Tullio Avoledo, Il Giornale, 11/09/2005, 11 settembre 2005
Così Lincoln cambiò il mondo con 272 parole, Il Giornale, 11/09/2005 l 19 novembre 1863 il presidente Abraham Lincoln fu chiamato a presenziare alla cerimonia inaugurale del cimitero destinato ad accogliere le salme dei caduti nordisti della sanguinosa battaglia di Gettysburg, che solo cinque mesi prima aveva lasciato sul campo 50 mila uomini
Così Lincoln cambiò il mondo con 272 parole, Il Giornale, 11/09/2005 l 19 novembre 1863 il presidente Abraham Lincoln fu chiamato a presenziare alla cerimonia inaugurale del cimitero destinato ad accogliere le salme dei caduti nordisti della sanguinosa battaglia di Gettysburg, che solo cinque mesi prima aveva lasciato sul campo 50 mila uomini. L’intervento del presidente non fu il primo della giornata. L’aveva preceduto un’orazione di oltre due ore tenuta da Edward Everett, insuperabile campione di retorica di quei tempi. Insuperabile e insuperato, perché il successivo intervento di Lincoln rese di colpo obsoleto quel genere di orazione. Lincoln parlò per meno di due minuti. Pronunciò esattamente 272 parole, che cambiarono però la storia degli Stati Uniti d’America. A quelle 272 parole è dedicato il brillante saggio di Garry Wills Lincoln a Gettysburg (il Saggiatore, pagg. 284, euro 19). Uscito in America nel 1992, il saggio procurò meritatamente al suo autore il premio Pulitzer. un’opera poliedrica, uno spaccato che illustra infiniti dettagli della società americana del 1863. Wills riesce a rendere avvincenti non solo le parti epiche del suo racconto, come la raccolta dei resti dal campo di battaglia o lo svolgimento della cerimonia, ma anche i dettagli relativi alla preparazione del discorso, ai tempi e ai costi della realizzazione del cimitero, alla tendenza allora imperante del "Greek revival", all’origine del talento oratorio di Lincoln. Ciò che ha affascinato e affascina i lettori americani di questo saggio è il modo in cui fa riscoprire ex novo un discorso che gran parte di loro impara a memoria sui banchi delle elementari, ma finisce poi per dimenticare o per ripetere come una filastrocca, senza capirne l’esatto significato. Il sottotitolo americano del libro, The Words That Remade America, è in questo senso più esatto di quello italiano Le parole che hanno unito l’America. Il discorso di Gettysburg non unì affatto. Come intuirono già i contemporanei, costituì invece un atto di rifondazione, eseguito attraverso l’appropriazione ideologica dei morti di quell’immane carneficina che fu la Guerra di Secessione. Il giornalista e commentatore H.L. Mencken vide giusto quando scrisse che quelle 272 poetiche parole di esaltazione della libertà, dell’uguaglianza e dell’autodeterminazione dei popoli, costituivano in realtà un falso, un’appropriazione indebita: "I soldati unionisti combattevano in realtà contro l’autodeterminazione. Erano i Confederati a battersi per il diritto di governarsi da soli". Quel 19 novembre, in meno di due minuti il presidente Lincoln, riallacciandosi direttamente alla Dichiarazione di Indipendenza e ponendo nell’ombra la Costituzione, compì insomma un colpo di mano ideologico, orientando la bussola degli Stati Uniti sulla stella polare dell’uguaglianza. Il discorso di Gettysburg, invocando "una nuova nascita nella libertà", costituì le fondamenta ideali di un secolo di lotta per i diritti civili, ma anche la base per la crescente supremazia dell’apparato federale sui singoli Stati, supremazia contro la quale è in atto da decenni in America una rivoluzione silenziosa, che ha già prodotto caduti da entrambe le parti, e che in futuro potrebbe portare a conflitti devastanti. Quel che è certo è che il discorso di Gettysburg rimane insuperato nel campo della retorica, tanto da essere stato ammirato e citato dai più diversi personaggi storici: da Winston Churchill a Joseph Goebbels, che commemorando i caduti tedeschi in Russia riciclò l’espressione lincolniana "l’ultima, estrema misura di dedizione". Ognuna di quelle 272 parole pesa come una pietra, e come una pietra è stata accuratamente scelta da Lincoln, ripulita, smussata, incastonata al posto giusto. Un lavoro di precisione che non lascia nulla al caso, e che Wills fa emergere con mano sicura nel capitolo forse più commovente del libro, quello finale, in cui l’autore ci mostra come le radici bibliche e gli echi della civiltà greca che confluivano nella cultura dell’epoca abbiano trovato in Lincoln il loro più grande e ispirato interprete. Il paragone fra la grandezza di quel presidente e i tempi odierni non è certo lusinghiero per noi. Ma viene da chiedersi, con un brivido, cosa avrebbe potuto fare, un uomo di tale genio, con gli strumenti di comunicazione dei nostri tempi: nel bene come nel male. il capitolo che Wills non ha scritto, ma che anche il lettore italiano di questo libro non potrà fare a meno di scrivere dentro di sé una volta chiusa l’ultima pagina di Lincoln a Gettysburg. TULLIO AVOLEDO