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 2005  ottobre 28 Venerdì calendario

Alzheimer, Parkinson, diabete, malattie cardiocircolatorie... aggiungiamoci una lunga serie di tumori ed ecco squadernate le apocalissi che flagellano l’umanità

Alzheimer, Parkinson, diabete, malattie cardiocircolatorie... aggiungiamoci una lunga serie di tumori ed ecco squadernate le apocalissi che flagellano l’umanità. Molte di esse, chi più chi meno, sono malattie legate a doppio filo con i processi senili: non è detto che invecchiando ci s’ammali inevitabilmente, ma è certo che la degenerazione cellulare aiuta, purtroppo. La riscossa, però, è già cominciata e, sebbene la nuova medicina sia ancor giovane, quasi neonata, i suoi primi vagiti sono assai incoraggianti. Quattro anni fa, quando fu tracciata la mappa dell’intero genoma umano, si gridò alla rivoluzione medico-scientifica. «Abbiamo ottenuto la decodificazione di tutti i capitoli del libro d’istruzioni della vita umana», esclamarono, in un comunicato congiunto, le sei nazioni che parteciparono al proto. «Questa nuova conoscenza permetterà progressi rivoluzionari nelle scienze biomediche e per il benessere dell’umanità. stato inoltre fatto un gran passo in avanti per la salute dei popoli del pianeta, poiché il genoma umano è patrimonio comune». Nonostante i titoli a caratteri cubitali di quei giorni, nessuno scienziato descrisse idilliaci panorami a breve termine. Al contrario. Perché, tra le buone intenzioni e le reali conquiste, di mezzo ci sarà sempre il classico mare. E in questo caso, oltre alla complessità degli studi e degli esperimenti, v’è un oceano spesso privo d’incoraggiamenti economici, un deserto in cui la ricerca pura si smarrisce e i finanziamenti pubblici non evitano naufragi o fughe di cervelli all’estero. Il salvagente per non affogare, insomma, sta da tutt’altra parte: sulla spiaggia dell’iniziativa privata. «Genextra è una società che investe in àmbito farmacogenomico e biotecnologico», scandisce Paolo Fundarò, direttore finanziario della holding (vedi box). «In parole povere, il nostro obiettivo è la drug discovery, la scoperta di nuovi farmaci, attraverso le tecnologie derivate dalla decodificazione del genoma umano, la cosiddetta postgenomica». Gli scopi della ricerca, però, non sono la vera novità di Genextra che, in questo, è simile a molte biotech company internazionali. «In effetti, ci proponiamo di colmare il mare che in Italia s’estende tra lo studio accademico e l’industria farmaceutica vera e propria. Le scoperte migliori, infatti, nascono proprio dall’università o dai centri di ricerca pubblici. Ma condurre in porto anche una sola idea promettente costa un patrimonio. Si pensi che la sola fase di discovery – quella di cui ci occupiamo – può durare anche un decennio. E, bene che vada, soltanto dopo 5 o 6 anni s’incomincia a intravedere qualche risultato tangibile. Per sostenere un tale impegno, il denaro pubblico non basta. Occorrono realtà private che investano e rischino su queste attività scientifiche all’avanguardia. Genextra è una di queste: una mosca bianca nel nostro Paese, contrariamente a quanto succede nel resto del mondo». «Il rischio di investire in una biotech company può esser davvero colossale, anche quando le premesse di partenza sono buone», fa eco Pier Giuseppe Pelicci, presidente del team scientifico nonché direttore del dipartimento d’oncologia sperimentale all’Istituto europeo d’oncologia (Ieo) di Milano, l’uomo da cui tutto è partito. «Ma non si può negare che i ricavi, in caso di successo, saranno davvero enormi. Inoltre, ciò costituisce l’unica possibilità per ottenere qualcosa di concreto dalle nozioni acquisite con la postgenomica». In soldoni? «La possibilità di creare cure efficaci contro le malattie degenerative». Le fondamenta di Genextra sono più che solide. Circa sei anni fa, frugando tra i circa 25 mila geni di cui è composto il corpo umano, Pelicci ne trovò uno che, da solo, era in grado di controllare la lunghezza della vita in un topo. «Il gene si chiama P66», racconta Pelicci. «E non è da molto che abbiamo scoperto come funziona il meccanismo. Tutto parte da un altro gene, il P53, noto da decenni. Questo gene ci protegge dal cancro, ma lo fa a modo suo. Ogni volta che una cellula è sottoposta a uno stress di qualche tipo, il P53 interviene e lancia un segnale al P66. Quest’ultimo estrae dalla cellula alcune sostanze ossidanti, i cosiddetti radicali liberi: se il P66 ne prende in eccesso, la cellula muore; se in quantità minore, rimane danneggiata e invecchia. Insomma, da un lato ci protegge dalle cellule anomale che potrebbero diventare tumori, dall’altra però ci fa anche invecchiare». Negli ultimi anni, in effetti, i radicali liberi sono stati in particolar modo demonizzati, quasi quanto il colesterolo. «Infatti. Ed è proprio in quest’àmbito l’aspetto più rivoluzionario della scoperta», aggiunge il professore. «Si è sempre creduto che l’invecchiamento derivasse essenzialmente dall’ambiente. Adesso sappiamo per certo che dipende anche dai geni. Ce ne sono almeno sette o otto che controllano i processi della senescenza. Ogni cosa ha origine nei mitocondri, organuli presenti nel citoplasma che presiedono all’energia necessaria a tutte le attività cellulari. In pratica, producono elettroni. Ogni tanto, uno di questi elettroni ”salta”, trasformandosi in un radicale libero che danneggia la cellula. Si pensava fosse l’errore di un sistema imperfetto, inevitabile... Invece no, è il P66 che estrae dai mitocondri questi folli elettroni». In conclusione? «In conclusione l’idea è questa», sentenzia. «Trovare una molecola che inibisca l’azione del P66. Questo è uno tra gli obiettivi principali di Genextra».  come ammettere che la vostra società sta cercando l’elisir di lunga vita? «Nulla di più sbagliato», blocca subito Pelicci. «Affermarlo sarebbe una follia. Togliamo di mezzo qualsiasi sensazionalismo idiota, per favore. Ragioniamo: i fattori che causano l’invecchiamento – anche prendendo in esame soltanto quelli genetici – sono così tanti che la ricerca e la sperimentazione assumerebbero dimensioni e costi spropositati. Inoltre, pur ipotizzando la creazione di un tale farmaco, occorrerebbe sperimentarlo su un vasto gruppo di esseri umani per un tempo molto lungo, diciamo 30-40 anni. D’altra parte, i tempi non potrebbero essere inferiori. Come faremmo, con altre procedure, a capire se davvero blocca l’invecchiamento?». Ma se non resteremo giovani in eterno, a che servono tanti sforzi? «A combattere le malattie legate all’invecchiamento. Diabete, Alzheimer, Parkinson, aterosclerosi e malattie cardiovascolari, tumori... Rallentare la degenerazione in alcune zone particolarmente sensibili del corpo umano sarà uno dei traguardi della futura medicina. Si avrà anche la possibilità di ottenere veri e propri farmaci personalizzati...». Nel senso che ognuno di noi avrà le sue medicine fatte su misura, come un abito di sartoria? «Non proprio, ma quasi», riprende Pelicci. «Poniamo che io abbia una delle tante malattie infettive in circolazione, cioè una comune patologia dovuta al contagio da parte di qualche virus, batterio, fungo o parassita. Già oggi, contro ciascuno di questi malanni, possediamo molteplici farmaci. Poiché ogni individuo è diverso dall’altro, a qualcuno un farmaco farà bene, a un altro gioverà poco, a un terzo farà addirittura male. Non è facile né immediato prevedere l’effetto che una medicina avrà su un paziente. Grazie agli studi di postgenomica, invece, sarà possibile individuare quale elemento attivo agisce con più efficacia (e con meno controindicazioni) per il mio organismo, che è diverso da quello di un altro. Insomma, l’idea è un po’ quella della ”bomba intelligente”: colpire l’obiettivo bellico ed evitare inutili stragi tra i civili». «Un altro esempio calzante – e piuttosto attuale – è oggi offerto dalla gran pubblicità che gira attorno agli integratori antiossidanti, ormai aggiunti a qualsiasi cosa si mangi», incalza ancora il professore. Perché, non funzionano? «Al contrario, funzionano in maniera esagerata», sottolinea. «I processi ossidativi saranno anche in parte dannosi per l’organismo, ma sono al contempo necessari al corretto funzionamento delle cellule. Un antiossidante generico agisce come una bomba atomica su un formicaio. come se, per evitare che il ferro della mia cancellata arrugginisca, togliessi di colpo tutto l’ossigeno a Milano. La cancellata non s’arrugginirà, ma mi chiedo quanta gente ne gioirebbe... No, la medicina del futuro ha obiettivi molto più mirati. Colpire con precisione, come fosse un’operazione di nanochirurgia. L’obiettivo è questo». E quanto tempo ci vorrà? «Chi può saperlo davvero?», conclude Pelicci. «Per questo le biotech company sono un rischio. Noi siamo in piena attività da un anno e mezzo e le cose sembrano procedere bene, secondo il nostro primo programma triennale. Alla fine dei tre anni tireremo le somme e capiremo se esistono premesse per un secondo piano triennale... e così via, nella speranza di raggiungere i traguardi che ci siamo ripromessi. E non ci piace sbilanciarci troppo. Posso dire che, in questo momento, l’unica cosa che abbiamo certa è che senza il P66 i topi vivono più a lungo. Ma un risultato importante credo che sia stato già conseguito». E quale? «Quello di scuotere lo stereotipo del ricercatore rinchiuso in una torre d’avorio, preso esclusivamente dalle sue provette. Crediamo sì nella ricerca libera - libera dalle pastoie delle grandi case farmaceutiche - ma che comunque crei risorse, posti di lavoro, interesse economico. Stiamo offrendo un esempio in patria: invogliare i nostri scienziati a diventare imprenditori. All’estero è già una realtà. Da noi non ancora. Tanto più che non ci mancano scienziati brillanti. Nel nostro Paese, inoltre, i costi sono anche più bassi che altrove. Non è poco e ha certo un peso nell’attirare nuovi investimenti. Anche questo, credo, sia un modo per arrestare l’invecchiamento e la morte della ricerca italiana».