MACCHINA DEL TEMPO LUGLIO 2005, 4 novembre 2005
Di questo passo, il primo contatto con una civiltà extraterrestre sarà una denuncia per diffamazione davanti a un tribunale galattico
Di questo passo, il primo contatto con una civiltà extraterrestre sarà una denuncia per diffamazione davanti a un tribunale galattico. Nonostante qualche rappresentazione ”buonista”, infatti, nella letteratura e nel cinema, per non parlare dei videogiochi, gli alieni sono quasi sempre cattivi e guerrafondai. C’è da pensare che la prenderanno a male. E sarà un processo in cui non mancheranno prove schiaccianti, la più recente delle quali sarà il film La guerra dei mondi, remake dell’omonima pellicola del 1953. Con Steven Spielberg alla regia e Tom Cruise come protagonista principale, i marziani tornano a reclamare diritti di possesso sulla cara vecchia Terra, ancora una volta giocando sulla celebre storia creata da Herbert George Wells. Ma quello di spararci addosso sarebbe comunque qualcosa, per quanto scortese. Un segno della loro presenza. Invece, fino a oggi, la possibilità di esistenza di vita, e magari persino di civiltà extraterrestri, resta allo stadio di ipotesi. Eppure nella Via Lattea ci sono circa cento miliardi di stelle, e un numero analogo di galassie popola l’universo conosciuto. Carl Sagan, astronomo e noto divulgatore scientifico (è sua la pluripremiata serie di documentari ”Cosmos”), nel romanzo Contact fa dire a uno dei protagonisti: «Sarebbe uno spreco di spazio se fossimo soli». Per rimanere in casa nostra, l’astronauta Umberto Guidoni - incontrato lo scorso maggio a Bellaria, durante l’ultima Convention dei fan di Star Trek - dichiara: «Non credo negli Ufo. Mi rende perplesso il fatto che non compaiano mai in luoghi affollati o davanti a migliaia di persone. Immagino invece che la vita extraterrestre esista. Sono innumerevoli i pianeti che potrebbero ospitarla, solo nellaVia Lattea». Nonostante i grandi numeri, però, nessuno ha ancora risposto alla domanda che il fisico Enrico Fermi pose (secondo la leggenda) in un giorno del 1950, mentre mangiava con alcuni colleghi alla mensa dei Laboratori di Los Alamos: «E allora dove sono?». La piccola chiacchierata fu rapidamente promossa a ”paradosso di Fermi”. Con quattordici miliardi di anni alle spalle, e con tutte queste stelle che potrebbero ospitare pianeti, è logico attendersi che il cosmo abbia potuto dare origine a civiltà antichissime, capaci di avere già avviato un complesso programma di esplorazione e colonizzazione dello spazio. Dovrebbero allora essere già arrivate da queste parti. Però non ci sono. «L’astronomia – dice Franco Pacini, direttore dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri - affronta la domanda sulla vita altrove nell’universo (naturalmente non sto parlando di ufologia) come una questione legittima. Se riflettiamo, le probabilità sono piuttosto elevate. Alcune stelle hanno poi già dimostrato di avere pianeti attorno a loro. Per ora quelli rilevati sono spesso giganteschi, molto diversi dal nostro, ma con il progredire delle nostre tecniche salteranno certamente fuori anche altri pianeti più piccoli. In più, la radioastronomia ci ha da tempo svelato l’esistenza di molecole fondamentali per la vita nelle regioni in cui si stanno formando nuove stelle». Per chi volesse divertirsi a maneggiare i numeri, esiste la celebre equazione di Drake, sviluppata dall’astronomo Frank Drake, attualmente direttore del Centro per lo Studio della Vita nell’Universo. Drake, oggi settantacinquenne, fu il primo nel 1960 a effettuare una ricerca di segnali radio intelligenti dalle stelle vicine. La sua formula punta a calcolare il numero di civiltà intelligenti presenti nella nostra galassia partendo da diversi parametri, come il numero di stelle esistenti, la possibilità che abbiano pianeti di tipo terrestre, che vi si sia sviluppata una civiltà e così via. Ma in realtà le variabili di questa equazione sono tante e tali che va presa un po’ come un passatempo. Il punto centrale rimane però sempre il solito: perché non abbiamo ancora conosciuto gli alieni? Ci sono diverse possibilità che spiegano il fenomeno, addirittura cinquanta secondo Stephen Webb, fisico e ottimo divulgatore scientifico (vedi box a pag. 27), che le ha elencate tutte nel libro Se l’universo brulica di alieni, dove sono tutti quanti?, titolo che in pratica enuncia il paradosso di Fermi. Le risposte fondamentali possono essere però ridotte a poche categorie. Le prime sono puramente biologiche. La vita estraterrestre non esiste. Secondo alcuni biologi, la vita è un incidente isolato, così improbabile che noi stessi dovremmo dubitare di essere qui. Ci vuole prima di tutto il giusto pianeta, con una giusta distanza dal suo sole. E poi deve trovarsi in una zona ”tranquilla” della galassia, dove non esploda qualche supernova nei paraggi e dove non ci siano radiazioni troppo intense. Sopra questo fortunato corpo celeste devono avvenire reazioni chimiche molto delicate, facilmente disturbate dalle condizioni ambientali. Qualcuno sostiene addirittura che senza la presenza della Luna, con le maree e la conseguente formazione di pozze d’acqua isolate dove le prime molecole organiche potessero aggregarsi, il nostro pianeta non avrebbe mai visto l’alba della vita. l’ipotesi più pessimistica: non soltanto non esistono alieni con cui parlare, ma neanche batteri extraterrestri da studiare al microscopio. La vita aliena c’è, ma è molto diversa da come la concepiamo. «Teniamo presente», dice Pacini, «che la stessa vita sulla Terra è oggi molto diversa da quella di due miliardi di anni fa. Considerando che parliamo di pianeti extraterrestri, non dobbiamo allora metterci a sognare una bella aliena sdraiata sulla spiaggia sotto i raggi di una stella lontana. un errore pensare a forme di vita antropomorfiche, o comunque simili a quelle che ci circondano sulla Terra». un argomento ricorrente di questo tipo di discussioni, peraltro ampiamente sfruttato dalla fantascienza. Se si ha un solo esempio a disposizione, quello nostrano, come facciamo a pensare che tutto il resto dell’universo ospiti la stessa vita che conosciamo noi? Ma ammettiamo ora che, in qualche modo, la vita ce l’abbia fatta anche altrove. E magari abbia sviluppato intelligenza e tecnologia. La mancanza di un contatto tra noi e loro incontra a questo punto possibili spiegazioni sociali o tecniche. La ”finestra delle civiltà”. Una civiltà può sparire nel nulla, tornare nella barbarie o semplicemente distruggersi. già successo sulla Terra. Quanto tempo trascorre fra l’ascesa di una società tecnologica e la sua caduta? ipotizzabile che possa durare milioni di anni? La civiltà umana, con le sue poche migliaia di anni di storia, è troppo giovane per permettere calcoli. L’immagine che scaturisce da questo scenario è di un universo magari pieno di forme di vita intelligenti, ma ognuna isolata perché, nella finestra di tempo in cui è attiva, le altre sono ancora da venire oppure già sparite. Questa possibilità è esaltata da chi sostiene la necessità di una ”archeologia cosmica”, una caccia a civiltà scomparse che magari abbiano lasciato tracce dietro di sé. La riserva protetta. Sbizzarrendo la fantasia, esiste l’ipotesi che la galassia sia stata effettivamente colonizzata, ma quelle civiltà non hanno alcuna intenzione di entrare in contatto con noi. Non ci sono dati scientifici da interpretare, soltanto una fantasia che, se da un lato vede un Wwf interstellare impegnato a vietare a tutti di interferire con il nostro sviluppo, dall’altro ci piazza in un ruolo di selvaggi da cui è bene stare alla larga. I mezzi di comunicazione. Nei film c’è sempre una lucente astronave che scende davanti all’Onu. Ma la Teoria della Relatività di Einstein, con il suo limite invalicabile della velocità della luce, per ora gode di ottima salute, e il viaggio interstellare di esseri viventi sembra una possibilità alquanto remota. Rimane la radio. « trascorso poco più di un secolo – commenta Pacini – dalle prime trasmissioni di Marconi. Quei segnali oggi si trovano quindi ad appena un centinaio di anni luce, uno spazio molto piccolo di fronte alla vastità della galassia. Una civiltà, situata ad appena duecento anni luce da noi, ci troverebbe silenziosissimi nei suoi radiotelescopi. E non dimentichiamo che il primo articolo scientifico in cui si suggerirono i sistemi più efficaci per comunicare via radio tra civiltà galattiche fu scritto soltanto nel 1959 dall’italiano Giuseppe Cocconi e dall’americano Philip Morrison (quest’ultimo scomparso poche settimane fa). Appena 46 anni da quando abbiamo cominciato a pensarci sul serio, un tempo infinitamente breve nella storia del cosmo». Oggi i programmi scientifici di ascolto delle frequenze radio sono in piena attività (vedi box a pagina 33), ma siamo sicuri che gli extraterrestri usino anche loro la radio? O magari quest’ultima è per loro niente di più di ciò che i segnali di fumo degli Indiani rappresentano per noi? «In questo argomento», continua l’astronomo italiano, «ci sono molte incognite, ma ciò non deve impedirci di cercare. E la radio è lo strumento più efficiente che conosciamo. Certo, potremmo pensare a civiltà extraterrestri che comunicano con onde gravitazionali, o con neutrini. Chi può davvero dirlo? Poiché in realtà non sappiamo ancora cosa sia veramente possibile, così dobbiamo lavorare con la tecnologia che abbiamo». Sì, ma che si fa se i segnali arrivano? Ci vuole una bella ”direttiva da Primo contatto” uscita fresca fresca da un telefilm di Star Trek. In realtà ci stanno lavorando sul serio. L’Istituto per la ricerca delle intelligenze extraterrestri (Seti, nella sigla inglese) ha elaborato una proposta in nove punti che parte da un accordo internazionale già esistente e firmato da molti membri dell’Onu: il Trattato sulle attività nello spazio. Uno dei capitoli prevede che ogni nazione informi il Segretario generale delle Nazioni unite su ”tutte le attività e le scoperte spaziali”. E che cosa si fa per il resto del mondo? Una volta confermati i dati e messi in allarme i radiotelescopi di tutto il pianeta affinché si mettano ad ascoltare anche loro, si passerebbe a informare la gente. Ma il punto cruciale è un altro: dovremmo rispondere? La proposta suggerisce di non fare nulla ”senza un’appropriata consultazione internazionale”. Certo, la difficoltà di mettere d’accordo tante nazioni potrebbe non far partire mai la risposta. Anzi, se anche le civiltà spaziali hanno una situazione simile, potrebbe essere proprio per questo che non si fanno vivi.