Corriere della Sera Magazine 27/10/2005, Antonio d’Orrico, 27 ottobre 2005
Ragazzi, basta col sesso e getta. Corriere della Sera Magazine 27/10/2005. Ci sono due uomini al mondo che vestono sempre di bianco
Ragazzi, basta col sesso e getta. Corriere della Sera Magazine 27/10/2005. Ci sono due uomini al mondo che vestono sempre di bianco. Uno è Tom Wolfe, l’uomo che una trentina d’anni fa sconvolse il giornalismo raccontando i radical chic di Manhattan che prendevano l’aperitivo con le Pantere Nere nel lussuoso appartamento di Leonard Bernstein. L’uomo che una ventina d’anni fa sconvolse la letteratura con Il falò delle vanità, il grande romanzo americano degli Anni Ottanta. Lo stesso uomo che oggi ha spiazzato tutti con Io sono Charlotte Simmons, il romanzo dove narra il gigantesco partouze che va in scena ogni notte nelle università Usa: «Sesso, sesso! Si respirava ovunque, insieme all’azoto e all’ossigeno! Tutto il campus era sempre pronto, inumidito e lubrificato! Si ingozzava di sesso! In un arrapamento continuo». Gli arrapati sono ragazzi vestiti (quando sono vestiti) in shorts, maglietta, infradito e berretto da baseball con la visiera all’indietro, e ragazze sottili, toniche e con i fianchi stretti («l’ideale femminile del XXI secolo», osserva Wolfe), di solito coperte con minigonne di pelle a livello pube o jeans Diesel a vita bassissima e, comunque, con l’ombelico al vento e grande uso della tecnica depilatoria detta ceretta alla brasiliana (rasatura integrale dell’area genitale). La colonna sonora dell’orgia studentesca è il rap. Wolfe trascrive scrupolosamente i testi di Doctor Dis (e degli altri suoi colleghi rapper: «sociopatici», li battezza Wolfe con il solito tocco magico per i neologismi). Ecco una breve antologia: 1) «Ma mi capisci o no? /Perché fai tanto la preziosa con la tua fica, troia?»; 2) «Ehi, prendimi i testicoli e come un ghiacciolo succhiali»; 3) «Ha le sue cose e l’assorbente sembra un carro funebre, e la fica è fredda, senza più odore». RADICAL CHIC? Qui siamo al genital shock! All’incubo ricorrente che popola le notti in caverna di Osama Bin Laden e di quanti ce l’hanno con la maialaggine occidentale (e, forse, anche l’incubo saltuario dell’altro signore che veste sempre di bianco). L’autore di questo pandemonio è, invece, «the Lion of New Journalism», il settantaquattrenne, roseo e minuto, seduto di fronte a me su un divanetto del Four Seasons a Parigi, che parla con l’accento chahhhrming dei gentiluomini del Sud. Da più di quarant’anni tutte le interviste a Wolfe cominciano con la descrizione del suo vestito bianco, perciò mi viene la curiosità di sapere se un maestro del giornalismo come Wolfe comincerebbe un’intervista allo scrittore Wolfe partendo dal look. «I miei vestiti sono serviti molto. Quando fui assunto dal New York Herald Tribune, il mio primo impiego, possedevo un solo abito, bianco, e non c ’era nulla di strano perché era estate e perché venivo da Richmond dove non è proprio inusuale vestirsi di bianco. Ma l’abito era pesante, di tweed. Mi dissi: ”Va bene, non lo uso con questo caldo, lo metterò quest ’inverno”. Così feci ma la cosa infastidì terribilmente i newyorkesi. Io non so che messaggio abbia potuto portare in giro vestendomi di bianco d’inverno, so però che ha funzionato e che mi sono divertito». Quando pubblicò il suo primo libro Wolfe scoprì il portentoso potere di vestirsi di bianco. «Dei colleghi vennero a intervistarmi. Per la prima volta in vita mia davo le risposte invece di fare le domande. Da quel che ricordo sono certo di non aver detto nulla di memorabile. Ma gli intervistatori, meravigliosi, scrissero: ”Uh, un uomo interessantissimo, tutto vestito di bianco”. Feci colpo. Allora decisi di usarlo come sussidio alla mia personalità». Non mi dica che veste di bianco anche quando scrive? «Le confesso che quando lavoro non indosso un abito completo però vesto comunque di bianco: camicia, pantaloni, maglione se fa freddo. Che vuole il bianco è diventato il mio simbolo! La cosa, se vogliamo, è un po ’ da pazzi ma in America c ’è un detto: ”Cavalca il cavallo finché va”. Perciò anche la tappezzeria della mia macchina è bianca e devo coprirla col domopak per non sporcarla di continuo». Mai, nemmeno una volta, un’avventura, un flirt, una sveltina (parliamo di abbigliamento) con, per esempio, un jeans? «Una volta sola. Ero in ritardo sulla consegna di un libro e dovevo terminare a ogni costo. Allora mi sono infilato un paio di jeans e mi sono detto: ”Così con questi non esco di sicuro, sto in casa e finisco il libro”». leggendaria la riluttanza di Wolfe a finire un lavoro (reportage o romanzo che sia). La sua folgorante carriera cominciò proprio con un pezzo che non riusciva a finire (e, veramente, nemmeno a cominciare). Era il 1962 e Wolfe lavorava a un reportage per Esquire. La consegna era ormai imminente quando il direttore Byron Dobell si rese conto che Wolfe non aveva scritto una parola ed era in preda al panico. Dobell gli disse: «Dammi gli appunti che li faccio mettere assieme da un redattore». Wolfe stette sveglio tutta la notte e la mattina consegnò al direttore un taccuino di 49 pagine scritte fitte fitte. Era una specie di lettera e cominciava così: «Dear Byron, there goes (Varoom! Varoom!) That KandyKolored Tangerine-Flake Streamline Baby». Dobell la lesse d’un fiato, poi cancellò con un tratto di penna il «Dear Byron» e mandò il taccuino in tipografia. Così nacque una stella, così nacque uno stile, così nacque il New Journalism. Che significa, tra l’altro, documentarsi ficcando il naso ovunque, non dare nulla per saputo, non vergognarsi di fare migliaia di domande (anche le più banali, tipo: «Mr. Wolfe, lei ha mai indossato un paio di jeans?»). Per scrivere Io sono Charlotte Simmons Wolfe ha girato per mesi nelle grandi università americane, come un pazzo ha esplorato «la vita notturna degli studenti, dove nessun adulto di buon senso osa spingersi mai», ha riempito taccuini su taccuini (dear Byron, Tom è sempre lo stesso). E ha scoperto che, oltre a scopare come ricci e bere come spugne, gli studenti non imprecano mai dicendo «Cristo», che non dicono più «fantastico» ma «pazzesco», che chiamano «Monet» quel tipo di ragazza «che, a dieci metri di distanza, fa un gran figurone, ma da vicino delude», che solo le ragazze usano come intercalare «ti giuro». Ha scoperto che per i ragazzi non è più «in» il Giovane Holden («codardo, nevrotico, piagnucoloso») e il suo posto, come bibbia giovanile, è stato preso dal John Belushi di Animal House (la scena in cui si schiaffeggia dicendo «Sono una pustola»!). Ha scoperto che per gli studenti il secolo scorso è la preistoria. Ha misurato il grado di reazione studentesca all’11 Settembre constatando che coincide con lo zero: pensano che sia una cosa successa in Tv. PER l’OCCASIONE HA SMESSO l’abito bianco («per non dare troppo nell’occhio») e ha optato per un più sobrio blazer navy su pantaloni di flanella bianchi. Alla fine del lungo viaggio nella giovinezza dorata yankee ha prodotto un romanzo di 777 pagine che racconta la storia di Charlotte Simmons, una ragazza bravissima a scuola che viene accettata da una delle più esclusive università americane, la Dupont (ateneo inventato, un incrocio tra Yale, Harvard e Stanford). Charlotte, di umili origini, viene dalla Provincia Perduta (Alleghany County, North Caroline) dove si coltivano alberi di Natale, si mastica e sputa tabacco Red Man, si mangia a colazione un intruglio di rene e fegato macinati e i ragazzi ammazzano il tempo correndo di notte in macchina sulla Route 21. Nella Provincia Perduta le mamme (tipo quella di Charlotte) parlano volentieri e diffusamente con le figlie (tipo Charlotte) «di mestruazioni, igiene personale, deodoranti, reggiseni, depilazioni di gambe e ascelle», ma non spendono mai nemmeno una parola su quello che è il problema più lancinante delle figlie («erano sempre meno le ragazze che non la davano prima del matrimonio»). Charlotte è vergine, di più, è quasi del tutto all’oscuro di faccende sessuali. Va in confusione quando legge su Cosmopolitan l’articolo 99 MODI SEXY PER TOCCARLO, con consigli (di lui) del genere: 1) «Togliti le mutandine e mettile nel freezer. Poi usale per accarezzarmi. Non ridere. davvero stupendo»; 2) «La mia ragazza prende una ciambella glassata e ci infila il mio pene...». E via continuando per 97 volte. Il bello è che qualche critico se l’è presa con Wolfe dicendo che Charlotte è troppo scema. Scema Charlotte? E Cosmopolitan allora cos’è? VERGINE E BELLA, CHARLOTTE attizza le brame di Hoyt, una combinazione tra Cary Grant e Hugh Grant (ma più cool di loro), il leader della fraternity studentesca più elitaria, uno che ha le carte in regola per diventare presidente degli Stati Uniti. Insomma il lupo (Hoyt) e l’agnello (Charlotte). l’innocenza e il candore di Charlotte sono costate un mare di critiche a Wolfe in America. «Sono rimasto sorpreso. Poi ho capito che mi criticavano perché erano convinti che io stessi tradendo la causa della Rivoluzione sessuale degli Anni Sessanta. Mi hanno visto come una reincarnazione di Trotzkij, il traditore della Rivoluzione. Charlotte fa scandalo perché non la dà. Adesso in inglese si dice sbrigativamente ”darla” o ”non darla” ma fino a non molto tempo fa si usava un’espressione più elaborata: ”acconsentire (o non acconsentire) a darla”. Questo cambiamento linguistico è significativo». Hanno scritto che a 74 anni lei pensa troppo al sesso. «Oh, è vero! In questo senso: una delle cose che mi ha scioccato di più negli ultimi dieci anni è stato quando mi hanno invitato a una festa nella fattoria di un’enorme piantagione. Ho scoperto che in feste di quel genere rurale si scivola sempre, in un modo o nell’altro, nel sesso. Che poi si tratti di un’ammucchiata o di una cosa vis-à-vis, il finale è sempre quello. Ma c ’è una cosa che mi ha sconvolto ancora di più delle profferte, delle avances ricevute che, tutto sommato, credo di aver risolto bene. A quel party ho capito cosa significhi l’espressione ”respirare sesso”. stato quando mi hanno fatto assistere alla scena di uno stallone impressionante, dal peso di tonnellate, che si scagliava dritto dentro l’utero di una cavalla altrettanto grossa e potente. Una cosa che mi ha sconvolto. Mi sono detto: ” questa l’origine e la fine del mondo, è questo atto qui”». Quella monta bestiale lei l’ha raccontata nel romanzo Un uomo vero. «Ma non me ne sono liberato. Quando la scrissi tutti si meravigliarono, scioccati a loro volta. Proprio tu, Wolfe, scrittore mio! Charlotte, come me di fronte a quella scena selvaggia, resta traumatizzata dai costumi sessuali della Dupont. Quando va alla festa della fraternity di Hoyt, l’alta società studentesca, uno le chiede a bruciapelo: ”Sei vergine?”. Lei non risponde. Ci pensa su, lei la ragazza povera e intelligentissima che ha vinto la borsa di studio per la Dupont. E poi le si squarcia il velo e dice: ”Fino a quindici anni fa anche la più gran puttana del mondo faceva finta di essere vergine, oggi è un peccato mortale esserlo. E tutte, anche quelle che lo sono, fanno finta di non esserlo”. Io sono Charlotte Simmons è un romanzo sul sesso. ciò che io penso della demoralizzazione del sesso. Qualsivoglia contenuto morale che possa avere il sesso è completamente escluso, ignorato, negato. l’unica cosa che è rimasta immorale nel sesso è la pedofilia. Lei sa perché Charlotte la dà, o acconsente a darla, come preferirei si continuasse a dire, a Hoyt?». Perché è un incrocio tra Cary e Hugh Grant, è un leader, è il ragazzo più cool del campus (ecco la sua divisa: «Scarponcini alle caviglie, pantaloni beige senza piega, un maglione di lana spessa con lo scollo a barchetta, una camicia di flanella non abbottonata fino in cima... e, per finire, un cappotto blu di lana, una sola fila di bottoni, lungo fin sotto il ginocchio, foderato di seta blu, il tipo di cappotto che sarebbe perfetto anche con lo smoking. Era il contrasto tra l’abbigliamento casual e il cappotto elegante a rendere l’insieme così cool»). «Sì, ma la molla decisiva è un’altra. Io sono un gran sostenitore della teoria dello status sociale. Nel momento in cui la dà (diciamo così per fare prima), Charlotte pensa in modo sociale. Pensa: ”Ormai l’ho lasciato arrivare a questo punto, se ora lo mandassi via la gente penserebbe che sono scema, mi criticherebbero. Lo status sociale: cosa dirà la gente?». IN TOM WOLFE, LA PSICOLOGIA è sempre sociologia e non a caso i suoi modelli sono Dickens e Zola. Per illustrare le sue teorie Wolfe ha addirittura inventato un Premio Nobel (il professor Starling, il docente della Dupont prediletto da Charlotte). Starling ha vinto il Nobel grazie a un esperimento. Ha preso 30 gatti e gli ha levato l’amigdala, il pezzo di cervello che controlla le emozioni nei mammiferi superiori. I gatti hanno preso a copulare come matti, «uno montava l’altro che a sua volta veniva montato da un terzo, e quello da un altro ancora, e così via, fino a creare dei tandem (volgarmente detti ”trenini”) lunghi anche tre metri». Il professore mostra il fenomeno a un collega. I 30 gatti senza l’amigdala vivono nel laboratorio con altri 30 gatti normali (ognuno chiuso in una gabbia singola). Starling apre le gabbie e un gatto si slancia sul professore ospite scopandogli un piede. «Vedi?», dice Starling al collega ospite. Ma interviene l’assistente: «Professor Starling, quello è un gatto normale, non uno di quelli privi dell’amigdala». Così il professor Starling scopre che i gatti normali, «profondamente influenzati da un ambiente dove l’eccitazione sessuale era a livelli maniacali (tutti quei trenini!), avevano assunto il comportamento dei gatti operati». Il professor Starling scopre i parastimoli culturali, scopre che «una forte pressione sociale o ”culturale”... può modificare le reazioni geneticamente indotte di un animale del tutto normale e sano». A proposito di premi, il professor Starling vince il Nobel col suo esperimento, a Wolfe invece hanno assegnato il Bad Sex Award, il riconoscimento letterario inglese per la peggiore scena di sesso dell’anno. «Ah, sì. l’ho vinto per la scena in cui Charlotte, in macchina con Hoyt, si becca per la prima volta nella vita la lingua di un ragazzo fino alle tonsille. Ho cercato di mettermi nei suoi panni e di pensare quello che avrebbe pensato una come lei in quella situazione. Tipo: ”Ma dove diavolo ha intenzione di infilarmi la lingua? Dove vuole arrivare?”. Quello che ho chiamato il mistero otorino-laringoiatrico del bacio. Gli inglesi, letta questa mezza pagina, mi hanno preso tantissimo per il culo. Io continuo a considerarla una brillante mezza pagina. Rende l’idea dello stato d’animo di Charlotte. Non c ’è nulla di romantico, ci pensi bene, in questa cosa scivolosa che ti arriva in gola fino alle tonsille». WOLFE INVENTA POI «la scopata di testa», il rapporto orale nel campus tra un governatore e una studentessa della Dupont che è uno dei motori della trama. Una strizzata d’occhi all’affaire ClintonLewinsky? «No, la storia del governatore è vera. Però magari quel pompino, diciamo storico, ha avuto un effetto nella mia mente. Sono storie che diventano parte del tuo vissuto». Ma il romanzo non parla solo di sesso. Nel suo j ’accuse Wolfe attacca la mania del politicamente corretto delle università americane. Seduto sul divanetto del Four Seasons Wolfe racconta: «Uno dei motivi per cui ho scritto il libro è che le università vogliono creare una nuova etica, una cosa che la chiesa non ha mai fatto. Per esempio i diritti della donna non sono certo un prodotto che viene dalla chiesa. Il rettore di Harvard è quasi arrivato al punto di dimettersi perché nel corso di un seminario ha ricordato che sono poche le donne che frequentano le facoltà di ingegneria meccanica. Il rettore ha citato alcune teorie di carattere genetico a proposito di questo fenomeno. Il furore che le sue parole hanno scatenato sembrava quello dell’Inquisizione quando si bruciava la gente sul rogo. Questo furore religioso non apparteneva al mondo dell’università». Wolfe non ha perso il pelo (ne sono testimone diretto) e nemmeno il vizio (polemiche con radical chic e simili). Nel libro ironizza sulla mania degli intellettuali ebrei per i diritti «degli omosessuali, delle donne, dei transessuali, delle volpi, degli orsi, dei lupi, dei pesci spada, dei merluzzi, dell’ozono, degli stagni, delle betulle e delle querce». E prende di mira anche i campioni dello sport, divinità dei campus, attraverso il personaggio di Jojo, unico bianco nel team di pallacanestro. Jojo attraversa una crisi, scopre la filosofia di Socrate e Platone e il suo terribile coach lo perseguita come un traditore. Dietro Jojo c ’è un ricordo personale: «Quando giocavo a pallacanestro a Princeton, avevo un compagno che si chiamava Bill Bradley e aveva vinto una borsa di studio assai prestigiosa, la Rhodes, che premia davvero le persone più intelligenti e meritevoli. Un giorno Bill mi disse: ”Mollo tutto e faccio il giocatore professionista di basket”. Rimasi senza parole. Mi sedetti in un angolo a pensare. Questo è scemo, pensavo. Siamo a Princeton, ha una borsa di studio da favola e rifiuta una carriera da vertici di Wall Street. Una grande occasione buttata per giocare banalmente a basket. Quindici anni dopo lo rividi, era diventato senatore del New Jersey. Il personaggio di Jojo prende un po’ spunto da questa storia». UN ALTRO DEGLI EROI DEL LIBRO, Adam, fa il giornalista e, narrando di lui, Wolfe osserva che le redazioni dei quotidiani oggi non sono molto diverse dalle sedi delle compagnie di assicurazioni. Una nota di arredamento che suona come un de profundis per una intera professione. « proprio così», dice Wolfe. «Il giornalismo è un grosso problema in America. Prendiamo il caso dei giornali locali, sono in una situazione di monopolio. Quindi non c ’è concorrenza e i cronisti non se la prendono più di tanto. Ad aggravare la situazione c ’è la televisione che fa cronaca in maniera quasi totalizzante, quella cronaca che invece dovrebbero fare i giornali. E come fa cronaca la Tv? Scomponendo a pezzettini una storia e questo porta a narrare i fatti in maniera sbagliata. Guardando il telegiornale si ha l’impressione che tutto venga descritto perfettamente e chiarissimamente. Ma non è così. I telegiornali degli Anni ’50 davano veramente le notizie, quelli di oggi no». Io sono Charlotte Simmons è anche un trattato sulla coolness, sulla mania di essere cool (come tradurlo? figo? giusto? in? up?, diciamo tutto questo e altro ancora). Charlotte resta scandalizzata dal linguaggio cool che Wolfe battezza «fuck patois» (il patois del cazzo fottuto, come è stato reso dalla eroica traduttrice del libro Marta Matteini). Il fuck patois è fatto di poche parole. In realtà solo due. La prima è «cazzo». «Le parole cazzo, fottere e i loro derivati potevano essere usati in diversi modi. Cazzo era un’interiezione (’Che cazzo”, o semplicemente ”Cazzo”, con o senza il punto esclamativo) che esprimeva disappunto. In funzione attributiva (’testa di cazzo”, ”albero del cazzo”, ”gomiti del cazzo”) significava disprezzo o delusione. Sempre cazzo con fottere, variamente declinati, potevano rafforzare un aggettivo (’Era fottutamente chiaro”) o un verbo (’Non ti muovi per un cazzo”)...». La seconda parola del fuck patois è «merda». Anche qui gli usi sono svariati. Può indicare una bugia (’Mi stai dando merda?”), una incapacità (’Come playmaker era una merda”), una delusione (’Oh, merda!”), uno che se la tira (’ uno spandimerda”). A sigillo del trattato sulla coolness, Wolfe scrive: «Un tipo cool non adula nessuno, né fa l’ossequioso o si lascia impressionare, se non da un atleta forse, e si entusiasma solo per lo sport, il sesso e l’alcol». permesso tutt ’al più, aggiunge Wolfe con vertiginosa autoironia, un lieve apprezzamento per Dickens. PASSANDO DALLA SOCIOLOGIA ALLA psicologia qualcuno ha insinuato che la tenera Charlotte sia figlia della depressione di cui Wolfe ha sofferto. «Charlotte cade in depressione in seguito alla profonda umiliazione provocata dal modo in cui Hoyt le ha levato le ragnatele (gergo studentesco per dire che l’ha sverginata). Certo mi sono basato sui miei ricordi di depresso per raccontare i suoi sentimenti. molto difficile descrivere la depressione, come cercare di spiegare un’esperienza di lsd a chi non l’ha mai provata. Se vuole proprio le mie memorie di depresso, ricordo che quando facevo qualcosa di definito, come guidare la macchina, la depressione non arrivava. Ricordo ancora che continuavo a chiedermi perché diavolo continuassi a leggere. Cosa mi porta di buono un piacere come la lettura se la mia vita è comunque miserevole, è comunque miserrima, se sento che non sto andando da nessuna parte? Però non facciamoci fuorviare. Il fatto che sono stato depresso non ha nulla a che vedere con il resto del libro. Ho scritto questo romanzo perché volevo che fosse allegro, divertente. Se sei depresso non c ’è niente di divertente e di allegro. I cartoni animati spiegano la depressione. Ha presente quando Gatto Silvestro insegue il topo che lo porta sul bordo del precipizio? Gatto Silvestro cade e si spiaccica sul fondo del burrone. Questa scena non è per niente divertente per uno che è depresso. tragica». Hanno anche detto che ha scritto sui giovani in maniera non lusinghiera perché lei ha 74 anni. vero? «Non direi. Ho cominciato a pensare a Charlotte già ai tempi di Un uomo vero e allora non avevo 74 anni. E poi mi guardi, sono in piena forma, faccio ginnastica sei giorni alla settimana. Faccio anche i pesi, ne sollevo di ragguardevoli. Se mi procura dei pesi, posso anche darle una dimostrazione ora. Ma meglio di no, peccherei di esibizionismo». Antonio d’Orrico