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 2005  novembre 03 Giovedì calendario

Non c’è immagine più familiare di una mamma che coccola il suo piccolo. Familiare ma allo stesso tempo misteriosa, almeno per gli scienziati: da generazioni, infatti, studiano il legame che si crea, attraverso le carezze, con il neonato

Non c’è immagine più familiare di una mamma che coccola il suo piccolo. Familiare ma allo stesso tempo misteriosa, almeno per gli scienziati: da generazioni, infatti, studiano il legame che si crea, attraverso le carezze, con il neonato. Uno dei primi a mettere in evidenza, negli anni ’50, che tra i bisogni fondamentali di un bambino c’è anche il contatto fisico è stato John Bowlby, pediatra e psicoanalista inglese: abbracci e coccole sono indispensabili per uno sviluppo sano. Ma resta una domanda a cui gli scienziati cercano una risposta: le carezze della mamma lasciano tracce biologiche sull’organismo umano? In un laboratorio canadese, alcuni genetisti hanno scoperto che il Dna dei topolini subisce modificazioni chimiche quando il piccolo entra in contatto fisico con la madre. In parole povere, le coccole non hanno tanto un impatto psicologico, ma piuttosto genetico! Cronometro alla mano, il biologo Michael Meany, responsabile del progetto ”Comportamenti, geni e ambiente” dell’Università McGill di Montreal, osserva due gabbie. All’interno, due mamme-topo accudiscono i cuccioli appena nati. Prima constatazione: una delle due cura i suoi piccoli più dell’altra. Diligentemente, li lecca e li coccola tutti. Per oltre dieci minuti, non fa altro che passare da un cucciolo all’altro. Nella seconda gabbia, la femmina sembra molto meno attenta. In tutto, dedica alla pulizia dei piccoli tre minuti. Meany e il suo gruppo studiano come si sviluppano stress e ansia nei neonati. E osservando i topi riescono a sperimentare molte teorie sull’origine di questi disturbi. Per esempio: le femmine meno ”materne” hanno sempre figli le cui reazioni allo stress sono eccessive. La dimostrazione? Il dottor Meany, improvvisamente, batte le mani. La prima cucciolata s’affanna, ma poi ogni piccolo torna rapidamente alla sua occupazione. La seconda resta come impietrita e ci vogliono alcuni minuti prima che torni alla normalità. Già nel 1957, l’americano Seymour Levine aveva dimostrato che il semplice fatto di separare spesso il piccolo topo dalla mamma nei suoi primi dieci giorni di vita modificava la sua risposta ormonale allo stress. Restano da capire gli ”ingranaggi biologici” di queste modificazioni. I lavori di Meany hanno messo in evidenza, attraverso la biopsia, che le carezze materne hanno un’influenza diretta sul funzionamento di geni specifici del cervello. Per la precisione, le coccole profuse dalla madre attivano geni nei neuroni dell’ippocampo, una zona del cervello coinvolta nelle reazioni allo stress e alla formazione di nuovi ricordi. Quali geni? Quelli responsabili della produzione di ricettori destinati a captare certi ormoni dello stress, i glucocortisoidi. Una volta captati, i ricettori dell’ippocampo neutralizzano l’azione dei glucocortisoidi sull’organismo. A questo punto, gli ormoni non possono più diffondersi e quindi non possono provocare una reazione eccessiva allo stress. La conseguenza è stupefacente: un tratto fondamentale del carattere di un animale adulto può essere provocato non da geni ereditati ma dall’impatto del comportamento materno sui geni. La questione non è tanto sapere se l’ambiente circostante è più importante dell’ereditarietà per spiegare le differenze tra individui. Si tratta di capire come i fattori ambientali agiscono sul genoma di un individuo per conferirgli le sue particolarità. Per il dottor Meany questa è una delle applicazioni più concrete di una disciplina giovane ma che già rovescia le nostre conoscenze sull’ereditarietà. Battezzata epigenetica, non si occupa della sequenza del Dna, che costituisce l’alfabeto di base dei geni, ma delle sottili modificazioni chimiche che si producono intorno al Dna. Tutte le nostre cellule, infatti, contengono i geni necessari a produrre gli elementi che costituiscono il nostro organismo, ma solo alcuni di questi sono attivati. Quelle che gli scienziati chiamano ”modificazioni epigenetiche” intervengono come interruttori che controllano l’attività dei geni, così che solo quelli necessari in una determinata cellula siano attivati. Di questa attività si costituisce una ”memoria”, che viene trasmessa a ogni divisione della cellula. Così le cellule del fegato, per esempio, fabbricheranno altre cellule di fegato. Ma queste modificazioni possono cambiare in funzione di situazioni esterne. Uno degli esempi più studiati è una ricerca epidemiologica condotta nel 1992 sui neonati concepiti durante la carestia di Amsterdam, Olanda, nel 1945. I bambini nati allora, sotto peso per la scarsa nutrizione delle madri, hanno avuto figli molto magri, e in un periodo, gli anni ’70-’80, in cui il livello di vita era del tutto cambiato. Una carestia di qualche mese, rappresenta un periodo troppo corto perché una mutazione si possa installare nel patrimonio genetico di tutta una popolazione. Eppure un’informazione è passata da una generazione all’altra. Solo modificazioni ”epigenetiche” permettono di spiegare questo fenomeno. Esiste però un secondo processo epigenetico: il rimodellamento della cromatina. Nel nucleo di una cellula, le due code del Dna ricoprono proteine chiamate istoni, si avvolgono poi su loro stesse e formano una struttura compatta chiamata cromatina. Una modificazione chimica della molecola di istone può alterare la struttura della cromatina. Questo si ripercuoterà sull’attività dei geni vicini. Michael Meany ha osservato che le carezze della mamma topo provocano una perturbazione nei codici degli istoni. Ma tutte queste modificazioni epigenetiche sono reversibili. In altre parole, un neonato cresciuto con poche attenzioni e poi adottato da una mamma attenta, forse scamperà al suo destino di futuro stressato. E questo rovesciamento può prodursi molte settimane dopo che il piccolo topo è nato, come hanno verificato i ricercatori. Ma cosa dedurre da questi esperimenti per quanto riguarda l’uomo? Quando nascono, i topi hanno una maturazione cerebrale e psicologica simile a quella di un bambino umano prematuro. La loro prima settimana di vita corrisponde all’ultimo mese del bimbo nella pancia della mamma. Bisogna esser cauti nell’applicare queste teorie all’uomo. Ma ora Michael Meany ha un nuovo progetto: esplorare il ruolo dei fattori genetici ed epigenetici nel manifestarsi di stress, ansia e depressione anche negli umani. E nei prossimi cinque anni seguirà centinaia di donne e i loro bambini. Alcune delle donne in questione soffrono di depressione o ansia, altre no. L’esperimento è appena cominciato e i risultati sono attesi con impazienza dal mondo scientifico. E forse un giorno sveleremo una questione molto complessa: come è possibile che il semplice fatto di toccare un neonato agisca sui suoi geni? Gli studi sugli animali non sono ancora terminati e siamo lontani da risposte certe. Ma i dati già acquisiti dai ricercatori promettono in futuro, anche per quel che riguarda gli uomini, risultati sorprendenti.