MACCHINA DEL TEMPO LUGLIO 2005, 4 novembre 2005
Dio ha creato i luoghi ricchi d’acqua perché l’uomo possa vivere e ha creato il deserto perché possa trovare la propria anima”
Dio ha creato i luoghi ricchi d’acqua perché l’uomo possa vivere e ha creato il deserto perché possa trovare la propria anima”. La metafora di questo antico proverbio tuareg appare quasi profetica, in un’epoca che vede l’inquietudine spirituale dell’umanità procedere di pari passo con l’avanzare inesorabile dei deserti. Non a caso sempre più turisti occidentali si fanno scarrozzare in questi vasti spazi alla ricerca di tre sole cose: il silenzio, il vuoto e, probabilmente, se stessi. E il deserto dell’anima e della terra, in fondo, non sono poi così scollegati, dal momento che l’Uomo, inaridito e devoto alle sole leggi del mercato, ha responsabilità precise (anche se non esclusive) nella desertificazione incipiente del nostro pianeta. Inquinamento, variazioni climatiche, disboscamento, sfruttamento estremo dei terreni attraverso la pastorizia, abbandono di terre semiaride in cerca di altre più ospitali: ogni anno vanno perduti nel mondo 12 milioni di ettari di terra coltivabile (il 3,5 per cento), mentre si fa sempre più pressante la domanda di cibo, soprattutto dei paesi che detengono il potere alimentare. Si stima un incremento di bisogno di terra coltivabile del 27 per cento nel 2015 e del 42 per cento nel 2050. I dati sono allarmanti: la desertificazione minaccia il 35 per cento delle terre emerse e direttamente 250 milioni di persone, indirettamente addirittura 1,2 miliardi. Se teniamo presente che un terzo delle terre emerse è già coperto da deserti, possiamo concludere che in prospettiva sabbia e pietre rischiano di invadere quasi il 70 per cento della terra abitabile. Nella Cina settentrionale il deserto avanza di 2 mila chilometri quadrati l’anno e per tentare di fermarlo sono stati piantati 9,5 milioni di ettari di foresta. In Africa, nel solo Sahel, la marcia del deserto (che copre oasi, coltivazioni, strade etc.) uccide 200 mila persone all’anno e la Mauritania è ormai coperta per tre quarti dalle dune del Sahara (che un agronomo francese ha cercato di bloccare con lunghe barriere di plastica), senza contare che nel Continente Nero l’accesso universale all’acqua pulita non avverrà prima del 2050. Così nell’arco di 5-10 anni si prevede che almeno 130 milioni di profughi ambientali africani saranno costretti a lasciare la propria terra, e di questi almeno la metà premeranno per entrare in Europa attraverso Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, paradossalmente proprio i paesi del continente più esposti alla desertificazione: da noi, per esempio, il 27 per cento del territorio è a rischio (a cominciare dalla Sicilia) e pur avendo una dote annua di 40 miliardi di metri cubi di acqua, un italiano su tre non ha acqua a sufficienza. Se poi ragioniamo in tempi lunghi, anzi lunghissimi, il destino sembra segnato: tra 200 milioni di anni la deriva dei continenti sarà compiuta e le terre si saranno saldate in un unico supercontinente: a parte un Nord-Ovest molto verde, umido, sferzato da venti e violenti monsoni, coperto da una foresta pluviale di conifere giganti, il resto sarà un enorme deserto che si estenderà per 10.000 chilometri. Tutt’intorno un unico oceano coprirà il 90 per cento del pianeta. Ma non sarà un problema che riguarderà l’uomo che, nelle previsioni, si sarà già estinto da un pezzo. Ma, nel frattempo, l’uomo sta naturalmente combattendo (in difesa) la sua battaglia: numerosi studi hanno stabilito con certezza che fino a 3.000 anni fa il Sahara era una distesa coperta di alberi, erba, fiumi e laghi che si inaridì completamente nel giro di 5 secoli. La zona era abitata da uomini che cacciavano con tecniche evolute animali di grande e piccola taglia: sono state rinvenute incisioni rupestri di 7-9.000 anni fa che raffigurano giraffe (considerate dagli africani propiziatrici della pioggia), bufali, elefanti, leoni, rinoceronti, antilopi che si abbeveravano negli uadi, oggi canyon polverosi, ma allora frequentatissimi corsi d’acqua. Quell’epoca ha però lasciato un’eredità preziosa: sotto la zona occidentale del Sahara sono stati individuati grandi serbatoi di acqua fossile, piovuta 5.000 anni fa e rimasta imprigionata sottoterra. Dal 1984 la Libia ha deciso di sfruttare questa ricchezza, spendendo 27 miliardi di euro per realizzare il Grande Fiume Artificiale, un faraonico acquedotto che sta portando l’acqua in tutto il paese. E qualcosa di simile sta progettando la Giordania riguardo all’acquifero fossile di Disi, vecchio di 300.000 anni, tanto da potersi affrancare dalle acque super sfruttate del Giordano. In Egitto si sta invece realizzando il mega fiume artificiale Al-Salaam (il cosiddetto Nilo 2), che proprio dal Nilo si stacca a Nord del Cairo con lo scopo di trasformare l’area desertica a Ovest del grande fiume in una pianura irrigata e adatta, in futuro, all’insediamento di centinaia di comunità agricole e industriali (si parla di 3.200.000 coloni egiziani). Il progetto finale prevede di aumentare dell’8 per cento le superfici coltivabili egiziane grazie a una rete di canali di più di 200 chilometri alimentata dall’enorme centrale di pompaggio di Toshka. Se tutto rispetterà le modalità e i tempi previsti dalle autorità egiziane, i prodotti ortofrutticoli delle aree strappate al deserto saranno in grado di arrivare sui mercati europei con un mese di anticipo sui loro concorrenti mediterranei. Ma cerchiamo di conoscere meglio questa realtà tanto affascinante quanto minacciosa. Gran parte dei deserti si è formata per il movimento continuo delle masse d’aria, provocato dalla rotazione terrestre. All’altezza dell’Equatore, l’aria calda sale e si sposta verso Nord e verso Sud; a latitudini subtropicali, le correnti d’aria si raffreddano e ridiscendono verso terra creando aree d’alta pressione. A Nord e a Sud di queste regioni subtropicali vi sono due fasce di bassa pressione, mentre le zone polari sono caratterizzate da correnti discendenti. Quando l’aria sale, si raffredda e si deumidifica; quando scende, si riscalda e si carica d’umidità. I movimenti discendenti delle masse d’aria calda hanno prodotto una fascia, compresa tra i due Tropici, occupata prevalentemente da zone desertiche. Anche le catene montuose possono contribuire a creare aree desertiche, limitando le precipitazioni a un solo versante e impedendone l’avanzamento. Quando i venti carichi d’umidità spirano lungo i pendii e salgono verso le alte quote, si raffreddano provocando precipitazioni piovose o nevose. L’aria secca che discende dai pendii sottovento fa evaporare l’umidità del suolo a bassa quota: è il caso della Sierra Nevada, negli Stati Uniti, che, raccogliendo tutte le precipitazioni della zona, influisce sul vicino Gran Bacino. Altri deserti interni ai continenti si sono formati perché quando li raggiungevano, i venti avevano già perso buona parte dell’umidità (è il caso del Gobi, in Mongolia, e del Taklimakan, in Cina). A queste particolari condizioni climatiche, si somma il paziente lavoro del tempo e degli agenti atmosferici. Anni, secoli, millenni di vento, di erosione causata dalla pioggia, di fessurazione e frantumazione delle rocce per le continue escursioni termiche tipiche di queste zone, tra il giorno e la notte come tra le varie stagioni (nel Gobi si passa dai -30°C in inverno ai 40° in estate). Le rocce sono infatti formate da minerali diversi con differenti coefficienti di dilatabilità; così il minerale che più si dilata esercita una forte azione disgregatrice nella massa di minerali che lo circonda. Ma il vero re di ogni deserto è il vento. lui a effettuare una vera e propria selezione dei detriti: i più pesanti rimangono sul posto, formando i deserti pietrosi (hammada) o ghiaiosi (serir), mentre i più sottili vengono trasportati per sospensione (in aria) o saltazione, andando a formare le dune di sabbia, che nel Sahara o nei deserti dell’Arabia possono anche superare i 200 m di altezza e i 100 km di lunghezza. Sono masse in perenne movimento, perché la sabbia viene continuamente trasportata dal fronte della duna (sopravento) al lato sottovento: così la cresta avanza lentamente nella direzione del vento senza cambiare sensibilmente la forma. Sono tutti questi fattori a determinare il classico paesaggio arido, povero di fauna e vegetazione e scarso di precipitazioni che conosciamo bene (meno di 250 mm all’anno contro i 1.200 di Milano). Sta ora all’uomo decidere se arretrare di fronte a questo vorace nemico o se addomesticarlo investendo in tecnologie, grandi opere e progetti costosi ma vitali sull’esempio di Libia ed Egitto. Ma non c’è più molto tempo da perdere.