MACCHINA DEL TEMPO LUGLIO 2005, 4 novembre 2005
Chissà se, mentre gustate un piatto di gamberoni alla griglia, vi sfiora il pensiero che, in minima parte, state attentando alla biodiversità? Al di là dell’esagerazione, in questo concetto c’è un fondo di verità: la globalizzazione che ci consente di assaporare fragoline di bosco al Polo Nord o gamberoni tailandesi in ogni stagione sta modificando le dinamiche che, fino a poco tempo fa, regolavano produzione e consumo dei cibi
Chissà se, mentre gustate un piatto di gamberoni alla griglia, vi sfiora il pensiero che, in minima parte, state attentando alla biodiversità? Al di là dell’esagerazione, in questo concetto c’è un fondo di verità: la globalizzazione che ci consente di assaporare fragoline di bosco al Polo Nord o gamberoni tailandesi in ogni stagione sta modificando le dinamiche che, fino a poco tempo fa, regolavano produzione e consumo dei cibi. E, nel suo piccolo, sta minacciando non soltanto la biodiversità - intesa come numero e varietà di organismi presenti nei diversi ecosistemi - ma la vita stessa della Terra. L’allarme viene dal Millennium Ecosystem Assessment (Mea, www.millenniumassessment.org) - un rapporto stilato da 1.300 esperti e scienziati di 95 paesi incaricati dall’Onu di redigere un consuntivo sulla situazione del Pianeta - e abbraccia moltissimi aspetti della nostra interazione con l’ambiente. E per la prima volta - oltre a dati tradizionali che quantificano la conversione di boschi e foreste in terreni agricoli, l’uso eccessivo di fertilizzanti e l’abuso di risorse naturali - il degrado del Pianeta viene presentato in termini di svalutazione economica degli ambienti naturali. Stiamo andando in rosso, insomma, e rischiamo di non trovare più una sola banca che sia disposta a farci credito. Ecco perché. Quanto vale un ettaro di palude? Il 60 per cento degli ambienti naturali che ci forniscono servizi - si legge nel rapporto - è già gravemente compromesso o eccessivamente sfruttato, e non è più capace di rigenerarsi in modo spontaneo. Dobbiamo dunque rallentare e cominciare a riflettere seriamente sul ruolo degli ecosistemi terrestri e sul futuro che ci attende tra non molti anni. Siccome il mondo del Terzo millennio va avanti a denaro, per adeguarsi al trend generale gli esperti del Mea hanno tentato di dare un’impronta economica alle loro valutazioni. E hanno quantificato il contributo dei diversi ecosistemi al benessere della Terra e dei suoi abitanti, analizzando in particolare zone umide e paludose, solitamente poco apprezzate e considerate. «Queste regioni», specifica il rapporto «non costituiscono soltanto un habitat per migliaia di uccelli e piante, ma fungono da veri e propri cuscinetti naturali in grado di ridurre l’inquinamento e di fornire riserve idriche essenziali alla vita del Pianeta». A patto che siano intatte. In caso contrario, il loro deprezzamento dovuto allo sfruttamento intensivo è precisamente monetizzabile: in Canada un ettaro di zona umida sana e vitale vale 6.000 dollari, valore che si riduce a poco più di un terzo se l’area è stata troppo sfruttata. Analoga svalutazione per un ettaro di mangrovie tailandesi, sostituito da allegri allevamenti di gamberetti: da 1.000 dollari ogni ettaro si scende a 200. «L’aspetto drammatico», dice A. Hamid Zakri, direttore dell’Istituto di studi avanzati dell’Onu «è costituito dall’enorme pressione che l’uomo sta esercitando su tutti gli ecosistemi naturali, che faticano sempre più a soddisfare le eccessive richieste umane e diventano incapaci di rigenerarsi in maniera spontanea». Integrità è spesso sinonimo di protezione, perché numerose zone paludose fanno da tampone nel caso di calamità naturali. Ne sono un esempio le torbiere di Muthurajawela, nello Sri Lanka, la cui azione protettiva nei confronti delle inondazioni è stimata intorno ai cinque milioni di dollari annui (in termini di perdite umane, epidemie e devastazioni edilizie risparmiate). O le paludi della Louisiana, ricostituite grazie a un investimento di 14 miliardi di dollari allo scopo di contenere i fenomeni tempestosi generati dai tornado lungo la costa. Gli esperti hanno preso in considerazione anche il valore ricreazionale dei terreni: nelle Hawaii, alcune aree marine protette sono state valutate fra i 300 mila e i 35 milioni di dollari: oltre che per il loro valore naturalistico, anche per i benefici spirituali che l’uomo ne ricava. Una GLOBALIZZAZIONE disastrosa L’accento del Mea, come si legge nelle 220 pagine del rapporto, è sugli ecosistemi. Foreste tropicali, oceani, savane, oltre che paludi e zone umide sono tutt’altro che indipendenti gli uni dagli altri. Inoltre, non soltanto ci forniscono servizi preziosi – cibo, acqua, legname, controllo del clima, contenimento delle malattie - ma anche benessere estetico. Purtroppo, però, gli ambienti naturali sono stati modificati drasticamente nell’ultimo mezzo secolo e, dato lo stretto rapporto reciproco che li lega, hanno innescato un vero e proprio effetto domino. Prendiamo l’agricoltura. Dal 1945 a ora la conversione agricola dei terreni ha superato quella effettuata nel XVII e XIX secolo messi assieme, tanto che la superficie coltivata ammonta oggi al 24 per cento del totale terrestre e consuma il 70 per cento dell’acqua disponibile. L’agricoltura intensiva, ovviamente, ha portato con sé l’uso massiccio di sostanze chimiche di sintesi (pesticidi, diserbanti, fertilizzanti) e ciò ha modificato il ciclo dell’azoto, del fosforo e del carbonio che, com’è noto, non è presente soltanto nel terreno ma è in equilibrio dinamico con quello di oceani e atmosfera. In parallelo, sono cambiate le politiche governative sull’irrigazione. Dal 1960 al 2000 le masse d’acqua trattenute dalle dighe superano di 3-6 volte quelle trasportate dai corsi d’acqua (laghi esclusi). Un siffatto contenimento idrico ha modificato la portata dei grandi fiumi: in certe stagioni, il Nilo, il Colorado e il Fiume Giallo non raggiungono il mare. Conseguenze? Il 30 per cento dei sedimenti che trasportavano non arriva più a destinazione, affamando le specie che se ne nutrivano e alterando gli ecosistemi degli estuari. Parliamo di animali e vegetali. La globalizzazione degli spostamenti - che muove milioni di persone da una parte all’altra del globo - interessa un numero elevato di forme di vita che sono trasferite, loro malgrado, in ecosistemi estranei. Alcuni ambienti naturali delle Isole Galapagos, per esempio, sono stati danneggiati dall’introduzione intenzionale della capra, mentre il lavaggio delle stive delle navi libera con modalità imprevedibili organismi marini, batteri e virus a migliaia di chilometri dalla regione di origine. Nel Mar Baltico, per esempio, convivono 100 specie estranee all’ecosistema locale, un terzo delle quali proviene dalle regioni dei Grandi Laghi del Nord America. Il rapporto insiste anche sul problema dell’estinzione: il 10-30% di mammiferi, uccelli e anfibi sarebbe a rischio. Ciò significa che entro i prossimi 100 anni molte specie viventi che ci sono familiari potrebbero sparire dalla faccia della Terra. Quattro possibili scenari Che cosa si salva nello sfacelo generale? Ottengono una risicata promozione i raccolti agricoli e l’allevamento del bestiame, entrambi migliorati rispetto al passato. Bocciato senza appello lo sfruttamento insostenibile dell’acqua potabile, che assieme al disboscamento selvaggio concorre alla desertificazione che interessa molte regioni. E che, modificando l’habitat di numerosi insetti, potrebbero far riemergere malattie date per debellate. Non potendo leggere il futuro, gli esperti del Mea hanno immaginato quattro possibili scenari cui l’umanità andrà incontro nei prossimi 50 anni. Uno prevede una notevole crescita economica, a fronte del contenimento del numero di abitanti la Terra. lo scenario in cui le società cooperano per fini comuni, impegnandosi a ridurre povertà e diseguaglianze sociali. Il secondo tratteggia un’umanità più egoista e frammentata, presa da questioni di sicurezza internazionale e poco attenta alla res publica. Coincide con il minor tasso di sviluppo economico e la maggiore espansione demografica. Nel terzo scenario, balzano in primo piano gli ecosistemi regionali, oggetto di politiche comuni e condivise: la crescita economica è lenta ma costante. Nel quarto, è ipotizzata più attenzione al problema ambientale, affrontato con tecnologie eco-sostenibili. «Attuare cambiamenti è possibile e auspicabile», ha detto Zakri, «ma non dobbiamo sperare in una metamorfosi istantanea. I governi hanno una gran responsabilità: dovranno impegnarsi al raggiungimento di precisi obiettivi, ma per piccoli passi. Pensando anche a risollevare le sorti dei Paesi in via di sviluppo, dove gli ecosistemi rappresentano, più ancora che per il mondo occidentale, l’unica vera ricchezza».