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 2005  novembre 08 Martedì calendario

Quando Cristoforo Colombo attraversò l’Oceano Atlantico per raggiungere quelle che chiamava Indie, il mare era abitato da almeno una dozzina di specie più grandi delle sue caravelle

Quando Cristoforo Colombo attraversò l’Oceano Atlantico per raggiungere quelle che chiamava Indie, il mare era abitato da almeno una dozzina di specie più grandi delle sue caravelle. Al largo di Cuba c’erano così tante tartarughe verdi da mezza tonnellata che la sua nave praticamente ci si arenò sopra, ed è celebre lo spavento che si prese al largo di Hispaniola (l’odierna Haiti) quando vide fuoriuscire dall’acqua degli esseri strani che prese per sirene (erano lamantini, innocui mammiferi erbivori). Quello era un mondo in cui i vascelli entravano spesso in collisione con le balene, i merluzzi si potevano pescare col cestino e le ostriche erano così numerose che in certe baie servivano appena 4-5 giorni per filtrare tutta l’acqua. Fino a un secolo fa, di specie a rischio d’estinzione per colpa dell’uomo in mare ce n’erano poche. Poi le cose sono peggiorate: molte barriere coralline sono state spianate, la vegetazione sul fondo del mare è stata grattata via, i fiumi con il loro carico di veleni e i pescatori con le loro tecniche sempre più spietate hanno fatto strage. Ciò nonostante, la maggior parte degli studiosi assicura che non siamo ancora arrivati al punto di non ritorno e che si potrebbe tornare alla vecchia abbondanza, se solo avessimo un po’ più di rispetto per l’ambiente. Va peggio sulla terraferma. Prima che l’uomo facesse la sua comparsa, gli uccelli potevano volare dal Mississippi all’Atlantico senza mai atterrare su nient’altro che alberi e le foreste coprivano l’Europa dagli Urali alla Manica. Oggi le specie estinte o in via d’estinzione sono molto più numerose che negli oceani, e purtroppo non è sicuro che un maggior rispetto per l’ambiente scongiurerebbe il pericolo. Anzi, siamo messi talmente male, che per i più radicali c’è un solo modo di tornare all’Eden che ci piace immaginare: far sparire l’uomo. In Earth Abides di George R. Stewart, un’epidemia cancella l’umanità dalla faccia della Terra. Mettiamo il caso che si verifichi qualcosa del genere: quanto tempo ci vorrebbe per rimettere le cose a posto? Decenni? Secoli? Millenni? Di più? Prendiamo l’esempio del Guatemala settentrionale, dove tra il Nono e Decimo secolo d.C. la combinazione di siccità e guerre intestine si abbatté su una popolazione già in declino, svuotando città Maya vecchie di duemila anni: in dieci secoli, tutti i palazzi furono completamente seppelliti dalla giungla. Ma quelle città erano circondate da foreste, e certo non estese come le nostre megalopoli. Quanto tempo impiegherebbe la natura per cancellare una città come New York? Jameel Ahmad, capo del dipartimento di ingegneria civile al Cooper Union College, dice che l’alternarsi di gelo e disgelo, frequente in mesi come marzo e novembre, schianterebbe il cemento in dieci anni, aprendo la strada all’infiltrazione dell’acqua; questa, congelando nuovamente, allargherebbe le crepe procedendo nella distruzione. Dennis Stevenson, senior curator dei Giardini Botanici, immagina che in appena cinque anni le radici degli alberi solleverebbero i marciapiedi e spaccherebbero le fogne. Quando nel 1609 arrivarono a Manhattan i primi olandesi, contarono una quarantina di fiumiciattoli: un enorme sistema di pompaggio evita che tornino ad allagare la città, ma tagliata la corrente elettrica ricomparirebbero alla svelta. In breve l’acqua fradicerebbe tutto iniziando a corrodere le colonne dei palazzi e le linee metropolitane. Conclusione: nel giro di vent’anni al posto dell’East Side ci sarebbe un fiume. L’architettura di New York non è particolarmente infiammabile, ma questo non renderebbe meno frequenti gli incendi: per far divampare le fiamme in tutta la città basterebbero le foglie secche accumulate nelle grondaie e la scintilla di qualche fulmine. A meno di terremoti di enorme intensità, ci vorrebbe più tempo per liberarsi dei ponti. Bulloni e tiranti potrebbero reggere per centinaia di anni, l’Hell Gate Arch pure per mille. Ma cosa succederebbe alla flora e alla fauna che fanno compagnia agli abitanti della Grande Mela? Predatori tipo il lupo e l’orso raggiungerebbero prima o poi la città, dove appena arrivati farebbero strage di animali domestici. Cani e gatti non avrebbero possibilità alcuna di sottrarsi alla decimazione. Certo, presto regredirebbero allo stato selvatico originario, ma questo non basterebbe a salvarli. Lo dice la storia. Sparirebbero pure topi e scarafaggi: i primi, senza immondizie con cui banchettare, sarebbero presto ridotti alla fame e infine sterminati da aquile e falchi; i secondi, originari dell’Africa, senza impianti di riscaldamento morirebbero di freddo. Resterebbe ben poco anche della vegetazione: carote e cavolfiori, per esempio, in poco tempo tornerebbero allo stato in cui si trovavano prima che l’uomo prendesse a coltivarli, cioè immangiabili. Ma siamo sicuri che le cose potrebbero andare solo in questo modo? Viene subito un dubbio: ha senso cercare di prevedere l’evoluzione futura basandosi su quella passata? Soprattutto: dove sta scritto che la natura dovrebbe tornare indietro (di molte mutazioni genetiche) a prima della nostra comparsa? Chi ci dice che non seguirebbe nuove imprevedibili strade? Prendiamo gli animali domestici: li abbiamo sparpagliati così bene a ogni capo del pianeta che forse non sarebbe tanto facile per i predatori farne strage. Quanto ai topi: mica è sicuro che senza le immondizie non avrebbero altra sorte che il digiuno. Potrebbero rimpiazzarle con le uova degli uccelli, o con un po’ d’invertebrati. Altra questione: cosa succederebbe alle sostanze tossiche sparse nell’ambiente? Prendiamo il caso dell’ex arsenale delle Montagne Rocciose, vicino all’aeroporto internazionale di Denver: in passato vi si producevano armi chimiche, poi pesticidi. Nel 1984, quando era considerato il posto più inquinato degli interi Stati Uniti, le anatre che atterravano nel laghetto al suo interno vi restavano secche in dieci minuti. Oggi le aquile calve vi prosperano. Prima d’andarsene, però, l’uomo ha fatto pulizie (per 130 milioni di dollari): che cosa sarebbe successo se avesse lasciato tutto com’era? Ci sono varie scuole di pensiero: alcuni ritengono che i danni all’ambiente sono ormai irreparabili, che abbiamo mandato tutto in malora e niente può porvi rimedio; altri suggeriscono che abbiamo stivato in giro tante sostanze pericolose che sarebbe meglio restare in giro per continuare a tenerle d’occhio; altri ancora ammoniscono che non bisogna sopravvalutare l’uomo, che i suoi poteri sono ben poca cosa rispetto a quelli della natura, che un’eruzione vulcanica può diffondere nell’ambiente più sostanze tossiche di quelle prodotte dalla rivoluzione industriale a oggi e che il petrolio che inquina naturalmente spiagge e mari è ben maggiore di quanto liberato in disastri come quello della petroliera Exxon Valdez. Per vedere chi ha ragione, non c’è altro modo che fare una prova, ma almeno su questo siamo tutti d’accordo: è un po’ complicato. Non resta allora che cercare un posto nel mondo dal quale l’uomo sia effettivamente sparito. Potrebbe andar bene la zona montagnosa demilitarizzata al confine tra Nord e Sud Corea: lunga 250 chilometri, larga 4, è inaccessibile dal 1953 e in oltre cinquant’anni è stata attraversata giusto da qualche morto di fame in fuga dal regime di Kim Jong Il e dalle camionette che non rinunciano a dargli la caccia. Prima, per cinquemila anni, era stata abitata da coltivatori di riso che, per poter lavorare, l’avevano cosparsa di terrazze. Oggi quelle risaie sono irriconoscibili, ridotte a paludi. In compenso abbondano le rarissime gru dalla cresta rossa. E si cominciano a rivedere lontre, alci muschiate, orsi neri asiatici, tigri siberiane, tutte specie che in quelle zone erano ormai ridotte a pochi esemplari. Ma che importanza può avere un esperimento lungo poco più di 50 anni? In Europa abbiamo un posto dove l’uomo non mette piede da ancora più anni: si tratta di un’area vasta circa duecentomila ettari al confine tra la Polonia e la Bielorussia, la Foresta Bialowieza: nel Quattordicesimo secolo un duca lituano ne fece la sua riserva di caccia. E quella fu la sua destinazione per secoli. Nel 1888 quelle terre divennero dominio dello zar di Russia, ma una parte rimase intatta grazie ai polacchi, che nel 1921 ne fecero un parco nazionale. Quando arrivò l’invasione nazista, Hermann Göring, che era un fanatico della natura, dichiarò off limits l’intera zona. Alla fine, Stalin ne lasciò alla Polonia due quinti, che sono giunti intatti fino a noi: la natura è così rigogliosa, la vegetazione tanto ricca e florida, la fauna così varia e numerosa, che per qualcuno è impossibile non imprecare contro la razza umana. Insomma, quelli che se potessero ci manderebbero tutti quanti su Marte (la chiamano ecologia distopica) giurano che piante e animali non sentirebbero la nostra mancanza, anzi: la maggior parte del diossido di carbonio disperso nell’aria dalle nostre attività industriali sparirebbe entro 200 anni, permettendo il raffreddamento dell’atmosfera. In qualche decennio il buco nell’ozono sarebbe rattoppato e i danni prodotti dai raggi ultravioletti si attenuerebbero. Alla fine, metalli pesanti e sostanze tossiche sarebbero smaltiti dal sistema, ci potrebbe volere qualche millennio giusto per pochi intrattabili policarburi. Nel frattempo tutte le dighe sarebbero crollate e l’acqua laverebbe i continenti portando ovunque le sostanze nutrienti del mare, dove si troverebbe la maggior parte degli esseri viventi, proprio come all’epoca in cui i vertebrati cominciarono a strisciare sulla terraferma. E tutto ricomincerebbe daccapo. Viene da chiedersi: se si dà per scontato che l’uomo è per sua essenza un organismo distruttore, perché allora non mettere sotto sfratto altre specie viventi? Le capre, per esempio, sono colpevoli di degradazione del suolo, disboscamenti ecc. Perciò dovrebbero sparire anche loro. Poi, in una sorta di arca di Noè alla rovescia, si potrebbero imbarcare elefanti, ippopotami, conigli, talpe, cavallette... E sarebbe difficile resistere alla tentazione di dare una sistemata anche alle piante, cominciando con le infestanti e le parassite. Infine, si potrebbero mettere sotto accusa ogni forma di vita. E sai che brutto scherzo se poi, una volta fatta piazza pulita, ci pensassero terremoti e vulcani a distruggere tutto.