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 2005  novembre 04 Venerdì calendario

 un rischio dire a qualcuno «hai un cervello da gallina» perché, se quella persona è un po’ acculturata scientificamente, può rispondere «e tu da mammifero», il che, come vedremo, non è poi un gran complimento

 un rischio dire a qualcuno «hai un cervello da gallina» perché, se quella persona è un po’ acculturata scientificamente, può rispondere «e tu da mammifero», il che, come vedremo, non è poi un gran complimento. La scienza ormai ha dovuto ricredersi sull’intelligenza dei pennuti, rivalutandola in pieno. Quasi tutto quello che si trova nei testi ufficiali, dicono gli esperti, è sbagliato. Un gruppo internazionale di 29 ricercatori ha studiato per sette anni il problema, arrivando alla conclusione che il cervello degli uccelli non ha nulla da invidiare a quello dei mammiferi. Purtroppo è raro, commenta maliziosamente il dottor Jon H. Kaas (insegna neuroanatomia alla Vanderbilt University di Nashville), che gli scienziati vadano d’accordo su qualcosa. Infatti, benché non neghino il valore della scoperta, sostengono tesi differenti, anche perché la ”materia grigia” degli uccelli è diversa dalla nostra. A questo punto riparte l’annoso problema: che cos’è esattamente l’intelligenza? Il dottor Peter Marler (Davis University, California), un’autorità nel campo del comportamento dell’aviofauna, dice che ci sono ancora troppe cose da capire, ma che secondo lui siamo di fronte a una rivoluzione. L’uomo, se vorrà fare più luce nel mistero del suo cervello, dovrà studiare a fondo quello dei suoi coinquilini alati. La cosa che sbalordisce di più gli studiosi è che gli uccelli possono rimpiazzare le cellule cerebrali con neuroni nuovi, capaci di assorbire le cognizioni di quelli morenti senza dover ripartire da zero. Individuare i meccanismi che controllano questa ”neurogenesi” ci aiuterebbe forse a rinnovare il nostro cervello quando decade a causa di qualche malattia o della vecchiaia, ma per il momento non si sa neppure da che parte cominciare. Fino a cinquant’anni fa, gli etologi pensavano che l’area superiore del cervello dei volatili fosse legata alla capacità di apprendimento e l’inferiore a quell’impulso indipendente dall’intelligenza, l’istinto, con cui si spiegava ogni comportamento animale, anche quando appariva sorprendente. Oggi la parola istinto non va più di moda. Certo la testa di un canarino è mille volte più piccola di quella umana, ma ormai sappiamo che dentro quei crani più sottili di una pergamena le cellule cerebrali, miniaturizzate come microscopici biochips, capaci di svolgere migliaia di funzioni, sono numerose quasi quanto le nostre. Gli uccelli canori – il canto è una lingua complessa e perfino diversificata in vari dialetti, secondo il luogo d’origine e il variare dei rapporti tra cospecifici – gorgheggiano con una maestria che solo esseri umani eccezionalmente dotati saprebbero imitare. Nel secolo scorso un musicologo ungherese, Szoeke, ha avuto l’idea di rallentare da 16 a 32 volte le registrazioni dei canti di una cinquantina di specie di uccelli. Il loro tempo gli sembrava troppo accelerato. Ne è venuto fuori un sensazionale arricchimento delle fantasie ritmiche e delle melodie, che ora potevano reggere il confronto con i nostri pezzi più celebri. Il grande biologo francese Rémy Chauvin, colpito da quelle composizioni, ha chiesto a una musicologa di ascoltare una delle registrazioni rallentate, senza dare spiegazioni. Alla fine lei ha detto che il pezzo era bellissimo, ma che non riusciva a identificarne l’autore e non capiva con quale strumento fosse stato eseguito. Le sarebbe piaciuto, ha aggiunto, sentirlo «per flauto». I campioni di vanità sono gli uccelli del Paradiso. Si agghindano tutto il giorno e stanno lì a farsi ammirare. Un uccello del Paradiso non tocca mai il suolo: resta sui rami degli alberi e si liscia, ma vola a fare due bagni il giorno per essere sempre lustro. A terra non scende nemmeno se gli mettono lì il cibo. Preferisce morire di fame che sporcarsi. Molte persone sono convinte che i pappagalli, e anche certe gracule come la ”religiosa” siano i geni dell’imitazione, ma non è vero. Il più bravo è l’uccello lira. Sa imitare qualunque suono. Il naturalista Fritz Kahn raccontava: «Giù nella valle c’è una segheria, ma oggi è domenica e non lavora. Poi all’improvviso si mette in azione. Macché, è l’uccello lira che imita lo stridore delle seghe, e quando capisce che è riuscito a turbare la pace fa una bella risata. Intanto il cane comincia ad abbaiare, ma il cane non c’è, è uscito col padrone. ancora il lira che lo imita, però all’abbaio del cane si sveglia il bambino nella culla e la mamma accorre. Macché, il piccolo dorme tranquillo, è il lira che prende in giro la gente. Sa anche imitare il muggito delle mucche in modo tale che i fattori vadano subito nel bosco in cerca dei loro animali fuggiti. Quando sono tutti sparpagliati fra gli alberi, lui ride come un matto. Si diverte». E chi ha il senso dell’umorismo non può certo essere stupido. A parte queste eccezionali esibizioni, bisogna riconoscere che quasi tutti gli uccelli sono disposti a imparare e non dimenticano quello che hanno appreso. Alcuni ricercatori dell’Università di Chicago (Usa) hanno perfino scoperto che la notte, dormendo, i Diamanti mandarini ripassano i compiti, ossia ricantano mentalmente le loro canzoni. Sulla rivista inglese di ornitologia British Birds, sono apparse recentemente interessanti osservazioni di un esperto italiano di aviofauna, l’etologo Francesco Petretti, dal quale si apprende che i pennuti danno prova di possedere cervelli capaci di ragionare. I fringuelli delle nostre città, per esempio, ghiotti di pinoli, hanno inventato un sistema per mangiarli: non avendo un becco sufficientemente robusto per romperli, li fanno cadere più e più volte sul marciapiede finché si spaccano. Che dire poi del fatto che negli occhi degli uccelli c’è una specie di bussola? Volando, durante le lunghe traversate, i migratori non soltanto registrano le immagini dei luoghi sui quali passano, quasi fossero tecnici d’aerofotogrammetria, ma leggono le indicazioni di rotta nella luce polarizzata e avvertono perfino l’intensità, la declinazione e le grandezze vettoriali del campo magnetico terrestre. Alcuni ricercatori dell’università di Oldenburg hanno tentato di ingannare uno stormo di tordi creando un campo magnetico artificiale. Per una notte alcuni ci sono cascati e hanno preso la direzione sbagliata, ma dopo poche ore si sono rimessi sulla retta via. Altri, incerti, s’erano fermati in un bosco vicino aspettando di capire meglio la situazione. Sembra però che la visione, per loro, sia ancora più importante del segnale magnetico, come ha potuto constatare lo studioso Wolfgang Wiltschko con un esperimento: «Mettendo dei pettirossi in un ambiente luminoso giallo o arancione, i poverini perdono la capacità di orientarsi e accade la stessa cosa quando gli coprono l’occhio destro». Un mistero, almeno per ora. L’ipotesi di due studiosi americani dell’università di Pennsylvania, Margaret Ahmad e Anthony Cashmore, è che la capacità d’orientamento magnetico degli uccelli sia dovuta alla presenza di ”cryptochromi”, proteine fotosensibili scoperte da loro in una pianta di laboratorio, ma che si trovano in molti tessuti viventi, soprattutto quelli nervosi, e nella rètina. «Li possediamo anche noi umani, forse senza usarli», dicono, «e certo non per sentire il campo magnetico terrestre!» Purtroppo, nel corso del tempo, abbiamo perduto molti sensi che gli animali possiedono ancora. L’udito del barbagianni (Tyto alba) ad esempio è finissimo, altro che il nostro, e nemmeno uno 007 addestrato saprebbe piombare su una preda immobile nel buio più assoluto come fa lui. E c’è un’altra medaglia da incollare sulle piume pettorali del Tyto: lui e sua moglie (la coppia è fedele fino alla morte) quando capiscono che il cibo scarseggia, non fanno figli. Proprio come noi, che là dove la fame impera ne scodelliamo dissennatamente a milioni.