Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  ottobre 31 Lunedì calendario

Tutto il mondo ha ammirato il modo in cui i londinesi hanno reagito agli attacchi del 7 luglio: ”Business as usual”, tutto procede come al solito, nonostante le bombe e il sangue, come quando le V1 e V2 naziste devastarono la capitale inglese nella Seconda guerra mondiale

Tutto il mondo ha ammirato il modo in cui i londinesi hanno reagito agli attacchi del 7 luglio: ”Business as usual”, tutto procede come al solito, nonostante le bombe e il sangue, come quando le V1 e V2 naziste devastarono la capitale inglese nella Seconda guerra mondiale. Gente fiera gli inglesi, ”sanguinanti ma non piegati”, come ha titolato il ”Daily Mirror”. Ma c’è un momento in cui sono stati uguali ai madrileni dell’11 marzo o ai newyorchesi dell’11 settembre. Nel momento in cui sono esplose le bombe erano paralizzati, e il loro cervello lavorava a rilento. Pur conscio che c’è un disastro in atto, e che si sta rischiando la morte, in casi estremi l’uomo reagisce al rallentatore. La circostanza è stata indagata da varie università e centri di ricerca americani, subito dopo gli attacchi a New York, e questo comportamento è stato verificato anche in precedenti disastri, come la collisione fra due Boeing 747 all’aeroporto di Tenerife, nel 1977 (583 morti, l’incidente più grave della storia dell’aviazione). E purtroppo il ”blocco” si è riscontrato anche nell’attacco al World Trade Center: i 15.410 sopravvissuti fuggiti per le scale hanno impiegato circa un minuto per scendere un piano, ma per gli standard elaborati nelle esercitazioni seguite alle bombe del 1993 ne avrebbero dovuto impiegare solo mezzo. Lo dice uno studio del National institute of standards and technology (Nist, l’ufficio misurazioni Usa) realizzato intervistando 900 sopravvissuti. Altre scoperte? Alcune persone letteralmente girarono su se stesse per un’ora e mezzo prima di mettersi in salvo; 135 individui che si sarebbero di certo salvati perché vicini alle scale, non ne approfittarono e morirono. Mille, addirittura, prima di andarsene pensarono a spegnere il computer, con l’aria già intrisa dei gas del carburante in fiamme degli aerei schiantati e le grida dei feriti. Ma allora cos’è che ci blocca dinanzi al pericolo? La spiegazione più plausibile la dà lo psicologo Daniel Johnson che, negli anni 70, ha compiuto una ricerca sul comportamento in caso di disastri per conto della McDonnel-Douglas, uno dei principali produttori di jet di linea al mondo. Esaminando naufragi e incendi, disastri aerei e scontri di treni, la situazione che Johnson ha trovato è sempre stata la stessa: l’umano ”va in palla”, come un computer. Di fronte alla morte imminente si blocca, e spesso muore. Le potenziali vittime «smettono di funzionare», spiega lo psicologo, «semplicemente restano lì sedute, e non fanno nulla». L’origine parrebbe essere in un comportamento animale, in base al quale la preda, che non riesce più a sfuggire al predatore, nel momento fatale si blocca, e finge di essere morta, con una sorta di involontaria e automatica paralisi. Ciò perché, spiegano gli etologi, la maggioranza dei predatori non mangia prede malate o morte, e fingendosi morto, l’animale che sta per diventare un pasto si salva la vita. « un comportamento che abbiamo verificato anche in molti casi di stupro», sottolinea lo psicologo Gordon Gallup Jr. «La vittima è conscia di quel che le sta accadendo, ma non riesce a reagire». Bene, sarà una strategia buona di fronte a un puma, o a un orso, ma un incendio o una bomba se ne fregano di una ”falsa morte” che, anzi, diventa vera. E allora, come superare il blocco delle potenziali vittime, passeggeri di una metro o di un aereo o di un autobus? Con l’informazione, accurata, su cosa fare in caso di grave pericolo. Il problema è una carenza di dati che affligge il nostro cervello. Nel disastro non capiamo cosa stia succedendo, e se normalmente impieghiamo dagli 8 ai 10 secondi per ogni nuovo ”pezzo” d’informazione, con il caos e il pericolo il cervello rallenta, ma vuol ugualmente trovare una soluzione, e gira al minimo cercandola. Ma il rischio è di non farcela. E il cervello si trova in difficoltà ad accettare quel che accade. «La reazione più ragionevole è pensare: ehi, non sta succedendo a me», spiega Michael Lindell, docente al Centro per la riduzione e la cura del rischio dell’università A&M del Texas «e invece purtroppo non è così». D’altronde di solito nella vita si sperimenta al massimo un solo disastro e non si è preparati. La soluzione è farsi trovare pronti, esercitarsi, in modo che il cervello sappia cosa fare in caso di pericolo estremo e elabori più velocemente le informazioni.  il caso dei coniugi Heck, due californiani che il 27 marzo 1977 erano sul 747 Pan Am colpito a Tenerife dal 747 Klm che gli piombò addosso a 260 chilometri all’ora. «Ero paralizzata, il mio cervello era vuoto - racconta Floy, la signora - ma mio marito Paul mi afferrò e mi trascinò fuori dalla fusoliera squarciata prima che l’aereo prendesse fuoco: l’ho seguito come una zombie, e ho visto gli altri morire». Paul, oggi settantenne, da ragazzo era sopravvissuto all’incendio di un cinema, e da allora in ogni posto sconosciuto cercava per abitudine una via d’uscita, sempre. Inoltre il signor Heck, prima del decollo, s’era studiato il cartoncino con le istruzioni da seguire in caso d’incidente. Il suo cervello aveva già le informazioni necessarie e reagì velocemente, salvandogli la vita. Questo episodio conferma le teorie di Mac McLean, uno scienziato che da sedici anni studia piani di evacuazione all’Istituto di medicina aerospaziale della Faa (Federal Aviation Administration). Mac McLean è convinto che se i passeggeri avessero bene a mente le istruzioni per fuggire da un aereo, in caso di emergenza si muoverebbero molto più rapidamente. Ma le compagnie aeree non gli danno retta: «I dirigenti e l’equipaggio sottovalutano la capacità dei passeggeri. Li trattano come capre. Invece, se ricevessero istruzioni adeguate, molte persone sarebbero in grado di cavarsela. Le compagnie aeree, però, mi rispondono sempre la stessa cosa: ”Non vogliamo spaventare i passeggeri”. E così molti passeggeri si comportano davvero come capre. E in caso di tragedia si trovano del tutto impreparati. Vogliono solo che qualcuno li prenda per mano dicendo con voce tranquilla: ”Ok, bisogna uscire di qui. L’aereo è in fiamme”».