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 2005  novembre 07 Lunedì calendario

Se l’ozio non è il padre dei vizi, allora che cos’è? Semplice: un tratto fondamentale dell’essere umano, senza il quale difficilmente saremmo ciò che siamo: creativi, intelligenti, pronti a cogliere l’occasione e a sopravvivere

Se l’ozio non è il padre dei vizi, allora che cos’è? Semplice: un tratto fondamentale dell’essere umano, senza il quale difficilmente saremmo ciò che siamo: creativi, intelligenti, pronti a cogliere l’occasione e a sopravvivere. Insomma, a far funzionare la fantasia di una mente rilassata, finalmente privata dallo stress. Le ultime ricerche dimostrano che per scaricare lo stress di un anno trascorso al lavoro servono due settimane di pausa, anche se qualcuno soffre ancora di ”sindrome da vacanza”: una ”patologia della libertà” che causa raffreddori, mal di pancia, sonnolenza, ansia e panico in quelle persone timorose d’interrompere i ritmi abituali e di cambiare i loro equilibri. Chi soffre di questa malattia, insomma, teme più il tempo libero che una convulsa settimana in ufficio. Le conseguenze? C’è chi rinuncia addirittura alla vacanza e chi parte lo stesso ma, tra cellulare, e-mail e Internet sempre connesso, non riesce a divertirsi né a rilassarsi. Una nuova schiavitù? Certamente sì, risponderebbe Marco Tullio Cicerone (106 a.C.- 43 a.C) secondo cui, per essere veramente libero, l’uomo «di tanto in tanto deve oziare». Sulla base di questa definizione, si può dire che sono molti i soggetti privi di libertà. Due lavoratori su dieci, come indicano le ultime statistiche. Fausto Manara, docente di psichiatria dell’Università di Brescia, conferma che la sindrome da vacanza «è un fenomeno diffuso» e spiega che «la gente non si gode più le ferie, ma le consuma. Molte persone non sanno più divertirsi e non sanno ritagliarsi spazi». Per curarsi da questa strana malattia, tuttavia, non servono medicine ma soltanto una maggiore attenzione verso se stessi: «Come per il lavoro, dove ogni giorno ci facciamo una scaletta degli impegni, così si dovrebbe fare nella sfera personale. Può bastare anche una sola mezz’ora al giorno», sottolinea Fausto Manara. «Per fare quello che ci piace. Ma bisogna allenarsi, occorre educarsi al piacere e alla libertà e imparare a goderne». Un’opinione condivisa dal sociologo Domenico De Masi, autore del libro Ozio creativo (Rizzoli, 14,98 euro): «Non sappiamo più oziare. Ci insegnano a lavorare, ma nessuno ci spiega come si sceglie un film, come si legge un libro, come si sceglie un luogo di vacanza o le amicizie«. «Ci sono manager che vivono il mondo esterno solo nella sua dimensione domenicale, non sono mai andati al cinema in un giorno feriale alle tre del pomeriggio. Vivono in una specie di caserma psichica e sono infelici perché sono limitati. Chiusi nella loro boccia aziendale, finiscono per non avere più nessuna idea». Il problema, secondo il professore, è che «la società è tutta incentrata sul lavoro, il tempo libero è considerato un aspetto secondario e di conseguenza non sappiamo come trascorrerlo». Un rimedio? «Cominciare a oziare. Chi non riesce a svolgere il proprio lavoro in otto ore è un incapace. inutile restare dieci ore in ufficio per farsi vedere dal capo. Man mano bisogna staccarsi dal lavoro e levarsi il vizio, proprio come il fumo». A questo scopo è utile sapere che, tempo fa, lo psichiatra Paolo Crepet e i teatranti dell’Archivolto hanno organizzato corsi di ”dolce far niente” in alcuni licei genovesi. A riabilitare la pigrizia nella sua accezione più nobile ci si è messo anche Michele Serra, che si considera un ”ozioso represso”: «Sull’ozio ho capito qualcosina dalle mie sparute letture classiche (naturalmente Orazio, ma anche tutti quei poeti che, fingendosi in dissidio con il potere, si facevano esiliare pur di languire in pace lontano dal dibattito e vicino alle fidanzate), ma ho capito quasi tutto quando il mio amico Rajendra, apicultore arancione, mi fece riflettere su questo fatto: che alla parola ”meditare” corrisponde, per gli occidentali, l’atto di chi si mette a riflettere su questo e quello, spremendosi il cervello come un povero vecchio limone, mentre per gli orientali vuol dire svuotarsi di tutti i pensieri, e cioè il contrario». Negli Usa, la situazione è forse più allarmante che da noi. Il rapporto ”Vacation Deprivation” curato dalla Expedia.com, società leader nel settore dei viaggi, denuncia che circa il 40 per cento dei lavoratori statunitensi lavora oltre 40 ore a settimana. «Troppo lavoro e poco riposo», dice Joe Robinson, avvocato di Santa Monica che ha dato vita alla campagna ”Lavorare per vivere” con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica americana sul problema delle ferie. Citando le statistiche, Robinson fa sapere che «il 13 per cento delle aziende Usa non concede vacanze pagate, ma solo una settimana di libertà all’anno. Per il resto, al primo anno d’impiego il massimo di ferie è 8 giorni, al terzo 10 e più tardi mai più di 15». Sembra inoltre che un americano su cinque «si senta colpevole quando prende una vacanza, e se gli affari dell’azienda vanno male, il 56 per cento è disposto a posporla all’anno successivo». Con buona pace di Jean-Jacques Rousseau, che sosteneva: «Tutti lavoriamo per procurarci il riposo: è quindi la pigrizia che ci rende laboriosi». Nel corso dei secoli tanti storici, scrittori, psicologi, politici e artisti hanno parlato a vario titolo di ozio e pigrizia, descrivendoli di volta in volta come un diritto, un’arte, un mito o addirittura un dono divino. Oscar Wilde, ad esempio, definì il lavoro come «il rifugio di coloro che non hanno meglio da fare». più o meno della stessa idea Paul Lafargue (1842-1911), socialista e genero di Karl Marx, che nella sua opera più conosciuta, Il diritto alla pigrizia, descrisse la classe operaia come «posseduta da una strana pazzia. Questa pazzia porta con sé delle miserie individuali e sociali che torturano la triste umanità da due secoli a questa parte. Questa pazzia è l’amore per il lavoro». Un’altra critica al culto dell’efficientismo arriva dallo scrittore inglese John Boynton Priestley (1894-1984), autore del pamphlet Sul dolce far niente, secondo il quale la smania produttiva tipica della società moderna è stata la causa della Prima Guerra Mondiale: «Se, per esempio, nel luglio del 1914, quando faceva un tempo splendido per oziare, tutti, imperatori, re, arciduchi, statisti, generali, giornalisti, fossero stati colti dal desiderio di non far niente, allora saremmo stati molto meglio di come stiamo adesso. Ma no, la dottrina della vita attiva continuava a dominare incontrastata; non c’era da perder tempo; qualcosa andava fatto. E, come sappiamo, qualcosa venne fatto». L’accorata denuncia dello scrittore inglese ancora oggi ha una forte eco: proprio quest’anno, infatti, è uscito l’ultimo saggio in difesa dell’ozio, Buongiorno pigrizia (Bompiani, 9,90 euro), di Corinne Maier, impiegata quarantenne all’Edf, colosso pubblico dell’elettricità francese. In Francia, paese che detiene il record mondiale di vacanze e minor numero di ore lavorate, ha già venduto oltre 300.000 copie: «La pigrizia è un’arte - scrive Corinne Maier - che consiste nel far finta di lavorare, cosa che porta in sé due piacevoli conseguenze: la prima è che si conserva senza fatica il posto di lavoro, la seconda è che si è parassiti all’interno del sistema, contribuendo così ad accelerarne l’ineluttabile crollo». Un successo letterario mondiale, che richiama alla memoria l’eroe immortale della pigrizia, Oblomov, protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan Goncharov (Einaudi, 11,20 euro) da cui nel 1979 il regista Nikita Mikhalkov trasse una celebre pellicola: proprietario terriero di San Pietroburgo prigioniero della sua abulia, Oblomov (oblomovismo in seguito è diventato sinonimo di accidia) trascorre le giornate nel più assoluto ozio, senza dedicarsi a nessuna attività. Un comportamento esagerato, all’opposto di chi è afflitto dalla ”sindrome da vacanza”: per andare serenamente in ferie, forse basta trovarsi a metà strada tra questi due eccessi. E se, invece, alla fine si decide di restare a casa o in ufficio si può sempre cliccare su MayDayCards.com, un sito che a pagamento invia cartoline da ogni luogo del mondo a chi si desidera ingannare. Per spedirne una da Los Angeles o dalle isole Mauritius si spendono 8,50 sterline (poco più di 12 euro), meno se si scelgono le Hawaii (5 sterline, 7 euro); la più richiesta riproduce i grattacieli di Hong Kong. La società, nata all’inizio del 2004, nelle sole vacanze estive dello scorso anno, ha mandato oltre 1.500 cartoline.