e stanco: le spalle curve, il volto cupo e grigio, la voce sempre più fioca, gli occhi - da sempre stati diabolicamente affascinanti - velati di stanchezza, la giubba spesso macchiata, le labbra cadenti cosparse di briciole. Nel bunker, l’abituale insonnia lo torturò tanto da costringerlo a spostare sempre più in là le ore di riposo. L’ultima riunione coi collaboratori terminava verso le sei del mattino; a quel punto, esausto, aspettava le sue segretarie per dettare loro gli ordini della giornata: «Con le gambe molli e la mano tremante - ha scritto una di loro, Traudl Junge - per qualche istante stava in piedi di fronte a noi, quindi si lasciava ricadere sfinito sul sofà, e al domestico toccava sollevargli i piedi per farlo sdraiare. Se ne stava a giacere lì, preda di una totale apatia, tutto preso da un unico pensiero: cioccolata e dolci». Anche l’atmosfera, in queste catacombe dell’orrore, trasudava lo sfacelo del regime: crescenti sintomi di disordine, disciplina in calo, trasgressioni del protocollo e rivelatòri atteggiamenti di familiarità con Hitler (nell’aprile 1945, quando il dittatore entrava nella sala conferenze, ben di rado qualcuno dei presenti si alzava in piedi o taceva). Il 26 febbraio 1945 le truppe sovietiche avevano dato il via alla vera e propria invasione della Germania. All’inizio di marzo, sul fronte occidentale, gli alleati avevano preso possesso dell’intera linea Sigfrido, il 6 avevano conquistato Colonia e gettato una testa di ponte sulla riva destra del Reno. Le fantasmagorie sulla fine gloriosa, che avevano sempre eccitato la fantasia dei nazisti, tornarono in auge: a fine marzo fu emanato il cosiddetto Nero-Befehl (Ordine Nerone), che prescriveva la distruzione di «tutte le vie di comunicazione, dei sistemi per la trasmissione di notizie, degli impianti industriali e dei centri di smistamento, nonché di tutte le attrezzature all’interno del Reich, che possano essere utilizzate dal nemico» (le città abbandonate, infine, avrebbero dovuto essere date alle fiamme). 20 aprile. il giorno del 56esimo compleanno di Hitler e per l’ultima volta le supreme gerarchie del partito tornano a riunirsi: presenti Göring, Goebbels, Himmler, Bormann, Speer, Ley, Ribbentrop e i comandanti in capo della Wehrmacht. Qualche giorno prima era arrivata, inaspettata, anche Eva Braun. Durante la cerimonia, prese piede un artificioso ottimismo: lo stesso Hitler tenne un paio di brevi discorsi, lodò, incoraggiò, scambiò ricordi; nel giardino della Cancelleria ricevette, comparendo per l’ultima volta davanti a fotografi e operatori cinematografici, alcuni ragazzi della Hitlerjugend. Il giorno prima Hitler, che in un primo momento aveva espresso il proposito di abbandonare Berlino per ritirarsi nell’Obersalzberg e continuare la lotta dalla ”fortezza alpina”, s’era fatto prendere dai dubbi. Goebbels lo incitava a restare: l’aveva implorato d’affrontare la battaglia decisiva alle porte di Berlino e, se del caso, cercare la morte tra le macerie della città. Quella stessa sera ebbe inizio l’esodo: Himmler, Ribbentrop, Speer e quasi tutti i comandanti della Luftwaffe si unirono alla colonna di autocarri approntata per l’evasione da Berlino. Pallido e sudato, anche Göring prese congedo dal Führer, blaterando di «urgentissimi compiti nella Germania del Sud». Hitler impartì l’ordine di gettare ogni uomo e mezzo in una controffensiva contro i russi, il cui comando affidò all’SS-Obergruppenführer Felix Steiner. La mattina del 22 aprile, dopo una giornata di gran confusione, Hitler attese inutilmente risposte sull’esito dell’inesistente offensiva di Steiner. Alla conferenza giornaliera, si presentò ingrugnatissimo e, dopo un breve silenzio, cominciò a inveire contro l’infedeltà, la bassezza, la viltà del mondo. La sua voce, da mesi ridotta a un sussurro, ritrovò parte dell’antico vigore: gli abitanti del bunker origliavano dietro la porta mentre Hitler gridava, in lacrime e agitando i pugni, d’essere stato abbandonato da tutti. La fine - sostenne - è alle porte, non resta altro che la morte e lui l’aspetterà lì, in città: chi voleva poteva andarsene. Erano le 8 di sera. Nell’alloggio privato la discussione riprese in una cerchia più ristretta: tra gli altri c’era Goebbels, cui Hitler offrì di trasferirsi nel bunker con la famiglia e che alla fine si sarebbe suicidato con la moglie dopo avere fatto avvelenare i sei figli. Poi il Führer cominciò a raccogliere le sue carte personali e ordinò di bruciarle. Nella notte ebbe l’ennesimo accesso d’ira: probabilmente gli abituali psicofarmaci gli avevano tolto ogni capacità di controllo. La sera del 23 aprile Göring inviò un telegramma da Berchtesgaden. Chiedeva se la decisione di Hitler di restare a Berlino rendesse operativa la legge del 21 giugno 1941 che faceva di lui, il Maresciallo del Reich, il successore del Führer. Hitler aveva accolto con calma la comunicazione, ma Bormann riuscì a dipingere la mossa come un colpo di Stato. Ne seguì l’ennesimo eccesso: Hitler, urlando, rinfacciò a Göring la sua infingardaggine e la sua incapacità, lo accusò della corruzione dello Stato, lo definì ”morfinomane” e infine con un radiogramma lo dichiarò decaduto da tutte le sue funzioni. Poi s’afflosciò, sconfitto: «Per quanto mi riguarda, Göring può tranquillamente iniziare trattative di resa. Se la guerra è perduta non ha nessuna importanza chi sarà a farlo». 26 aprile. Il Führer, le lacrime agli occhi, il capo ciondolante, il volto livido, parla di quello che definisce l’ultimatum di Göring: «Non c’è più fedeltà, né onore. Nessuna delusione, nessun tradimento, mi sono stati risparmiati!». La sua mente confusa immaginava però ancora impossibili vie d’uscita: l’ultima era l’armata del generale Wenck, che avrebbe dovuto rompere l’assedio a Berlino. Quella notte le prime granate russe caddero sulla Cancelleria. 28 aprile, qualche minuto alle 22. Il suo cameriere Heinz Linge portò a Hitler una notizia della Reuters secondo cui Himmler stava trattando la resa in Occidente. Il trauma che gliene venne fu il più violento tra quelli subìti: aveva sempre ritenuto Göring un opportunista corrotto, ma il comportamento di Himmler non era stato previsto. Smaniò come un ossesso poi, sfinito, convocò Goebbels e Bormann e poi von Griem, chiedendogli di tentare la sortita da Berlino per arrestare Himmler: «Un traditore non può essere il mio successore, fate in modo che non lo sia!». A quel punto la decisione di farla finita era presa, ma un ultimo passo sancì la separazione di Hitler dal ruolo che recitava da più d’un decennio: il matrimonio con Eva Braun. Aveva sempre sostenuto che, in qualità di Führer, non poteva essere sposato: l’aura mitologica da lui attribuita al concetto non tollerava tratti umani. La sera del 28 aprile un assessore, tale Walter Wagner, fu fatto venire per celebrare il matrimonio. Testimoni: Goebbels e Bormann. Entrambi gli sposi chiesero un matrimonio di guerra, dichiararono di essere di pura ascendenza ariana ed esenti da malattie ereditarie. Al momento delle firme, la sposa era così eccitata e commossa che cominciò a scrivere il suo nome da ragazza, ma cancellò con un tratto di penna la ”B” appena vergata: ”Eva Hitler nata Braun”. A questo punto Hitler dettò le sue ultime volontà. I testamenti furono due, uno politico e uno personale. Il primo era zeppo di violente accuse contro gli ebrei, di asserzioni della propria innocenza e di appelli allo spirito di resistenza. Nel secondo, notevolmente più corto, Hitler giustifica la sua decisione di prender moglie e quanto ai beni specifica: «Quanto io possiedo, appartiene - sempreché abbia un valore - al partito. Qualora questo cessasse di esistere, allo Stato». I due documenti furono sottoscritti alle 4 del mattino del 29 aprile. La scomparsa di Mussolini non fece che rafforzare la sua volontà di morte. Iniziarono i preparativi per il suicidio: parecchie persone furono incaricate di evitare che i suoi resti finissero in mano al nemico. Ma Hitler era incerto sul modo in cui togliersi la vita. Verificò la velocità del veleno su Blondi: la morte della cagna fu rapida. Hitler, dopo aver contemplato il cadavere, convocò i suoi collaboratori e si congedò da loro passandoli in rassegna con aria assente. Era ormai il 30 aprile eppure il capo dei nazisti, l’uomo che aveva sacrificato milioni di uomini alla sua follia, non trovava il coraggio di separarsi dal mondo: poco dopo le 3 del mattino spedì un telegramma al grand’ammiraglio Dönitz, in cui lamentava l’insufficienza delle misure militari intraprese e ordinava di procedere «con la massima rapidità e spietatamente contro tutti i traditori». Qualche ora dopo tenne la solita conferenza sulla situazione: rimase indifferente alla notizia che i sovietici erano ormai nei pressi della Cancelleria. Diede l’ordine di far portare 200 litri di benzina. Alle 14 pranzò in compagnia delle segretarie e della cuoca (in quello stesso momento due sergenti sovietici innalzavano la bandiera rossa sulla cupola del Reichstag), quindi convocò i suoi più stretti collaboratori: Goebbels, Bormann, i generali Burgdorf e Krebs, due segretarie e qualche attendente. Imitato dalla moglie, strinse la mano a tutti e scomparve nella sua stanza. In quel momento - raccontano i sopravvissuti - nella taverna della Cancelleria del Reich si ballava. Mancavano pochi minuti alle 15.30 del 30 aprile 1945. A questo punto, stando alla gran parte dei superstiti, si sentì un unico sparo. Rattenhuber, il comandante delle SS di guardia, trovò Hitler sul sofà, abbandonato, il volto insanguinato, accanto alla moglie che si era avvelenata. Le salme furono portate in cortile e cosparse di benzina. In quel momento un attacco aereo sovietico costrinse quelli che s’erano radunati per la cerimonia funebre a rifugiarsi nell’ingresso del bunker, ma non prima che lo SS-Adjutant di Hitler, Otto Günsche, avesse gettato una torcia sui corpi: le fiamme li avvolsero all’istante, tutti salutarono col braccio levato. Mezz’ora più tardi, a stare a un membro del personale di guardia, Hitler non era più riconoscibile. Intorno alle 23 i resti delle salme, quasi completamente cremate, furono calati in un cratere di granata e ricoperti di terra. Di lì a due giorni i sovietici occupavano il bunker: l’8 maggio ebbe luogo l’esame necrospico di un cadavere di sesso maschile in larga parte carbonizzato definito «probabilmente la salma di Hitler». Seguirono smentite e controsmentite, finché alla fine di luglio Stalin dettò la verità ufficiale dei sovietici: il cadavere di Hitler non era stato trovato e il dittatore doveva essersi nascosto in Spagna o Sudamerica. Il risultato fu che i russi, per motivi abbastanza oscuri, riuscirono ad ammantare tutta la faccenda di un fitto alone di mistero da cui scaturì ogni possibile leggenda: secondo una delle più fantasiose, il Führer fuggì dall’assedio di Berlino su un sommergibile per ritirarsi su un’isola sperduta. Ma oggi sarebbe comunque morto.