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 2005  ottobre 28 Venerdì calendario

Ab òvo. Nelle Satire, Orazio deride quei cantanti che, pregati dagli amici di esibirsi, se ne stanno ostinatamente zitti; se invece nessuno desidera sentirli, si scatenano e non c’è modo di farli tacere

Ab òvo. Nelle Satire, Orazio deride quei cantanti che, pregati dagli amici di esibirsi, se ne stanno ostinatamente zitti; se invece nessuno desidera sentirli, si scatenano e non c’è modo di farli tacere. Uno di questi era il sardo Tigellio, che avrebbe detto di no anche all’imperatore. Quando gli veniva la voglia, però, gorgheggiava ”ab ovo usque ad mala”, dall’uovo fino alle mele, cioè dall’antipasto alla frutta. Ad Kalèndas graecas. Parlando dei debitori morosi, dai quali era vano aspettarsi il pagamento di quanto dovuto, Augusto diceva ironico (lo racconta Svetonio) «pagheranno alle Calende greche». Siccome nel calendario greco le Calende non esistono, ad Kalendas graecas equivale a ”mai”. Ad lìbitum. A piacere, a volontà, secondo il proprio capriccioso desiderio. Nel secondo girone dell’Inferno, Dante colloca tra i peccatori carnali la regina assira Semiramide la quale ”A vizio di lussuria fu sì rotta Che libito fe’ licito in sua legge Per tòrre il biasmo in che era condotta” (Inferno, v. 55-57). lea iàcta est. Secondo Erasmo, la frase esatta, attribuita da Svetonio a Cesare, è ”Alea iacto esto, il dado sia tratto”. Cesare la pronunciò passando il fiume Rubicone, quando il Senato, schierato dalla parte del rivale Pompeo, gli intimò bruscamente di lasciare il comando della Gallia Cisalpina e di tornare a Roma da privato cittadino. Varcare in armi quel fiume significava la guerra civile, non farlo equivaleva alla morte politica. Mentre meditava, Cesare ebbe la visione di un uomo bellissimo che passava il fiume con la tromba, intonando un canto di battaglia. Al che esclamò: «Andiamo là dove ci chiamano i prodigi degli dei e l’iniquità degli uomini. Sia tratto il dado». Beàti monòculi in tèrra caecòrum. In una terra di ciechi, beati coloro che hanno un occhio solo. Equivale al proverbio: chi si contenta, gode. Bonònia dòcet. Bologna insegna. Per studiare diritto nel prestigioso ateneo della città (il più antico d’Italia) accorrevano studenti da tutta Europa, pagandosi di tasca loro i professori. I libri costavano così cari che si prendevano a noleggio. Con la Sorbona, l’università bolognese era la più importante di tutte. Brèvi mànu. Una lettera, un plico, sono consegnati brevi manu (’con mano breve”) quando la consegna avviene direttamente, personalmente. Nel linguaggio giuridico romano significa ”subito, lì per lì”. Càrpe dìem. ”Carpe diem, quam minimum credula postero”, scrive Quinto Orazio Flacco a Leuconoe: «Cogli l’oggi, vivi alla giornata, e nel domani credi il meno possibile». Castìgat ridèndo mòres. Ridendo corregge i costumi. Frase scritta sul busto di Arlecchino che ornava il proscenio della Comédie Italienne (XVII secolo). Cògito èrgo sum. Di tutto posso dubitare, diceva il francese René Descartes, latinizzato in Cartesius, indi Cartesio, ma non posso dubitare del fatto che sto dubitando. «Nell’istante in cui volevo pensare che tutto fosse falso, occorreva necessariamente che io, che pensavo, fossi qualcosa e notando che questa verità, penso dunque sono, era così solida e così certa che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici erano incapaci di metterla in crisi, giudicai di poterla accettare senza scrupoli come primo fondamento della filosofia che cercavo». Su questo postulato Cartesio fondò il razionalismo, pietra angolare della filosofia moderna. Còram pòpulo. Ponzio Pilato, rifiutandosi di giudicare Gesù, disse: «Io sono innocente del sangue di questo giusto» e si lavò le mani coram populo: davanti al popolo, pubblicamente. Cum gràno sàlis. Con un grano di sale. Cioè con discernimento. Il sale è sempre stato simbolo della saggezza, tanto che i toscani indicano con la parola ”sciocco” tanto un cibo scarso di sale quanto un uomo scarso di senno. Dìvide et ìmpera. Dividi e impera. Motto attribuito a Filippo il Macedone e a re Luigi XI di Francia. Do ut des. Io do, affinché tu dia. L’equivalente nostrano è ”una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso”. Erràta corrìge. Correggi le cose errate. «Nessuno è infallibile, e tanto meno gli stampatori di libri. Il loro stesso capostipite, Gutenberg, quando stampò il Psalmorum Codex diede al mondo il primo libro recante luogo e anno di stampa (Magonza, 1457) e il primo esempio di errore tipografico. Difatti nel colophon al posto di ”psalmorum” apparve un sacrilego ”spalmorum”. Stampa ed errore di stampa sono nati insieme, come due gemelli». Excusàtio non petìta accusàtio manifèsta. Una scusa non richiesta è un’accusa manifesta. I contadini dicono: «La prima gallina che canta ha fatto l’uovo». Fàber est sùae quìsque fortùnae. Ciascuno è fabbro, artefice, della propria fortuna. Fràngar non flèctar. Sarò spezzato, non sarò piegato. Motto dell’uomo di carattere, tutto d’un pezzo, che crede in se stesso. Se invertiamo l’ordine dei due verbi abbiamo invece il motto dell’uomo flessibile, accomodante: ”mi piego ma non mi spezzo”. Gènus irritàbile vàtum. La razza suscettibile dei poeti. Lo dice Orazio (Epistole, II, 2, 102) che ben conosceva i colleghi. Dante e Boccaccio erano piuttosto permalosi. Pietro Aretino, al feroce epitaffio scritto da Paolo Giovio: ”Qui giace l’Aretin, poeta tosco, di tutti disse mal, fuorché di Cristo, scusandosi col dir: non lo conosco”, rispose: ”Qui giace il Giovio, storicone altissimo, di tutti disse mal fuorché dell’asino, scusandosi col dire: egli è mio prossimo”. In tempi più vicini a noi D’Annunzio definì il futurista Marinetti ”il cretino fosforescente”. Gùtta càvat làpidem. La goccia scava la pietra. Famose maestre di perseveranza sono le formiche. Si racconta che Tamerlano, il crudele sovrano turco dell’Asia centrale (XIV secolo), tentati invano dieci assalti alla città di Baalbek, si ritirò scoraggiato nei suoi accampamenti. Non voleva più combattere. Ma la sera, durante il bivacco, osservò una formica che si accaniva a trascinare un chicco di frumento verso il suo nido. Dieci volte fallì. L’undicesima vi riuscì. Allora Tamerlano ritornò sui suoi passi ed espugnò Baalbek. Hic et nunc. Qui e subito, all’istante, senza spostamento nello spazio e nel tempo. Hic Rhòdus hic sàlta. Qui è Rodi, qui salta. Con questa frase si mette alla prova lo sbruffone che racconta imprese mirabolanti, tutte avvenute, guarda caso, in tempi e luoghi lontani, senza testimoni che possano confermare e smentire. Esopo riferisce di un tale che si vantava di aver fatto, nell’isola di Rodi, un salto grandissimo, eccezionale. A un certo punto un ascoltatore lo interruppe: «Fai conto che qui sia Rodi, e ripeti il salto». Hòmo hòmini lùpus. L’uomo è lupo per l’uomo. La teoria, anticipata da Plauto nella commedia Asinara (’lupus est homo homini, non homo”: l’uomo è lupo, non uomo, verso l’uomo) è alla base della concezione, pessimistica e materialistica, che il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) ha della società umana. Hòrror vàcui. Orrore del vuoto. La fisica aristotelica pensava che la natura ripudiasse gli spazi vuoti e così spiegava il perché dell’acqua che sale nelle pompe. Più tardi si scoprì che, a far salire l’acqua, è il peso dell’aria. bis redìbis non morièris in bèllo. Risposta ”double-face” dell’oracolo a un soldato, che lo interrogò prima di partire per il fronte: infatti il senso della frase si capovolge secondo la collocazione della virgola. Se la mettiamo dopo ”redibis”, la frase significa: ”Andrai tornerai, non morirai in guerra”. Se la mettiamo dopo ”non”, vuol dire: ”Andrai non tornerai, morirai in guerra”. In mèdio stat vìrtus. La virtù sta nel mezzo: lo disse Aristotele, lo ripeterono gli scolastici medievali. Iùs prìmae nòctis. Diritto della prima notte. Presunto diritto secondo il quale il feudatario pretendeva che le donne del feudo che andavano spose trascorressero con lui la prima notte di nozze. Sull’argomento si hanno notizie confuse, pare tuttavia che tale diritto venisse esercitato il più delle volte simbolicamente, con un casto bacio sulla guancia della sposa. Laudatòres tèmporis àcti. Lodatori del tempo passato. Rimpiangiamo i tempi passati anche in senso meteorologico. Diciamo: ”Ormai non ci sono più le mezze stagioni”, discorso che già fece Lorenzo Magalotti, segretario dell’Accademia fiorentina del Cimento, il 9 febbraio 1683. Lùpus in fàbula. Il lupo nella favola. Quando appare improvvisamente la persona di cui stiamo parlando (specie se ne parliamo male) tutti ammutoliscono, come nelle fiabe quando arriva all’improvviso il lupo, animale che incute paura a tutti. Mèlius abundàre quam defìcere. Meglio abbondare che scarseggiare. Memènto mòri. Ricordati che devi morire. Uno studente maldestro tradusse ”Ricordati di morire”, lasciando intendere che gli smemorati sono immortali. Mìnus habens. Avente di meno, che ha di meno. Oggetto sottinteso è l’intelligenza, quindi il minus habens è uno che ha meno intelligenza, un ritardato mentale. Mors tùa vìta mèa. La tua morte è la mia vita. Ciò che per te è la rovina per me è la salvezza. Nella tragedia Alcesti di Euripide, il re Admeto, colpito da un morbo che non perdona, ottiene dagli dei la grazia, purché trovi qualcuno disposto a morire al posto suo. Admeto si rivolge fiducioso ai genitori, vecchi come sono dovrebbero accettare. Ma quelli non ne vogliono sapere. Solo Alcesti, la giovane sposa, si sacrifica. Dopo le esequie, Ercole scende nell’Ade e riporta sulla terra la fanciulla. Mutàtis mutàndis. Cambiate le cose che si devono cambiare. Si usa nel confrontare due situazioni per dire che, mutati alcuni elementi, le cose restano praticamente immutate. Ad esempio: se la grande potenza A aggredisce la piccola potenza B osserviamo che, mutatis mutandis, si ripete la favola del lupo e dell’agnello. Basta mettere A al posto del lupo e B al posto dell’agnello. Natùra non fàcit sàltus. La natura non fa salti. Nemica dell’improvvisazione, procede per gradi. Nìhil sub sòle nòvi. Nulla di nuovo sotto il sole. «Una generazione va, un’altra viene, ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge, il sole tramonta, si affretta verso il luogo dove risorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana, gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna (...). Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole» (Ecclesiaste, I, 4-10). Nòmen òmen. Il nome è un auspicio, buono o cattivo. Gli antichi vedevano una stretta correlazione tra la cosa e la parola che la designava. Perciò imponevano ai figli nomi beneauguranti: Demostene contiene il concetto di popolo e forza. Alessandro vuol dire protettore d’uomini, in Elena c’è il sole (che in greco si scrive ”èlios”). Non olet. Non puzza. Un tempo gli orinatoi erano solenni monumenti, detti Vespasiani dal nome dell’imperatore Vespasiano che aveva imposto ai romani una tassa sull’orina. Al figlio Tito che lo rimproverava di aver tassato una cosa così immonda «mise sotto il naso i denari riscossi dal primo pagamento e gli chiese se avevano cattivo odore. Il figlio rispose di no, e il padre aggiunse: ”Eppure provengono dall’orina”» (Svetonio, Vita di Vespasiano). Non òmnis mòriar. Non morirò del tutto. Oggi è il motto del 42esimo reggimento di fanteria. Duemila anni fa, l’orgoglioso e legittimo presentimento di Orazio, conscio dell’immortalità della sua opera (Odi, III, 30). Nòsce te ìpsum. Conosci te stesso. il motto scritto a lettere d’oro nel tempio di Apollo, a Delfi (naturalmente in greco). A chi lo giudicava l’uomo più sapiente del mondo, Socrate umilmente rispondeva d’essere il più sapiente perché sapeva di se stesso una cosa che nessun altro, sul proprio conto, sapeva: ossia di non sapere nulla. di et àmo. Odio e amo. Un noto distico di Catullo (85) ci ricorda che il cuore umano è un guazzabuglio, nel quale odio e amore possono albergare contemporaneamente. Il poeta, a proposito della volubile Lesbia, scrive: «Odio e amo. Probabilmente t’interessa sapere il perché. Non lo so. Ma sento che è così, e mi tormento». mne trìnum est perfèctum. Ogni triade è perfetta. Gli antichi vedevano nel numero tre il simbolo della perfezione. Dante sul numero tre e i suoi multipli costruì l’edificio poetico della Divina Commedia: tre cantiche, ciascuna di trentatré canti, i versi raggruppati in terzine. Tre sono le fiere incontrate nella selva oscura, tre le donne che dal cielo corrono in suo aiuto (la Vergine, Lucia, Beatrice). Tre per tre, cioè nove, i cerchi dell’Inferno, eccetera. Il Cristianesimo adora la Trinità, tre sono i moschettieri di Dumas, tre le caravelle di Colombo. Il magico tre esercita un influsso negativo solo quando diciamo Tizio è tre volte buono, cioè citrullo. mnia mùnda mùndis. Tutte le cose sono pure per i puri, scrive san Paolo. Il male non è nelle cose ma nella malizia dell’uomo. Un giorno un bacchettone, visto un quadro di Toulouse-Lautrec che raffigurava una donna seminuda, lo rimproverò: «Perché avete dipinto una donna che si spoglia?». Rispose l’artista: «E chi vi proibisce di pensare che si stia vestendo?». O sàncta simplìcitas. O santa semplicità. Il boemo Jas Hus, insegnante all’università di Praga, fu condannato dal Conciclio di Costanza a essere bruciato vivo come seguace dell’eretico inglese John Wycliffe. Dopo aver protestato che nessuna delle accuse era stata provata, Hus si avviò al supplizio cantando. Era il 6 luglio 1415. La leggenda dice che mentre saliva sul rogo vide una vecchierella che con candido zelo vi aggiungeva fascine. Ed esclamò: «O sancta simplicitas». O tèmpora o mòres. Significa: ”che tempi, che costumi!”. Nella prima orazione pronunciata in Senato contro Catilina, Cicerone lo aggredisce: «Non capisci che i tuoi piani sono noti a tutti? Che cosa tu abbia fatto la notte scorsa, dove tu sia stato, chi tu abbia convocato, che decisioni abbia preso, quale di noi credi che non lo sappia? O tempora, o mores. Il senato sa tutte queste cose, il console le vede, tuttavia costui vive...». Pànem et circènses. Pane e giochi del circo. Per tener buona la plebe, la ricetta è sempre la stessa: distribuzione gratuita dei viveri e divertimenti. Nelle Satire, Giovenale si lamenta che questo ai suoi tempi fosse l’unico desiderio del popolino. Tredici secoli più tardi, Lorenzo il Magnifico dichiarò: «Pane e feste tengono il popolo quieto». Per àspera ad àstra. Alle stelle attraverso le asperità. Motto del cinquantesimo reggimento di fanteria. Le difficoltà di un’impresa scoraggiano gli spiriti deboli, moltiplicano la tenacia di quelli forti. Perìnde ac cadàver. Alla stregua d’un cadavere. Con questa locuzione, prima san Francesco poi i Gesuiti sintetizzarono l’obbedienza cieca che si deve ai superiori, la rinuncia alla propria personalità, come creatura priva di vita. Promoveàtur ut amoveàtur. Sia promosso affinché sia rimosso. Un impiegato raccomandatissimo è un inetto e il capoufficio desidera liberarsene? Lo promuove di grado e lo trasferisce ad altro incarico. Dove troverà un altro capoufficio che cercherà subito di toglierselo dai piedi: si spiega così la fulmineità di certe carriere. Pùrus grammàticus pùrus àsinus. Puro grammatico, puro asino. Altra versione: ”Purus mathemàticus purus asinus”. Significa che chi non sa vedere oltre i confini della propria disciplina perde il contatto con la realtà, con la vita di tutti i giorni. Prigioniero delle astrazioni, rischia di non vedere dove mette i piedi. Una volta un grammatico chiese al barcaiolo che remava per portarlo dall’altra parte di un lago: «Sai tu la grammatica?», «No», arrossì il barcaiolo, «Non sono mai andato a scuola». «Che peccato, metà della tua vita è andata perduta». Giunti in mezzo al lago, un pauroso temporale rovesciò la barca. «Sai nuotare?», domandò il barcaiolo? «No», gemette l’altro. «Peccato, tutta la tua vita è perduta». Quis custòdiet custòdes? Chi custodirà i custodi? Platone dice - nella sua opera La Repubblica - che i custodi dello Stato devono guardarsi dal vizio dell’ubriachezza, perché ”sarebbe ridicolo se il custode avesse bisogno d’un custode”. Quod càpita tot sentèntiae. Quante le teste tante le opinioni. Di qui la varietà del mondo. Quod non fècerunt Bàrbari fècerunt Barbarìni. Ciò che non fecero i barbari, fecero i Barberini. Frase scritta sulla statua romana di Pasquino dopo che lo scempio di monumenti antichi consumato da Urbano VIII (il papa del processo a Galileo), al secolo Maffeo Barberini. Egli tolse il bronzo che rivestiva le travi del Pantheon per farne cannoni e costruire il baldacchino di San Pietro. Rèdde ratiònem. Rendi il conto, dammi la spiegazione (redde è imperativo del verbo rèddere, rendere, dare). Rem tène, vèrba sequèntur. Se padroneggi l’argomento, le parole seguiranno (frase attribuita a Catone il Censore, noto come il massimo fustigatore dei costumi romani). Rìsus abùndat in òre stultòrum. Il riso abbonda sulla bocca degli stolti. Sèmel in ànno lìcet insanìre. lecito, una volta all’anno, fare follie. Allusione alle baldorie e alle mascherate tipiche del giorno di Carnevale. Senèctus est natùra loquàcior. La vecchiaia per sua stessa natura è piuttosto loquace (Cicerone, De senectute, Libro XVI , 55). Sic trànsit glòria mùndi. Nel momento in cui il neoletto Papa viene mostrato alla folla acclamante in San Pietro, un austero cerimoniere, per ricordargli che tutte le cose terrene hanno breve durata, dà fuoco a uno stoppino in cima a una canna d’argento, esclamando: «Sàncte pàter, sic transit gloria mundi», padre santo, così passa la gloria del mondo. Si racconta che Pio III, appena uscito dal conclave, vedendo la fiammella ardere si mise a piangere e ne restò così impressionato che, già sofferente di gotta, morì dieci giorni dopo (il 18 ottobre 1503). Sìne ìra et stùdio. Senza ostilità e senza partigianeria. il principio morale cui promette di attenersi lo storico latino Tacito nel raccontare gli avvenimenti del suo tempo. Si pàrva lìcet compònere màgnis. Se è lecito paragonare le cose piccole con le cose grandi, dice Publio Virgilio Marone nelle Georgiche, confrontando il lavoro delle api con quello dei Ciclopi. Tèrtium non dàtur. Il terzo non è concesso, non esiste una terza soluzione. Al termine del processo l’imputato viene assolto o viene condannato: tertium non datur. Tu quòque Brùte, fìli mi. Anche tu, Bruto, figlio mio. Frase pronunciata da Giulio Cesare quando, colpito dal pugnale dei congiurati, ravvisò tra gli aggressori Marco Bruto, che era figlio di Servilia, sua amante. bi saltàtio ìbi diàbolus. Dove c’è il ballo, lì c’è il diavolo. l’anatema dei padri della Chiesa contro ogni forma di danza. Il canonista Burcardo, vescovo di Worms, vissuto intorno al Mille, ordinò a tutti i confessori di domandare al penitente: «Hai ballato e saltato come il diavolo insegnò ai pagani?». Ut sic nòcte lèvis, sit tìbi coena brèvis. Affinché tu sia leggero di notte, ti sia breve la cena. Vale a dire: se vuoi dormire bene, mangia poco la sera. Vèni, vìdi, vìci. Per comunicare a Roma con quanta celerità e prontezza aveva vinto una battaglia, Cesare scrisse all’amico Aminzio queste tre semplici parole: «Venni, vidi, vinsi».