MACCHINA DEL TEMPO giugno 2005, 8 novembre 2005
Eschilo, il grande poeta greco, morì di calvizie. D’accordo, non è una malattia mortale, ma lui aveva il cranio così pelato e lucido che un’aquila, o un falco, lo scambò per un sasso e lo centrò con una testuggine per romperne il carapace e mangiarsi la carne
Eschilo, il grande poeta greco, morì di calvizie. D’accordo, non è una malattia mortale, ma lui aveva il cranio così pelato e lucido che un’aquila, o un falco, lo scambò per un sasso e lo centrò con una testuggine per romperne il carapace e mangiarsi la carne. Non sappiamo se la testuggine si sia spaccata, ma secondo il racconto dei contemporanei, la testa di Eschilo sì. Nel 456 a.C. il poeta si trovava a Gela e camminava, tutto preso dal suo tema preferito, la volontà dell’uomo che attraverso la sofferenza può svincolarsi dalle punizioni degli dei, quando il proiettile vivente l’ha colpito. Il destino gli aveva fissato l’appuntamento con la morte proprio in quell’ora, e gliel’ha mandata dal cielo. Così la sua strana fine è diventata il primo esempio, in epoca storica, dell’uso di arnesi da parte degli animali. L’utensile, in quel caso, era la testa del poeta che l’uccello aveva preso per un’incudine di pietra. Sono molti gli uccelli che volando lasciano cadere le prede dal guscio duro su un muretto o su una roccia per spezzarle. Qualche zoologo afferma d’avere visto gli stercorari (Catharacta skua) rompere con lo stesso sistema le uova di pinguino, mentre i gipeti (Gypaetus barbatus) lanciano sui sassi anche le ossa lunghe delle vittime per prenderne il midollo. I corvi lo fanno con i molluschi dalle valve troppo dure e con le noci; i capovaccai (Neophron percnopterus) con le uova dei pellicani, mentre uccelli più piccoli si contentano di uova di gallina o di piccione, ma tutti hanno una mira perfetta. I mustelidi e i viverridi fanno esattamente il contrario: le manguste, per esempio, tirano le pietre alle uova, ma se le uova sono di struzzo, troppo grandi, ci rinunciano. I maschi degli uccelli giardinieri australiani o della Nuova Guinea, per sedurre una bella, costruiscono complesse pergole-nido alte anche tre metri, decorate con oggettini vari trovati qua e là, e in qualche caso anche dipinte. La tinta se la fabbricano sbecchettando polpa di frutti, erba, fiori e bacche, mentre ricavano il pennello da un pezzo di corteccia pazientemente sfilacciato che poi inzuppano nel colore e passano col becco sui ramoscelli intrecciati, dai quali è sorretta la struttura. Le belle valutano l’offerta migliore prima di scegliere il partner. La scienza ormai non si meraviglia più dell’intelligenza dei pennuti perché ha dovuto arrendersi al fatto che le loro cellule cerebrali, perfino quelle di un minuscolo passero, sono tante quanto le nostre, però molto miniaturizzate. Anche l’acqua in certi casi può essere usata dagli animali come un utensile. Un elefante indiano (Elephas maximus) ogni mattina veniva accompagnato sul Gange per abbeverarsi (succhiano perfino duecento litri d’acqua al giorno) e lungo la strada aveva preso l’abitudine di infilare la proboscide dentro la finestra di un laboratorio di sartoria, dove gli davano sempre noccioline o qualche altra cosetta da mangiare. Un giorno però nella stanza c’era un lavorante nuovo che vedendo la proboscide s’è spaventato, o ha voluto scherzare, e l’ha punta con l’ago. L’elefante è andato via senza fare storie ma al ritorno - percorreva sempre lo stesso tragitto - quand’è arrivato davanti alla sartoria, ha infilato la proboscide nella finestra e ha annaffiato tutti con un poderoso getto d’acqua. Sicuramente ne aveva bevuta più del solito per vendicarsi. Oltre a essere intelligenti, gli animali sanno più cose di noi. Prendiamo il caso di un giovane elefante indiano che viveva in uno zoo ed era tormentato da un ascesso alla proboscide. I custodi non riuscivano a curarglielo, così un giorno ci pensò da solo: poggiò la proboscide – racconta lo zoologo Steinbacher – sulla punta di un ramo sporgente facendolo penetrare piano piano nella carne per almeno mezzo metro, poi la ritirò lasciando sulla punta del ramo una massa di pus e di sangue. Dopo essersi inciso l’ascesso da solo, guarì in pochi giorni. Chiunque ha visitato qualche parco che ospita elefanti, soprattutto in Africa dove si incontra la Loxodonta africana, si sarà accorto che quei pachidermi usano rami con frasche per grattarsi la schiena o scacciare gli insetti e qualche volta agitano minacciosi pezzi d’albero davanti ai visitatori per mandarli via. Dipende dall’umore: non sempre sono disposti a ricevere visite e dare spettacolo. Nello zoo di Basilea alcuni orsi bruni detti ”dagli occhiali” (Ursus ornatus) usavano anche loro dei rami che i custodi gli davano per giocare, ma se ne servivano per raggiungere certi alberi alla sommità della grotta, battendoli finché facevano cadere i frutti e le foglie, che poi mangiavano. L’idea l’aveva avuta per prima una giovane femmina e in poco tempo tutto il gruppo aveva imparato. Gli eschimesi, che hanno una certa dimestichezza con gli orsi polari (li chiamano ”nanook”, però il nome scientifico è Thalarctos maritimus), raccontano che questi pericolosissimi e affascinanti carnivori, sempre in cerca di cibo fresco, staccano dal pack grosse schegge di ghiaccio e le scagliano contro le foche e i trichechi addormentati. Se le schegge sono troppo grosse e scomode da portare – a volte un orso deve percorrere diversi metri prima di raggiungere la preda - le riducono di volume leccandole, ma se sono troppo piccole aggiungono spessore immergendole nell’acqua, che gela subito. Il pollice opponibile dei panda (non è un vero dito ma solo un osso chiamato ”sesamoide radiale”) forma una specie di mano che a loro serve soprattutto per ripulire le canne di bambù dalle foglie e prendere i germogli. Con quelle sue ”mani” potrebbe fare qualunque cosa, ma è pigro. Gli zoologi Eisenberg e Kleiman raccontano di avere visto solo una volta il Panda gigante (Ailuropoda melanoleuca) prendere con le zampe anteriori alcune zolle erbose e pulirsi con quelle gli arti inferiori: usano le zolle, insomma, come uno straccio o una specie di spazzola. Le lontre marine, furbe e giocherellone, spesso mettono i molluschi dal guscio duro in equilibrio sul petto. Stanno nell’acqua a pancia in su, e li rompono con qualche pietra che portano nelle zampe anteriori, ma se il lavoro dura troppo e il petto comincia a fare male, vanno in cerca di incudini fisse. Dopo mangiato battono le pietre una contro l’altra e ci giocano come bambini, mentre i loro occhi scintillano di allegria. Le scimmie antropomorfe, per quanto riguarda l’uso degli utensili, superano tutti. Essendo le più vicine a noi sono anche le più truffaldine, ossia hanno imparato addirittura l’arte dello scambio e del ricatto. «Alcune di loro – scrive lo studioso Eugene Linden – sembrano ormai appartenere alla società dei consumi». Nelle colonie di scimpanzé si è visto che alcuni maschi cedono le proprie vivande per ottenere prestazioni gay, e vanno sempre in cerca di oggetti che possano procurargli più ”potere”. Gli zoologi nelle loro tane hanno trovato non solo cibi, ma anche cose come pentole a pressione e binocoli, che poi scambiano con altri beni di consumo. Secondo Charlene Jendry del Columbus Zoo, quando i primati in prigionia mettono le mani su qualcosa che ritengono importante per gli umani, avviano trattative per il baratto e mostrano di avere capito le leggi del mercato. Un gorilla andò a dirle nel suo linguaggio da muti: «Colo (cioè io) ha preso una cosa e ce l’ha in mano». Charlene offrì noccioline, ma Colo la fissò con lo sguardo assente. Allora lei alzò la posta e offrì dell’ananas. A quel punto Colo fece intravedere il tesoro con l’espressione di un ricettatore che vende merce di soppiatto mostrandola a un possibile acquirente. Aveva in mano un portachiavi con catenella, però da astuto commerciante qual era diventato ha rotto la catenella e gliene ha dato solo un pezzo. Sicuramente pensava: «Perché devo darti tutto se posso ottenere dell’ananas per ogni parte?». Insomma aveva imparato ad accrescere il proprio potere restituendo i tesori un po’ alla volta e infatti in un’altra occasione, dopo avere preso una tazza di plastica che Charlene rivoleva, Colo l’ha rotta e ha chiesto una ricompensa per ogni pezzo. Lo storico Giorgio Vasari, nelle sue Vite, racconta di uno scimmiotto che lui chiama ”bertuccione” e che apparteneva al pittore detto Rosso Fiorentino. La bestia era così furba che Battistino, il servo del Rosso, la mandava a rubare la bellissima uva San Colombana da un pergolato sotto la sua finestra, nell’orto dei frati di Santa Fiore, calandola e poi tirandola su con una corda. Alla fine, quando il bertuccione fu sorpreso dal frate guardiano, che s’era appostato in modo da scoprire chi fosse il ladro, strappò tutti i sostegni e fece crollare la pergola, cadendo anche lui addosso al frate, ma scappando con l’uva nella confusione generale. Tutti i primati in cattività si specializzano in fughe ben studiate, scassinando lucchetti d’ogni tipo e riuscendo perfino, in qualche caso, a scavalcare un filo elettrificato, come ha fatto Jonathan nel Kansas City Zoo del Missouri. Gli avevano dato un vecchio pneumatico per giocare e lui ha pensato bene di sistemarlo a cavallo del filo in modo da passarci sopra senza prendere la scossa. Il più famoso però resta Fu Manchu, un orango di Sumatra, che usava un pezzo di filo di ferro rigido, di cui era riuscito chissà come a impadronirsi, per realizzare una serie di fughe di gruppo dallo zoo di Omaha. Lavorava il ferro riuscendo sempre a ricavarne lo strumento adatto per aprire i chiavistelli con abilità e furbizia degne dei fuggiaschi di Alcatraz. Jerry Stones, il supervisore dello zoo, aveva dato ordine ai guardiani di sequestrare lo strumento, ma loro non riuscivano a trovarlo. Un giorno Stones ebbe l’impressione di vedere un riflesso metallico sotto le labbra di Fu Manchu, gli infilò la mano in bocca e gli strappò il filo, che l’orango aveva pazientemente adattato all’arcata dentale. Era quello il ripostiglio segreto. La storia ebbe una tale eco sui giornali che Fu Manchu fu nominato membro onorario dell’Associazione Americana dei Fabbri. Anche i cani, come racconta Bonnie Beaver dell’Università A&M del Texas, sanno trovare le loro vie di fuga, almeno per andare ad annusare il mondo circostante. Ce n’era uno che scappava sempre dal giardino chiuso da un’alta palizzata. Saliva su una catasta di legna e saltava di là. Allora i proprietari hanno messo la catasta in mezzo al cortile, ma il cane ha cominciato subito a costruirla di nuovo riportando la legna, pezzo per pezzo, vicino al recinto. I delfini non sono soltanto intelligentissimi e usano attrezzi per gioco, ma anche seriamente, come accade quando vengono addestrati dai militari. La storia umana è piena fin dall’antichità di azioni prodigiose compiute dai delfini per salvare gli esseri umani, ma la vicenda più emblematica è accaduta all’acquario di Miami, dove abitava una femmina di stenella col suo piccolino. Un visitatore osservava i due con interesse, fumando una sigaretta e lanciando volute di fumo ad anello verso la vetrata. Il delfinetto ha osservato un po’ l’uomo, poi è andato a prendere una boccata di latte dalla mamma, e l’ha sputata verso il vetro, proprio davanti al fumatore, formando nell’acqua volute bianche molto simili alle sue. Se la natura, o chi per lei, ha riversato intelligenza sul nostro pianeta (con gli ominidi è accaduto qualche milione di anni fa), di sicuro non l’ha fatto solo con noi. E alcuni animalini sembrano essere stati trafitti da quel meraviglioso raggio di luce in modo speciale, come i ragni. Storie ancora oggi incredibili dimostrano che la loro straordinaria abilità non è frutto del puro istinto, ma anche della ragione. Per esempio chi ha suggerito all’Argyroneta acquatica di andare a vivere sott’acqua costruendo e ancorando una campana di seta piena d’aria respirabile, che porta giù lui stesso? Istinto, puro istinto, si diceva. Allora perché, invece di costruire una bolla, l’Argyroneta a volte prende il guscio di una grossa chiocciola vuota, lo capovolge e la riempie d’aria? E il ragno Cteniza, che si costruisce trappole a botola con il coperchio rotondo, come mai in qualche caso, dopo avere trovato una moneta, la riveste di seta e usa quella, invece di fare il solito lavoro? E come mai certe api che abitavano in una raffineria di zucchero hanno smesso di fare il miele? C’è una storia quasi fantastica di cui è protagonista una di quelle vespe che paralizzano le vittime per darle in pasto alle proprie larve. Un giorno, mentre attaccava un ragno, è stata osservata dall’aracnologo John Crompton che ha raccontato la storia nel suo libro The spider: la brava madre si affannava per portare il ragno al nido, ma il carico era troppo pesante e lei non riusciva a levarsi in volo. Così ha deciso di andare fino a un ruscello vicino e di posarlo sull’acqua. Reggendolo per le zampe anteriori -il corpo paralizzato galleggiava - la vespa ha cominciato a sbattere le ali e lentamente, come un elicottero che rimorchi un barcone, ha trainato la preda fino a casa, approfittando della corrente che in quel caso era diventata per lei uno strumento. Lo zoologo ha raccontato che dopo quello spettacolo s’era convinto che «anche gli insetti devono avere i loro Galilei e i loro Newton».