MACCHINA DEL TEMPO giugno 2005, 8 novembre 2005
Perché essere come gli altri, quando si può essere unici? Lo diceva una pubblicità ma è probabile che lo abbia pensato anche la Natura, creando i cromosomi sessuali X (che caratterizza il sesso femminile) e Y (quello maschile), e condensando nel primo molte peculiarità
Perché essere come gli altri, quando si può essere unici? Lo diceva una pubblicità ma è probabile che lo abbia pensato anche la Natura, creando i cromosomi sessuali X (che caratterizza il sesso femminile) e Y (quello maschile), e condensando nel primo molte peculiarità. E particolare, questo cromosoma, lo è davvero, come conferma lo studio appena pubblicato dalla rivista americana ”Nature” e firmato da oltre 280 autori. Anche se con i suoi 150 milioni di basi nucleotidiche (i mattoni che compongono il Dna, pari ad appena il 5 per cento del genoma) e il 4 per cento circa dei geni umani, il cromosoma X sembra assai simile agli altri. Invece – come è emerso dalla ricerca – contiene un numero rilevante di geni correlati a varie forme di demenza cerebrale, è responsabile del 10 per cento delle malattie ereditarie umane ed è anche implicato nel bilancio tra le nascite di sesso maschile e quelle di sesso femminile, quasi sempre in parità. Come mai? La risposta potrebbe celarsi in uno dei suoi 1.098 geni trascritti in proteina (699 dei quali erano già noti in precedenza): circa 300 di essi sono geni-malattia, responsabili di sindromi e patologie ben note ai clinici. Accanto a questi, gli scienziati hanno scoperto diversi geni regolatori incaricati di controllarne altri situati su cromosomi diversi, e circa 700 pseudo-geni, relitti evolutivi non funzionali che il nostro cromosoma X non ha eliminato, per ragioni imprecisate. Il noto e pubblicizzato progetto ”Genoma Umano”, terminato nel 2001, si era limitato a stabilire l’ordine dei 155 milioni di basi del cromosoma X: in parole povere, era come aver letto le pagine di un libro ma senza i punti, le virgole e gli a capo. Ovvero, senza capire il racconto. La recente mappatura, giunta dopo un decennio di lavoro – a opera di 21 istituti, per due terzi europei e per il restante terzo americani, guidati dal Wellcome Trust di Hinxton (UK) - ha scavato tra le pieghe del Dna, portando alla luce geni e funzioni nuove; aggiungendo, però, nuove domande a quelle insolute. Separati dall’evoluzione «Risolvere la struttura del cromosoma X non è stato semplice, soprattutto a causa della particolare conformazione di alcune sue regioni», racconta Michele D’Urso, dirigente di ricerca dell’Istituto di Genetica e Biofisica ”Buzzati-Traverso” del Cnr di Napoli che, assieme ad Alfredo Ciccodicola (del medesimo Istituto) e Andrea Ballabio del Tigem di Napoli, ha rappresentato l’Italia in questa ricerca. «Noi ci siamo dedicati alla porzione terminale del braccio lungo contenente una regione chiamata Xq28». Inizialmente, i cromosomi X e Y non influivano nella determinazione del sesso: erano semplici autosomi, cioè segmenti di genoma come gli altri, capaci di scambiarsi ampie porzioni di Dna (durante la cosiddetta ricombinazione) per aumentare la variabilità genetica individuale. Proprio come fanno tuttora i cromosomi non sessuali. «Circa 300 milioni di anni fa, quando i mammiferi hanno cominciato a separarsi evolutivamente dai rettili» prosegue D’Urso «il destino li ha divisi. Non potendo più ricombinare con il partner, l’Y è degenerato e ha perduto quasi tutti i suoi geni, mantenendo il solo SRY (l’unico gene davvero importante), da cui dipende la determinazione del sesso. L’X si è specializzato in un’altra direzione e ha cominciato ad accumulare sequenze ripetute, regioni che si sono moltiplicate molte volte di seguito. Una è chiamata PAR2 e si è originata per duplicazione di alcune regioni dal cromosoma Y, probabilmente quando uomo e scimpanzè hanno iniziato a dividersi». All’alba della nostra storia. Meglio soli o male accompagnati? Oltre che per le informazioni di natura evolutiva, il cromosoma X è molto amato dai genetisti per il gran numero di geni-malattia che contiene. «Sono chiamati così i geni direttamente implicati nello sviluppo di patologie semplici, chiamate monogeniche perché compaiono quando un solo gene è alterato» spiega Alfredo Ciccodicola, corresponsabile della ricerca eseguita all’Istituto Buzzati-Traverso. «Basta che nel gene sia presente una singola mutazione (una base viene per errore sostituita con un’altra) rispetto a una sequenza originaria, e la malattia si manifesta». Qualche esempio? «Il gene RPGR responsabile di una forma di retinite pigmentosa, e quello dell’Incontinezia Pigmenti, entrambi individuati dal nostro gruppo. Ma anche i geni dell’emofilia A, del nanismo, del daltonismo rosso-verde o della distrofia muscolare (per cui l’X detiene il primato del gene più lungo, con oltre 2 milioni e 200 mila basi), senza contarne alcuni che provocano varie forme di ritardo mentale». Tuttavia, il cromosoma X porta anche geni che concorrono a determinare malattie multifattoriali come l’asma, il diabete e l’ipertensione, e geni coinvolti in alcuni tumori. Da che cosa dipende questa singolare abbondanza? «Non è esatto dire che i geni-malattia sono più concentrati sull’X che altrove; anzi, la mappa appena stilata sottolinea che, rispetto ad altri cromosomi, l’X è relativamente povero di geni», precisa Ciccodicola. «Si tratta piuttosto di una maggior visibilità. Le femmine (XX) possiedono due copie dell’X ereditate rispettivamente da madre e padre, e quindi due copie di ciascun gene. Così riescono a compensare con il gene sano gli eventuali difetti presenti su quello alterato. Da questo punto di vista il sesso maschile (XY) è penalizzato: se un gene presente sull’unico cromosoma X ereditato dalla madre non funziona, non c’è scampo. Il difetto può risultare letale, cioè incompatibile con la vita, ma allora non ce ne accorgiamo nemmeno. Oppure può manifestarsi (come in effetti avviene) solo nel sesso maschile, sprovvisto del cromosoma ”di scorta”. Questo è anche il motivo per cui tali malattie, che non affliggono le femmine ma solo i maschi, sono definite X-linked, cioè associate al cromosoma X». L’esempio più noto è l’emofilia che ricorreva tra i discendenti maschi della Regina Vittoria d’Inghilterra, portatrice sana di un gene incapace di produrre una proteina necessaria per la coagulazione del sangue. A questo gene difettoso si può forse imputare di aver cambiato il corso della storia. Uno dei nipoti della Regina Vittoria fu lo zarevich Alexis: la sua malattia favorì in qualche modo l’ascesa di Rasputin e determinò l’impopolarità della famiglia reale all’epoca della rivoluzione russa. Dalla mappa alla terapia L’interesse per il cromosoma X e per le malattie X-linked ha radici lontane nel tempo. Già negli anni ’80 il gruppo di Andrea Ballabio, direttore dell’Istituto Telethon di Napoli (Tigem), aveva individuato alcuni geni-malattia come l’STS, causa di dermatosi ereditaria, e il gene che provoca la sindrome di Kallman, cioè anomalie nello sviluppo dei genitali. Ma soprattutto, aveva identificato e caratterizzato il gene XIST, funzionalmente importante perché spegne – a caso – un cromosoma X in tutte le cellule somatiche del sesso femminile. Se la Natura non avesse provveduto a inattivare uno dei due omologhi, le donne si ritroverebbero con un doppio dosaggio genico per il cromosoma X e chissà quanti guai. Perché pinco mangiò pallino «XIST è particolare perché funziona controcorrente, compensando il dosaggio genico tra i due sessi» spiega Ballabio. « l’unico gene attivo sul cromosoma X spento, ed è l’unico spento nell’X funzionale. Inoltre, è il solo gene che funziona nelle femmine ma non nei maschi. Studiando il cromosoma X si è però capito che più del 15 per cento dei suoi geni sfugge a questa regola generale dell’inattivazione: un’osservazione che richiederà ulteriori approfondimenti, ma che suggerisce molte riflessioni di natura evolutiva e funzionale». Individuare un gene-malattia è importante, ma lo diventa ancor più se la scoperta si traduce in applicazione clinica. «Per i sette geni che abbiamo scoperto sull’X – conferma Ballabio – sono già stati messi a punto test per la diagnosi prenatale o di portatore. Quanto a nuove terapie, siamo in fase piuttosto avanzata con l’albinismo oculare (OA), un difetto di pigmentazione che abbiamo cercato di correggere in un modello animale utilizzando la terapia genica». L’OA è causato da una proteina difettosa che non funziona più da schermo per i raggi UV: in sua assenza insorgono fotofobia, perdita della visione stereoscopica e nistagmo (oscillazioni involontarie e associate dei bulbi oculari). «Nei topolini affetti da OA abbiamo sostituito il gene malato con quello sano e abbiamo constatato che, anche negli animali adulti, i parametri visivi tornavano normali. Volendo essere ottimisti, potremmo arrivare al primo trial clinico sull’uomo fra 3-5 anni». Se per la terapia bisogna pazientare, la diagnostica ha tempi un po’ più rapidi. L’abbondanza di particolari sequenze chiamate MAGE, presenti in un centinaio di geni dell’X, sta suggerendo ai ricercatori nuove strategie per individuare e aggredire alcuni tumori. «Nei tessuti normali i geni MAGE sono espressi solo nel testicolo» spiega Ciccodicola. «Nelle cellule maligne, invece, producono proteine che si ancorano alla membrana esterna segnalando la presenza del tumore. Oltre a servire da marcatori per l’identificazione di una neoplasia, queste proteine potrebbero costituire un ottimo bersaglio per l’immunoterapia, una strategia che usa anticorpi mirati per colpire particolari target». Quando? In un futuro non troppo lontano.