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 2005  novembre 08 Martedì calendario

Essere ottimisti paga sempre. Gli scienziati non hanno dubbi: chi è felice mette in atto l’unica strategia vincente contro questo pazzo, assurdo, ossessivo, nevrotico universo

Essere ottimisti paga sempre. Gli scienziati non hanno dubbi: chi è felice mette in atto l’unica strategia vincente contro questo pazzo, assurdo, ossessivo, nevrotico universo. Cospargersi il capo di cenere, insomma, non serve. Meglio una bella risata. Discorso ingenuo o superficiale? Di primo acchito, parrebbe di sì. Però, circa sette anni fa, il presidente dell’Associazione psicologica americana (Apa), tal Martin Seligman, ebbe in proposito un’intuizione davvero illuminante. «Per la maggior parte della sua storia, la psicologia si è confrontata con ogni possibile disturbo della mente umana: ansietà, depressione, ossessione, paranoia e così via. Si è sempre limitata a condurre un paziente da ”meno cinque” a ”zero”, da una condizione patologica a una sorta di normalità», afferma. «E poi, una volta giunti allo ”zero”? Così mi sono reso conto che la psicologia è in difetto. Perché sollevare un essere umano da uno stato negativo è una cosa. Un’altra è condurlo verso un autentico atteggiamento positivo nei confronti della vita». Per la prima volta nella storia, quindi, la scienza investiga su argomenti sfuggenti e indefinibili, che tempo addietro avrebbero stupito i ricercatori più seri. Che cos’è la felicità? Conviene davvero esser felici e, soprattutto, è possibile esserlo davvero? L’ottimismo è una qualità innata, magari iscritta nei geni, oppure può esser appreso? E ancora: l’uomo è evolutivamente un animale ”felix”, oltre che ”sapiens”? In Olanda, all’Erasmus University di Rotterdam, esiste una vera e propria cattedra di Studi sulla felicità. Al docente, Ruut Veenhoven, imponiamo subito il terzo grado: perché i ricercatori di molte discipline s’interessano sempre più a felicità e ottimismo? Non esistono questioni più pressanti? «La prima ragione», rivela Veenhoven, «è che i nostri maggiori problemi – almeno nel mondo occidentale – sono più o meno risolti. Siamo realisti: benché non si viva di certo in un mondo perfetto, oggi si soffre molto meno la fame che in tempi passati, esistono meno guerre e minor ingiustizia... giunto il momento di comprendere che cosa fare per diventare più felici. Un secondo motivo è offerto dalla libertà individuale. Oggi siamo molto più slegati che in passato da influenze familiari, tradizioni e pregiudizi che condizionano le nostre scelte. E quindi ci chiediamo: come dovrebbe essere la vita, per esser davvero ”buona”? Infine, i tempi sono maturi per una vera filosofia della felicità. Fino a ora, la filosofia che trattava questi argomenti era di stampo per lo più speculativo o moralistico. Negli ultimi dieci anni, invece, i sociologi hanno cominciato a possedere dati sperimentali che permettono una visione più approfondita dell’ottimismo. Non più come vago stato d’animo, ma come autentica condizione fisica e mentale». E allora partiamo dalla domanda più terra terra possibile: che cosa ci rende davvero felici? Per rispondere, scomodiamo Edward Diener, dell’Università dell’Illinois, che da ben 25 anni si dedica a queste ricerche, per comprendere che cosa renda (o non renda) la gente più soddisfatta dell’esistenza: non per nulla, è noto come Mr. Happiness, signor Felicità. «I risultati potrebbero apparire a prima vista sconcertanti», afferma Diener con un sorriso. «Qualcuno dice che la stabilità economica alimenti la felicità. senz’altro vero, ma i soldi sono meno importanti di quanto si creda: una volta appagati i bisogni essenziali (mangiare, bere, sopravvivere decentemente), tutto ciò che il denaro ci offre è un di più, che la mente recepisce soltanto come un aumento impercettibile della soddisfazione. Alcuni credono che un’educazione eccellente sia indispensabile. Non è così, con buona pace dei genitori. Né ottimi studi, né elevati quozienti intellettivi ci spianano la strada verso l’ottimismo. La giovinezza? una mezza verità: le persone giovani sono in media più felici e ottimiste di quelle mature, ma spesso dipende dal fatto che un adulto è oberato da maggiori responsabilità, che minano la serenità. Dati controversi scaturiscono inoltre anche dal rapporto di coppia, di qualsiasi tipo esso sia». Ma allora, che cosa si salva? «Anche se l’Occidente s’avvia a diventare via via più laico», puntualizza Diener, «il sentimento religioso e la fede offrono tuttora un genuino sollievo allo spirito. Anche un senso d’amicizia vero e profondo offre grossi appigli all’affermazione dell’ottimismo. Ma la condizione per eccellenza è una sola: operare assieme ad altri per un progetto più grande e più elevato». In parole povere, la formula magica per la felicità individuale è questa: lavorare - e magari lottare - per un obiettivo di grossa rilevanza sociale, instaurando intensi rapporti interpersonali con chi agisce attivamente assieme a noi. Naturalmente l’abracadra - per quanto sensato - non ci soddisfa a fondo. Per ottenere una generalizzazione più sintetica, che consenta quesiti più approfonditi, ricorriamo ancora a Martin Seligman che, nel suo libro La costruzione della felicità. Che cos’è l’ottimismo, perché può migliorare la vita (Sperling & Kupfer, 17 euro), individua tre componenti basilari della felicità: il piacere (rivelato dal sorriso spontaneo), il coinvolgimento (la profonda partecipazione a relazioni familiari, lavorative, sociali o anche in semplici passatempi) e il significato (in pratica, utilizzare energie personali per servire cause e obiettivi grandi e importanti). Queste sono le pietre angolari non soltanto dell’ottimismo, ma anche e soprattutto della positive psychology, la disciplina che si pone il fine di aiutare le persone a esser più felici. Da qui, infatti, scaturiscono almeno un paio di domande davvero pesanti. La prima: è possibile imparare a diventare più felici e ottimisti? La seconda: l’ottimismo è inscritto nei nostri geni? , in poche parole, frutto di un’evoluzione naturale? Per orientarci lungo questi sentieri, occorre disturbare David Lykken, ricercatore dell’Università del Minnesota. Lo studioso - oggi 76enne - pubblicò nel 1996 un saggio su genetica e soddisfazione nella vita. Dopo aver analizzato ricordi ed esperienze di oltre 4.000 gemelli nati in Minnesota tra il 1936 e il 1955, Lykken comprese che circa il 50 per cento degli atteggiamenti positivi di un individuo deriva dalla programmazione genetica. I geni, insomma, influenzerebbero tratti fondamentali della persona, come il carattere estroverso e solare, la buona risposta fisica e mentale allo stress e i bassi livelli d’ansietà e depressione. I fattori contingenti – come lo status sociale, i rapporti interpersonali, la religione, l’educazione – contribuirebbero soltanto per l’8 per cento. In pratica, esistono persone geneticamente predisposte a essere ottimiste. Anche per un altro studioso americano, Robert Wright, la specie umana è guidata biologicamente al raggiungimento della felicità. Con qualche controindicazione. «L’organismo umano raggiunge la felicità quando soddisfa esigenze di sopravvivenza, soprattutto come specie», scrive nel suo libro Nonzero: The logic of human destiny (inedito in Italia). «Mangiare e copulare aiutano a propagare la specie. Perciò sono azioni che ci rallegrano biologicamente. La cattiva notizia è che il nostro corpo non può mangiare o copulare di continuo. Anzi, in confronto ad altri animali, siamo piuttosto carenti... E un motivo c’è: evoluzionisticamente parlando, è un bene che la felicità nell’uomo sia transitoria. Se potessimo copulare ininterrottamente (o mangiare quantità enormi di cibo), non faremmo altro. La spinta evoluzionistica invece grida: ”Resta affamato!”. Quindi caccia, lotta, migliora, evolviti per avere di più. Di conseguenza, è come se l’evoluzione stessa c’imponesse l’insoddisfazione». Voler diventare più felici è un po’ come bloccare l’ansia evoluzionistica. Il che - secondo alcuni - oggi come oggi sarebbe un bene. Basta combattere: diventiamo piuttosto meno aggressivi e più positivi, nei confronti degli altri e dell’ambiente. L’idea che i tempi siano ormai maturi per questa radicale presa di coscienza seduce anche Ruut Veenhoven, che già abbiamo incontrato. Da anni, infatti, lo studioso conduce il suo rivoluzionario progetto online, il World Database of Happiness, un archivio mondiale della felicità. «Il database aiuta gli scienziati ad avere una visione globale delle ricerche sulla felicità. A portata di mouse, è possibile ottenere statistiche, analisi e saggi sull’argomento. Dalla felicità del singolo ai livelli d’ottimismo raggiunti da intere nazioni o culture». Proprio così: esiste persino una classifica dei Paesi più o meno ottimisti. Dove si nota a colpo d’occhio che - anche qui - i soldi non fanno la felicità: i nigeriani, per esempio, sono su di morale quanto gli italiani, nonostante la disparità del reddito pro capite. Ma quanto sono realmente ottimisti i nostri compatrioti? «Non so con certezza quanto siate davvero felici, voi italiani», commenta Veenhoven. «Posso dire che, in Europa, i più ottimisti sono gli svizzeri, seguiti a ruota dai danesi. Si può comunque affermare che l’italiano è mediamente felice, poiché su una scala da 0 a 10 siete attualmente collocati su un valore di 6,9. L’Italia si trova più in basso della Svizzera (che raggiunge quota 8), ma supera parecchie altre nazioni. Senza dubbio non siete afflitti come russi e ucraini. Un fattore è comunque interessante: negli ultimi 30 anni, il livello d’ottimismo in Italia è aumentato in misura maggiore che in molti altri Paesi, presi nel medesimo periodo. Per indagare più a fondo, comunque, basta entrare nel mio World Database of Happiness e cercare sotto ”Distribution in nations” (distribuzione per nazioni), ”Finding Reports (ricerca informazioni) e ”Trends” (tendenze). Spero che saperlo vi renda felici».