MACCHINA DEL TEMPO giugno 2005, 7 novembre 2005
Dan Brown è stato qui, prima di scrivere il suo best seller, Angeli e Demoni. Si è guardato attorno, ha annusato l’aria e ha trasformato la cittadella scientifica del Cern in un castello stregato ad alta tecnologia, dove scienziati d’ogni disciplina mescolano elettroni e positroni in arcani pentoloni magnetici, sepolti sottoterra come catacombe
Dan Brown è stato qui, prima di scrivere il suo best seller, Angeli e Demoni. Si è guardato attorno, ha annusato l’aria e ha trasformato la cittadella scientifica del Cern in un castello stregato ad alta tecnologia, dove scienziati d’ogni disciplina mescolano elettroni e positroni in arcani pentoloni magnetici, sepolti sottoterra come catacombe. Eppure, a prima vista, questo luogo non lontano dall’aeroporto di Ginevra, in stile razionale, quasi dimesso, non incute alcun timore reverenziale. Che cosa avrà mai visto, lo scrittore, lungo queste vie intitolate agli scienziati? Che cosa l’avrà incuriosito di questo luogo, che possiede una squadra di calcio e una di rugby quasi fosse un college anglosassone, per tramutarlo in uno dei poli tensivi del suo elettrizzante romanzo? ’Macchina del Tempo”, dopo aver raccontato - nello scorso numero d’aprile - tutto quanto volevamo sapere sull’antimateria e non avevamo mai osato chiedere prima, ora desidera ripercorrere le medesime strade seguite da Dan Brown e investigare, con occhi scevri da ogni tentativo di fiction, quale sia il Cern autentico. Cern: l’acronimo si svolge in Conseil européen pour la recherche nucléaire. In italiano, parola per parola, significa ”Consiglio europeo di ricerche nucleari”, ma il nome stesso è già obsoleto. ”Consiglio” era l’ente che precedette l’odierna ”Organizzazione”, tanto che oggi - più che di un consiglio o di un centro - sarebbe appunto più corretto parlare di organizzazione intergovernativa finanziata da 20 stati europei, a cavallo tra Francia e Svizzera. Tra questi edifici numerati, una mensa, alcune caffetterie, vari esemplari arborei, parcheggi, un albergo; insomma tra quest’architettura un po’ svizzera e un po’ démodé, Dan Brown ha intravisto la replica improbabile di un campus universitario made in Usa. Invece, l’unica cosa che stride e contrasta è la statua di una divinità induista dalle braccia tentacolari, dono della Commissione per l’energia atomica dell’India. Ma, si sa, come in tutti i castelli stregati che si rispettino - siano essi tecnologici oppure no - anche al Cern i veri segreti sono ben sepolti. Questi, poi, sono addirittura a 100 metri sotto il livello del suolo: a tale profondità giace un drago d’acciaio e campi magnetici lungo 27 km, che s’attorciglia ad anello nella durissima roccia della montagna. Si sveglierà tra un paio d’anni e nel suo corpo collideranno e s’annichileranno particelle subatomiche che racchiudono tutti i segreti dell’universo. Questo acceleratore di particelle si chiama Large Hadron Collider (Lhc): in Angeli e Demoni già funziona a pieno regime, ma fuori di finzione dovrà attendere ancora un po’. Ciò nonostante, una nuova generazione di esperimenti è pronta a regalare meraviglie, con tecnologie così all’avanguardia da rendere il Cern il più importante polo mondiale per la fisica nucleare. Lungo l’anello dell’acceleratore Lhc, sono ben quattro i punti ove si verificheranno gli scontri tra particelle. In ogni posizione è stato posto un rilevatore, che rappresenta un progetto a sé, poiché concepito per studiare un effetto particolare. Il più noto si chiama Atlas, cioè ”Atlante”. E il nome del mitico titano che reggeva sulle spalle il mondo non è dato a caso. L’ingresso alle segrete del Cern si trova in una sorta di hangar appena fuori dalla cittadella, dove un ascensore consente di raggiungere il rilevatore Atlas nel sottosuolo. Elmetto giallo da cantiere in testa, quando si giunge sul fondo non si può evitare di guardare in alto, seguendo la lama di luce che filtra attraverso il grandissimo buco che raggiunge la superficie. L’enorme tunnel verticale, consolidato con il cemento armato, è fitto fino in cima di vertiginose impalcature di lucente alluminio, su cui ferve il lavoro dei tecnici. «Potrebbe contenere un palazzo di 10 piani», dice ammirato Benedetto Gorini, 37 anni, fisico toscano che lavora al Cern dai tempi della laurea alla Normale di Pisa. Oggi si occupa della selezione, in tempo reale, dei dati che giungono dal rilevatore Atlas e del loro trasferimento nei centri di calcolo. Perché il circuito e i rilevatori sono posti in una caverna sotterranea? «Per la stabilità geofisica», risponde. «Lo scavo è stato realizzato in un suolo roccioso molto solido, anche se tuttora soggetto a un certo sollevamento. Quando avrà finito di assestarsi, non vi saranno ulteriori vibrazioni di sorta». Davvero non ci sono ben altri motivi per una simile e costosissima ubicazione, magari per contenere incontrollabili esplosioni d’antimateria à la Dan Brown? «Per carità», sorride Gorini. «Le ragioni di questo sotterraneo sono soltanto di stabilità, indispensabile per la precisione delle rilevazioni. Le particelle che studiamo si caricano al massimo di un’energia pari a quella di una mosca. Enorme rispetto alle loro dimensioni infinitesimali, ma piccola in assoluto. I protoni collidono dopo esser stati accelerati in direzione opposta alla velocità di 7 Tev, ossia 7 milioni di milioni di elettrovolt. Per mantenerli in traiettoria occorrono campi magnetici pari a quasi 200 mila volte quello terrestre. Atlas ha quattro strati, quasi fosse una cipolla. Per ogni sua ”buccia” una diversa misurazione, che si basa sui segnali elettrici generati dall’interazione tra le particelle prodotte nella collisione e i materiali del rivelatore». La cosiddetta ”cipolla” è un apparato alto 25 metri. Sembra una capsula spaziale. «Il numero di collisioni è altissimo, circa 800 milioni il secondo: i dati corrispondenti occuperebbero il volume di diecimila Enciclopedie Britanniche. Ne selezioniamo solo un centinaio». «Molti esperimenti condotti al Cern hanno avuto ricadute pratiche, oltre che scientifico-teoriche», sottolinea il fisico toscano. «Il Web, ad esempio, è stato inventato proprio qui, per consentire agli scienziati di diversi laboratori di condividere i risultati del loro lavoro: esattamente come narra Dan Brown nel suo libro. Ma non mancano traguardi in medicina nucleare, risonanza magnetica e radioterapia contro i tumori». La nuova frontiera, in quest’ultimo campo, sono i fasci di adroni, particelle elementari responsabili delle forze di coesione presenti nei nuclei atomici. Sono adroni - per esempio - i barioni (come il neutrone e il protone) e i mesoni. «Questi fasci, al contrario di quelli di elettroni, possono essere calibrati per interagire solo in una zona circoscritta di tessuto, dove si trovano le cellule cancerogene, e non intaccare gli altri tessuti attraversati. Il Cern ha inoltre messo a punto una tecnologia, la Pet, che, grazie alla metabolizzazione di zuccheri radioattivi, consente di avere immagini del funzionamento cerebrale di individui vivi, cosa che prima non era possibile. Le nostre scoperte sono brevettate soltanto per impedire che altri le sfruttino economicamente, ma le nostre acquisizioni scientifiche sono libere, a disposizione di tutti». Il Cern è sorto 51 anni fa, il 29 settembre del 1954, per tamponare la fuga di cervelli dall’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, oltre che per consentire al Vecchio Continente di tenere il passo rispetto a Stati Uniti e Unione Sovietica nella ricerca nucleare, sia pur con obiettivi dichiaratamente civili, come da statuto. Altro scopo è favorire la collaborazione tra gli Stati europei: al nucleo dei fondatori, quattordici con l’Italia in posizione trainante, se ne sono aggiunti altri sei, dopo il crollo della Cortina di Ferro. Non manca il sostegno extracomunitario, dalla Cina al Brasile e al Giappone. Al centro lavorano all’incirca 6.500 scienziati. Tra le conquiste riportate c’è il supercollisore protone-antiprotone, una macchina rivoluzionaria, concepita e realizzata da Carlo Rubbia e da Simon Van der Meer, grazie a cui è stato possibile osservare, nel 1982, i mediatori delle interazioni deboli, coronando una ricerca scientifica durata oltre 50 anni. A Rubbia e a Van der Meer fu attribuito il Nobel per la fisica nel 1984. Oltre a loro, il Cern vanta altri due Nobel: Jack Steinberger (per la scoperta del neutrino muonico) e Georges Charpak (per l’invenzione delle camere a filo). All’una passata per le vie della cittadella del Cern non si vede quasi più anima viva. Sono tutti in mensa. Tra uno spiedino di salmone e una anatra arrosto, i due secondi piatti principali, si aggira una folla affamata di persone che hanno il tipico aspetto da professore trasandato. Se vi aspettate il Dottor Frankenstein, rimanete delusi. Nel primo pomeriggio, dopo una conversazione con Gorini sulla fuga dei cervelli che si verifica in Italia («Gli stipendi dei nostri ricercatori non sono competitivi, anche se qui, a Ginevra, la vita è molto cara. Mandare due figli all’asilo, per esempio, mi costa oltre mille euro il mese»), e prima di visitare un altro progetto, Alice, c’è il tempo per dare un’occhiata al centro informatico. Qui è stato inventato il Web e il passo successivo, spiega l’italiana Rosy Mondardini, sarà il Grid, la Griglia. «Il Web permette di condividere informazioni attraverso un sistema di server; la Griglia (o Grid) consente di condividere hardware. In pratica, se il tuo computer è acceso e inutilizzato o sottoutilizzato, qualcuno, ovunque si trovi, può servirsene. Qualcosa del genere succede già con il progetto SETI@home, una rete di Pc privati, collegati a un osservatorio americano per la ricerca della vita extraterrestre, che elaborano informazioni provenienti dallo spazio». Alice è un progetto nato nel 1989 con un nome che è evidente riferimento al mondo meraviglioso del personaggio di Lewis Carroll, come conferma un grande murales posto sopra al gigantesco rilevatore e realizzato da una giovane artista. La partecipazione è decisamente transnazionale, anche se l’Italia ha un ruolo di primo piano. Il nostro fisico Antonino Zichichi, per esempio, guida il gruppo di ricercatori che ha realizzato uno strumento di misurazione del cosiddetto ”tempo di volo” con una precisione di pochi picosecondi: la natura delle particelle determinata in base al loro tempo di percorrenza. «Moltissimi altri scienziati di circa trenta nazioni diverse hanno offerto il loro contributo di ricerca» spiega Paolo Giubellino, fisico dell’Istituto nazionale per la fisica nucleare, che si divide tra Torino e Ginevra. Alice, come Atlas, giace sottoterra, ma non studia la collisione di particelle elementari, bensì di interi nuclei, il cuore pesante in cui è concentrata la massa degli atomi. «Tentiamo di ricreare le esatte condizioni che esistevano nel primordiale universo», spiega Giubellino. «Il tempo brevissimo dopo il Big Bang, quando la temperatura era 100.000 volte quella del centro del sole. Fu in quel decimilionesimo di secondo che si formarono le particelle da cui ancor oggi siamo circondati. Per studiare in pratica l’origine della materia, i nuclei sono accelerati e poi fatti collidere fino a raggiungere densità e temperature simili a quelle delle prime fasi dell’universo. Gli strumenti di rilevazione saranno posti dentro al più grande magnete del mondo, realizzato con una quantità di ferro pari a quella della Tour Eiffel. Ha cinque megawatt di potenza, come una piccola centrale elettrica, e porte che impiegano un giorno per chiudersi. Il costo di un progetto come Alice è di 100 miliardi d’euro, cifra impensabile se non lo finanziassero un centinaio di istituzioni. Si pensi che il Large Hadron Collider (Lhc) è il più grande sistema a vuoto e superconduttore del mondo». Perché a vuoto? «Perché le particelle colpirebbero le molecole di gas durante l’accelerazione, perdendosi prima di raggiungere l’energia necessaria». Vicino alla scenografia fantascientifica del grande magnete c’è il rilevatore vero e proprio, che sarà calato dentro la bocca della calamita, attraverso porte immense. Giubellino, che ironizza sui bassi salari degli istituti scientifici italiani («Un ricercatore francese mi ha detto che prenderebbe di più come disoccupato, nel suo paese»), è visibilmente entusiasta del lavoro creativo a lungo termine che è possibile sviluppare al Cern («In America vogliono risultati immediati») e guarda quasi con affetto il rilevatore, questo patchwork ipertecnologico di innovazioni provenienti da mezzo mondo. «Ognuno di noi realizza un piccolo pezzo e non sarà ricordato perché il lavoro è collettivo. Un lavoro che è come costruire una cattedrale medievale», conclude Giubellino. Stai a vedere che, alla fine, Dan Brown c’entra davvero qualcosa..............