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 2005  ottobre 28 Venerdì calendario

Morto un senso, se ne fa un altro. Come? Attingendo a quella meravigliosa macchina ”per sensazioni” che è il corpo umano, naturalmente

Morto un senso, se ne fa un altro. Come? Attingendo a quella meravigliosa macchina ”per sensazioni” che è il corpo umano, naturalmente. Perché i canonici cinque sensi (vista, udito, tatto, gusto e olfatto), che tutti abbiamo conosciuto fin dai banchi delle elementari, altro non sarebbero che la punta dell’iceberg di un apparato sensoriale incredibilmente complesso. Tutti abbiamo sentito – almeno una volta nella vita – che quando una persona è priva di un senso, acuisce enormemente i restanti. Ebbene, la faccenda non dovrebbe sorprendere, se pensiamo che i sensi non sono cinque, ma almeno nove. E questa è l’ipotesi meno ardita: molti ricercatori sono pronti a scommettere sulla presenza di ben venti sensi, altri addirittura su trentatré. Facciamo un esempio: chiudete gli occhi e sollevate da terra una gamba (non troppo, per carità!). Se non avete esagerato con gli alcolici, difficilmente cadrete di schianto sul pavimento. Quale dei vostri comuni cinque sensi vi ha aiutato a rimanere in piedi? La vista? Ma gli occhi erano chiusi... Il tatto? Improbabile. La risposta esatta è: nessuno. Siete rimasti in piedi grazie al vostro senso dell’equilibrio, il cui organo sensoriale si trova nell’orecchio interno. il medesimo senso che vi fa soffrire di mal d’auto o di mal di mare, quando il terreno sotto di voi non è sufficientemente stabile. Secondo esperimento: chiudete gli occhi e alzate le braccia davanti a voi. Provate ad applaudire. Che cosa vi ha fatto trovare le vostre mani con tanta sicurezza? La vista? Idem come sopra. La memoria? Non scherziamo. stata la ”propriocezione”, ossia la percezione del proprio corpo: migliaia di recettori all’interno dei muscoli e della pelle hanno inviato segnali elettrochimici al cervello per indicare dove si trovano il nostro corpo e le sue parti. Jean-Pierre Roll, direttore del Laboratorio di neurofisiologia del Cnrs di Marsiglia, è riuscito a intercettare e a registrare questi segnali, collocando microelettrodi sul gomito e sulla spalla d’alcuni volontari, mentre scrivevano una lettera dell’alfabeto. In un secondo momento, ha ritrasmesso i medesimi segnali ai medesimi indirizzi: le ”cavie” hanno sperimentato una sorta di vibrazione e hanno riconosciuto la lettera, senza doverla scrivere. Anzi, hanno avuto proprio l’impressione di vergarla sulla carta, benché la loro mano fosse del tutto immobile. Ma c’è di più: a cinque persone con un arto ingessato, gli sperimentatori hanno applicato – tre volte a settimana – uno stimolo di movimento al braccio o alla gamba interessati. Risultato: in tutti i casi, una mobilità dell’80 per cento ritrovata subito dopo l’eliminazione dell’ingessatura, nonché un periodo di riabilitazione più breve. Altro esperimento. Chiudete gli occhi e chiedete a un vostro vicino di darvi un bel pizzicotto. Sentito male? Certo che sì! E che cosa vi ha avvertito del dolore? La vista? Il tatto? No, la ”nuocicezione”, una parola dalla pronuncia non facilissima, composta da ”nuocere” (far del male) e - naturalmente - ”percezione”. Perché non soltanto la nostra pelle è ricca di ricettori che ci avvertono del dolore (le cosiddette terminazioni nervose libere), ma anche i nostri muscoli e le nostre viscere. Non basta: noi proviamo anche freddo, caldo, fame, sete, sazietà, mancanza di respiro, aumento o diminuzione della pressione sanguigna, senso d’accelerazione... Come avvertiamo tutte queste sensazioni? Le proviamo grazie alla ”introcezione”, un modo complicato per definire la ”percezione fisica interna” del nostro corpo. E con questo senso siamo a nove, comprendendo anche i classici e ben noti cinque. Naturalmente, questo non vieta di scomporre ciascun senso in uno più specifico: il senso della fame, quello della sete, la percezione del rosso, la percezione del blu... Insomma, si fa in fretta a contarne venti o addirittura trentatré. Per comprendere come funzionano le nostre sensazioni, gli studiosi tentano di capire che cosa ci passi per la testa. In senso davvero letterale. Tutte le informazioni sensoriali, siano esse luminose, sonore, di fame o di sete, arrivano al cervello sotto forma di segnali elettromagnetici. Qui attivano zone specifiche, che reagiscono a tali sollecitazioni. Il nostro cervello possiede una sorta di mappa che permette l’immediata conoscenza di quale parte del corpo viene sollecitata. Ha inoltre la capacità di riconoscere e di ricostruire l’immagine di un oggetto attraverso la forma, le dimensioni, il colore, le caratteristiche... Insomma, è dentro la nostra testa che nascono tutte le percezioni. O, per lo meno, così è sempre stato pensato dalla scienza. Qualcuno però non è d’accordo. Uno di questi è Kevin O’Regan, del laboratorio di psicologia sperimentale del Cnrs all’Università di Parigi V. A suo avviso, le sensazioni sono senza dubbio elaborate dai neuroni del cervello, ma tale fatto non è in grado di spiegare tutto ciò che avviene. Una sensazione è soprattutto il prodotto delle nostre interazioni con l’ambiente, attraverso centinaia di milioni di recettori. Una questione di lana caprina? Affatto. Perché queste ricerche troveranno domani applicazioni pratiche: riprodurre sensazioni reali nella realtà virtuale, permettendo di trattare malattie e disfunzioni, come la sordità o la cecità. Ma facciamo un passo per volta. Per studiare le capacità sensoriali, Kevin O’Regan ha tentato una strana esperienza. Un volontario colloca un braccio dietro uno schermo che lo nasconde alla sua vista. Un braccio finto, con una mano enorme, è disposto davanti allo schermo, ben visibile. Lo sperimentatore picchietta velocemente prima il braccio finto poi quello vero, alternativamente. Dopo una decina di minuti, la cavia ha la sensazione netta che il braccio finto gli appartenga davvero. E così, quando si chiede al volontario di afferrare un bicchiere d’acqua posto abbastanza lontano, egli compirà soltanto un minuscolo movimento con la mano vera. Per forza: è convinto che sia enorme! Percezione e realtà, questa volta, non hanno lavorato bene insieme. «I videogiochi possono creare effetti simili», afferma il ricercatore. «Infatti, se uno gioca per ore in un ruolo particolare – per esempio, impersonando un grosso scarafaggio – continua a sentirsi nel carapace dell’insetto anche qualche minuto dopo aver cessato di giocare». Questa estensione dei nostri sensi permette autentici miracoli. Come quello che avviene all’Università del Wisconsin, dove i non vedenti ritrovano la vista... con la punta della lingua! Paul Bach-y-Rita ha cominciato a lavorare a tale processo fin dal 1963. Il non vedente è munito di una microcamera, in cui le immagini sono tradotte in segnali elettrici, a loro volta trasmessi a una lamina di stimolazione tattile posta sulla lingua del soggetto. Non a caso: la punta della lingua è una delle parti più innervate del nostro corpo. Et voilà: il non vedente ”vede” l’ambiente circostante. Dopo un periodo di apprendistato, riconoscerà perfettamente gli oggetti che incontra. Non basta. Si può vedere anche con le orecchie, grazie all’apparecchio messo a punto da un ingegnere olandese, Peter Meijer e sperimentato nel laboratorio di Kevin O’Regan. Si chiama ”the vOICe” (dove le maiuscole, pronunciate all’inglese, suonano come Oh, I see, ”Oh, io ci vedo”). Una webcam capta le immagini che un microprocessore scandisce in toni di grigio, traducendoli in informazioni sonore. Dopo qualche ora d’apprendimento, un cieco munito dell’apparecchio ”vede con le orecchie”, percependo direzione, profondità, dimensioni e distanza degli oggetti che incontra. Un’utilizzatrice racconta che, dopo soltanto qualche settimana, poteva contemporaneamente ascoltare la radio: aveva imparato a separare i suoni provenienti dall’altoparlante da quelli emessi dal the vOICe, come se avesse posseduto due sensi distinti. E le persone vedenti che lo hanno sperimentato hanno avuto la sensazione di aver sviluppato un senso supplementare. Le applicazioni non si fermano qui, è ovvio. Pensiamo a un ospedale del prossimo futuro, diciamo nel 2010. In sala operatoria, i chirurghi si apprestano a eseguire una biopsia. Sulla lingua hanno una sottile lamina munita di elettrodi, connessa con una microcamera sulla punta dell’ago per biopsie. Invece di seguire l’andamento dell’ago sullo schermo di un computer, che costringe il chirurgo ad alzare la testa e a interrompersi, il medico può ”leggere” le stimolazioni tattili con la lingua. Questo sistema già esiste: si chiama Tdu (Tongue display unit) ed è stato da poco brevettato da Paul Bach-y-Rita. Insomma, giocando con i sensi e le loro interazioni, le applicazioni concrete non mancano.