MACCHINA DEL TEMPO LUGLIO 2005, 7 novembre 2005
Negli anni Settanta le foche monache furono ribattezzate fossili viventi. Il motivo? I ricercatori ne contavano così poche che le davano per spacciate: a loro giudizio, si sarebbero estinte prima del Duemila
Negli anni Settanta le foche monache furono ribattezzate fossili viventi. Il motivo? I ricercatori ne contavano così poche che le davano per spacciate: a loro giudizio, si sarebbero estinte prima del Duemila. Per fortuna, avevano torto. vero che sono tra i dieci animali più minacciati sul nostro pianeta, ma gli oltre cinquecento esemplari che popolano acque e grotte dell’Atlantico e del Mediterraneo non hanno alcuna intenzione di estinguersi: lo dimostrano i parti numerosi e persino gemellari documentati di recente dai ricercatori. Secondo The World Conservation Union, la colonia di foche monache numericamente più importante, 150 esemplari circa, si trova in Mauritania. Altri 150 individui si spostano tra le isole dell’Egeo, la Grecia e la Turchia. Altri ancora sono sparpagliati lungo le coste mediterranee di Marocco e Portogallo. In tutte queste zone, la creazione di nuove aree protette sta dando ottimi risultati. La specie fu descritta per la prima volta nel 1779, con il nome di Phoca monacus. Quel nome derivava dai racconti della gente di mare: «Quando quest’animale si rotola sulla sabbia», narravano i pescatori, «le pieghe di grasso danno alla sua testa un aspetto simile al cappuccio di un monaco». Successivamente John Flemming creò il genere Monachus del quale vennero a fare parte tre specie simili: Monachus monachus, foca monaca del Mediterraneo; Monachus tropicalis, foca monaca dei Caraibi (oggi estinta); Monachus schauinslandi, foca monaca delle Hawaii (oggi la specie, grazie ad uno straordinario progetto di conservazione, raggiunge il numero di circa 2.200 esemplari. Nei secoli gli esseri umani hanno cacciato le foche per la carne e non solo: le pelli venivano erano trasformate in tende, scarpe e vestiti e il grasso serviva per le lampade a olio e per fare le candele. Sembra che la specie sia stata razziata seriamente durante l’epoca romana. Lo sfruttamento commerciale aumentò ancora durante il Medio Evo, estinguendo le più grandi colonie sopravvissute. Le superstiti non si raccoglievano più sulle spiagge aperte e sulle rocce, ma cercavano un rifugio lungo le scogliere più inaccessibili e in caverne con entrate subacquee. La grande distruzione portata delle due Guerre Mondiali, la Rivoluzione Industriale, il boom del turismo e dell’industria della pesca contribuirono al rovinoso declino della specie. Nel 1976 un primo, importante passo avanti per accrescere le poche conoscenze su questa specie rara e misteriosa: nasce il Gruppo Foca Monaca del Wwf, che oggi ha avviato un rapporto di collaborazione con l’Icram (Istituto centrale per la ricerca scientifica applicata al mare) con lo scopo di raccogliere e gestire i dati relativi a segnalazioni e avvistamenti. E grazie all’impiego di moderne tecnologie (telecamere ad infrarossi, radio-sensori per registrare la presenza degli animali nelle grotte) riesce a controllare i siti frequentati dalle foche e a studiare i loro comportamenti. Da anni gli esperti del gruppo sono in contatto con i ricercatori greci e turchi per programmi comuni di studio e monitoraggio nelle aree costiere del Mediteranneo. Nell’Atlantico, invece, la Spagna ha avviato il Progetto internazionale di recupero della foca monaca: la fondazione Cdb-habitàt, grazie a fondi di oltre un milione di euro, sta monitorando molti esemplari con sofisticati rilevatori satellitari. E alcune delle bestiole atlantiche sono ormai note anche al grande pubblico, che le conosce per nome. Ad esempio sono famose Lacitos, Chupeton, Cacarolo, Concordia e Nike (così battezzata perché sulla pelliccia ha una macchia che fa venire il mente il logo sportivo). I biologi spagnoli, per applicare sulle loro teste i dispostitivi satellitari, si calano da scoscese pareti di roccia alte quindici metri a Cabo Blanco, in Mauritania: «Quando siamo laggiù viviamo per mesi da eremiti - spiega il biologo Miguel Angel Cedenilla - Quella zona è un deserto di pietre. Non abbiamo certo occasioni di distrazione, la nostra attenzione è tutta dedicata alle foche». Tutte le indagini scientifiche svolte in Mauritania, in Grecia e in Turchia, hanno fornito informazioni che smentiscono alcune delle convinzioni generalmente riportate in letteratura. «La foca monaca non frequenta esclusivamente i bassi fondali in prossimità della costa, come molti in passato ritenevano, ma compie spostamenti giornalieri di alcune decine di chilometri, ed è stato dimostrato che raggiunge facilmente i novanta metri di profondità» dice Emanuele Coppola del Gruppo Foca Monaca. Probabilmente non vivono sempre in prossimità della costa, ma trascorrono alcuni periodi dell’anno in alto mare. Inoltre possono essere più o meno diffidenti in funzione dell’età, del sesso, del periodo dell’anno». Oggi tutti gli esperti concordano nel dire che la popolazione di foche monache del Mediterraneo alla fine degli anni Settanta era sottostimata: è quindi lecito sperare nell’esistenza di nuclei che sfuggano all’appello dei ricercatori. «Fino agli anni Novanta si credeva che la foca monaca si sarebbe estinta per via del suo scarso tasso riproduttivo. Questo animale, in realtà, si comporta come un qualsiasi predatore al vertice della catena alimentare», spiega Coppola. «Il suo tasso riproduttivo dipende molto dalla quantità di cibo a disposizione. A dimostrazione di ciò ci sono gli studi del professor Ali Cemal Gucu in Cilicia: nelle aree dove è stata drasticamente ridotta la pesca, in particolare quella a strascico, le foche si riproducono regolarmente ogni anno e in alcuni casi anche con parti gemellari». Altro falso mito sfatato dalle nuove ricerche, quello dei cuccioli che muoiono in grandi quantità perché sono trascinati via delle mareggiate. «Le ricerche recenti testimoniano la loro ottima acquaticità, già dopo la prima settimana di vita», dice Coppola. «Molti piccoli, semmai, muoiono perché si impigliano nelle reti da pesca nelle immediate vicinanze dei siti riproduttivi». «Oggi, per fortuna, un ruolo importante nella protezione della specie lo svolgono proprio i pescatori», dice Massimiliano Rocco, responsabile del Programma specie Traffic del Wwf Italia: «Sono loro i migliori custodi del mare e da qualche anno collaborano volentieri con noi, segnalando ogni avvistamento. Quest’anno un pescatore ha incontrato due foche monache in Sicilia. Lui era convinto di aver visto una coppia di adulti ma noi, dalla sua descrizione, abbiamo capito che si trattava di una mamma col un cucciolo in fase di svezzamento avanzato. E questo è un buon segnale, che apre lo spiraglio a un sogno: tornare a vedere, come ai tempi di Omero, interi branchi di foche che si scaldano al sole».