Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  ottobre 28 Venerdì calendario

Molti credono che tutto ciò che si perde in mare appartenga a chi lo recupera. Niente di più sbagliato

Molti credono che tutto ciò che si perde in mare appartenga a chi lo recupera. Niente di più sbagliato. In realtà, gli aspetti giuridici della questione sono parecchi e complessi, con profonde differenze tra nazione e nazione. Una delle distinzioni più note è quella tra acque territoriali e internazionali. Cina e Filippine, ad esempio, rivendicano diritti esclusivi per tutti i relitti che si trovano nei loro confini, anche se qualcuno può dimostrare di esserne legittimo proprietario. La maggior parte degli Stati occidentali, invece, riconoscono la proprietà anche dopo centinaia d’anni. Le acque territoriali sono molto spesso entro le 12 miglia marine (22,3 km) dalla costa, ma tale distanza non è accettata da tutti i Paesi. A un quadro giuridico assai complesso (a cui si assommano ricompense, ”taglie”, premi e quant’altro per incentivare il recupero), si aggiungono le questioni culturali. Alcuni Paesi proibiscono il recupero a fini commerciali dei relitti storici. L’Australia, ad esempio, è tra le nazioni più severe del mondo in merito di archeologia sottomarina. Anche Italia, Francia, Spagna, Grecia e Portogallo hanno leggi molto rigide sui relitti storici nelle loro acque, mentre più permissivi sono Gran Bretagna, Stati Uniti e numerosi Paesi dell’Africa, del Sudamerica e dell’Estremo Oriente. In acque internazionali i problemi possono diventare enormi, soprattutto se ci tenta di capire sotto quale giurisdizione si trova il relitto.