MACCHINA DEL TEMPO OTTOBRE 2005, 28 ottobre 2005
Come siamo diventati uomini? Che cos’è che ci distingue dalle altre specie animali? Due ricercatori americani, Daniel Lieberman, professore di antropologia all’Università di Harvard, e Dennis Bramble, biologo della Utah University, propongono sulle nostre origini una teoria rivoluzionaria
Come siamo diventati uomini? Che cos’è che ci distingue dalle altre specie animali? Due ricercatori americani, Daniel Lieberman, professore di antropologia all’Università di Harvard, e Dennis Bramble, biologo della Utah University, propongono sulle nostre origini una teoria rivoluzionaria. Secondo loro, siamo diventati uomini grazie alla nostra abilità nella corsa di resistenza. Tutto sarebbe accaduto due milioni di anni fa: i nostri avi, percorrendo chilometri e chilometri per inseguire e catturare le prede, si sarebbero specializzati nella corsa di lunga durata. E questa specializzazione avrebbe permesso loro di sopravvivere e di distinguersi dalle altre grandi scimmie per diventare poi esseri umani come quelli attuali. Gli scienziati hanno studiato diversi tratti fisiologici dell’uomo: dai tendini elastici sul retro delle gambe e nell’arco plantare ai muscoli delle natiche, passando per una piccola cresta alla base del cranio. «Queste e altre caratteristiche fanno degli esseri umani ottimi corridori che, sulla lunga distanza, possono superare anche i cani», dice Lieberman. «E la capacità di correre è stata un vantaggio competitivo per gli ominidi. Grazie alla corsa, infatti, potevano competere con gli altri carnivori per le proteine animali necessarie poi alla crescita del grande cervello che contraddistingue gli esseri umani». «La corsa», aggiunge Bramble, «ha delineato il modo con cui si sono evoluti gli esseri umani, almeno dal punto di vista anatomico». La storia di questa ricerca comincia quattordici anni fa: Daniel Lieberman, all’epoca, analizzava con i suoi studenti l’adattamento delle ossa alle forze esercitate sullo scheletro. Durante questi esperimenti, il professore mise alcuni maiali su un tapis roulant. Le cavie, però, non collaboravano: farle correre era davvero impossibile! Intrigato dalla faccenda, l’antropologo ne parlò col biologo Dennis Bramble, che risolse l’enigma: i maiali non possono correre perché, a differenza degli uomini, sono privi di una piccola cresta alla base del cranio o cresta nucale che ha il compito di trattenere con forza i legamenti che, a loro volta, tengono la testa stabile durante la corsa. In effetti solo gli animali adatti alla corsa (cani, lepri, cavalli) possiedono la cresta nucale (e il corrispondente legamento nucale): le scimmie non ce l’hanno. Dopo questa scoperta, Lieberman lasciò perdere i suoi maiali e cominciò a esaminare alcuni campioni di cranio umano e preumano che popolano il suo laboratorio. E si accorse, con grande sorpresa, che la cresta nucale appare chiaramente nei fossili del genere Homo, ma non su quelli dell’Australopithecus. La comparsa di questa cresta e, con essa, dell’attitudine alla corsa, corrisponde dunque alla comparsa dell’uomo moderno? Una domanda alla quale il ricercatore americano decise di dedicare tutte le sue energie. «Quello che ci ha convinto a proseguire lo studio è il fatto che pochi animali sono capaci di competere con l’uomo nella corsa di fondo». Ma possiamo paragonare le performance dei quadrupedi con quelle dei bipedi, visto che la loro anatomia è così diversa dalla nostra? «Da un punto di vista biomeccanico è possibile paragonare il trotto dei quadrupedi con la corsa dei bipedi», spiega il biologo Jean Pierre Cas del Muséum d’histoire naturelle di Parigi. «In entrambi i casi esiste una perfetta opposizione di fasi tra le membra anteriori: la zampa o la gamba sinistra si muove simmetricamente a quella destra. Il galoppo presenta invece un’andatura asimmetrica che non ritroviamo nel movimento umano. Il galoppo, per i quadrupedi, è molto più vantaggioso del trotto». Il paragone delle velocità e delle distanze percorse dai quadrupedi in trotto rispetto alla corsa umana è sorprendente. La velocità di una persona qualunque che fa jogging di domenica (compresa tra 11 e 15 km orari) è superiore alla velocità del trotto dei quadrupedi dello stesso peso (10 km all’ora). Oltre i 10 km l’ora, i quadrupedi preferiscono cambiare andatura e galoppare. Per quanto riguarda le performance dei migliori maratoneti umani - che corrono a una media di 20 km l’ora per circa due ore - pochi animali sono capaci di superarli, anche galoppando, a parte i lupi, le iene, i cavalli, gli gnu e qualche cane. Ma la cosa più sorprendente è che le grandi scimmie, nostre cugine, non sono capaci di corse di resistenza. All’occorrenza possono fare un rapido scatto, ma mai per lunghe distanze. «Finora abbiamo sottovalutato le nostre prestazioni perché non siamo molto veloci. Ma se guardiamo le nostre performance dal punto di vista della resistenza, allora l’uomo diventa un vero campione» dice Lieberman. Il legamento nucale non è il solo responsabile di questo talento. L’inventario delle strutture che facilitano la nostra resistenza è impressionante: tendini, muscoli, scheletro... Dai piedi alla testa, tutto il corpo umano sembra programmato per correre. «Dal punto di vista energetico gli uomini, rispetto alle scimmie, dispongono di un buon numero di tendini legati a corti fasci muscolari, in grado di generare forza in modo molto economico», spiega Luca Speciani, nutrizionista e tecnico federale Fidal, autore del libro Mente e maratona (25 euro, Editoriale Sport Italia, www.sportivi2.it). «Durante il cammino una struttura muscolare siffatta non genera particolari vantaggi, ma quando si corre il risparmio energetico diventa del 50 per cento!». «Consentono questo risparmio il tendine d’Achille, i tendini dell’arco plantare e quelli dei muscoli del tratto ileo-tibiale o del peroneo lungo, in grado di restituire forza elastica con un contenuto consumo di energia. Al contrario, grandi muscoli con piccoli tendini, come quelli dei primati nostri predecessori, permettono grande potenza, ma con alto consumo energetico», prosegue Speciani. Anche la lunghezza delle gambe è correlata al risparmio energetico: aumenta il tempo di contatto del piede a terra e accresce la lunghezza del passo a parità di frequenza. «Australopithecus aveva gambe lunghe la metà rispetto a noi: se avesse voluto correre, avrebbe dovuto spendere molta più energia», continua Speciani. «Abbiamo inoltre accorciato e snellito il piede, che oggi rappresenta solo il 9 per cento della massa complessiva degli arti inferiori, contro il 14 per cento dello scimpanzé. E gli arti superiori hanno subìto una bella ”potata” (avambraccio ridotto del 50 per cento del peso totale rispetto allo scimpanzé). Infine la mutazione del gene Actn3 ha prodotto nelle gambe un’alta percentuale di fibre rosse dalla grande efficienza aerobica. Grazie a questi cambiamenti, la macchina-uomo ha potuto affrontare corse di lunga durata in modo energeticamente paragonabile a quadrupedi di grande efficienza, come i cavalli o i cani, pur conservando bipedismo e postura eretta». I problemi più grandi l’uomo li ha affrontati per bilanciare le forze reattive sviluppate durante la corsa. «Nel momento della spinta, tronco e collo si piegano in avanti molto più che camminando, e devono poter ruotare in modo ampio per controbilanciare, con il movimento degli arti, le forti spinte in avanti prodotte. Questo ha richiesto lo sviluppo di una muscolatura dei glutei particolarmente forte». «Gorilla e oranghi, pur dotati di muscolature fortissime, non hanno muscolatura glutea lontanamente paragonabile alla nostra», dice Speciani. «Noi siamo fatti per correre, loro per camminare o arrampicarsi sugli alberi». Nel contempo la nostra testa doveva rendersi indipendente dal tronco, per non risentire delle rotazioni del busto. stato così necessario perdere parte della forte muscolatura del collo tipica delle scimmie (perfetta per arrampicarsi), allontanando il cranio dalle spalle e orientando verticalmente il collo, attraverso modifiche strutturali dei muscoli scaleni, della parte superiore del trapezio e del romboide. Il collo lungo, tuttavia, rendeva più difficile sopportare le forti flessioni in avanti legate alla corsa. «Abbiamo così sviluppato il legamento nucale osservato da Lieberman e Bramble», dice Speciani. «L’uomo che corre, inoltre, produce una grande quantità di calore. Per dissiparla servono numerosi adattamenti, come la presenza di tantissime ghiandole sudoripare, la riduzione del pelo corporeo, una forma snella e allungata, una circolazione venosa craniale molto elaborata e infine un adattamento alla respirazione con la bocca durante lo sforzo (sconosciuta agli scimpanzé). Nessuna di queste modifiche avrebbe avuto ragion d’essere per la sola posizione eretta, o per un camminare spedito». Ma perché abbiamo sviluppato proprio l’attitudine alla corsa di resistenza, anziché a quella di scatto? Forse perché i nostri avi, meno rapidi delle loro prede, per acchiapparle dovevano sfinirle, inseguendole a lungo. E prima ancora, quando non sapevamo cacciare ma ci nutrivamo di carogne, la resistenza era altrettanto importante. Infatti non eravamo i soli interessati alle carcasse, c’erano anche le iene e i cani selvatici, anch’essi molto resistenti. Per mangiare le parti migliori, bisognava arrivare primi sul posto. Come? Scrutando gli avvoltoi nel cielo e cercando di precedere i rivali. Così, mangiando le parti migliori, la specie evolveva meglio assicurando una discendenza altrettanto resistente. L’ipotesi degli americani si spinge oltre: la carne migliore è ricca di sostanze nutrienti che non richiedono grandi sforzi energetici per la loro trasformazione. E queste energie le avremmo recuperate a vantaggio del cervello. Insomma: grazie alla corsa di resistenza, saremmo diventati gli animali più intelligenti. Ma grazie alla nostra intelligenza abbiamo costruito un mondo così ben organizzato da non dover più correre: tutto, ormai, è a portata di macchina o clic di mouse. Secondo una ricerca francese, nel 1976 più dell’80 per cento dei bambini tra i 5 e i 9 anni andava a scuola a piedi. Nel 1988, erano scesi al 60-70 per cento e ora sono una piccola minoranza. Sempre in Francia, il Centro Studi della Sanità ha stilato una classifica degli europei più dinamici: in cima ci sono spagnoli e danesi, seguiti da italiani, tedeschi e portoghesi. Agli ultimi posti francesi, belgi e olandesi. Ma quand’è che una persona può definirsi sedentaria? Quando l’attività fisica è inferiore a un’ora al giorno. E siccome siamo nati per correre, stare fermi fa male al nostro corpo e pure alla nostra mente: dall’obesità alla depressione, molti disturbi sono riconducibili alla sedentarietà. Il tema delle correlazioni tra cibo, evoluzione, movimento e dimagrimento è stato analizzato da Luca Speciani con il fratello Attilio (medico immunologo, da anni all’avanguardia per i suoi studi sulle intolleranze alimentari) nel recente volume edito da Fabbri DietaGIFT: gradualità, individualità, flessibilità, tono (17 euro). «La corsa fa parte di noi, della nostra storia, del nostro equilibrio psicofisico», dice Speciani. «Ignorare questo fatto, può voler dire contrarre un debito permanente con la nostra salute. Rinunciare a muoversi è rinunciare a un pezzo di noi». Quali rischi comporta, per l’organismo, una vita sedentaria? «In primo luogo», dice Speciani, «problemi di circolazione. L’uomo preistorico correva chilometri al giorno, e noi abbiamo ereditato un corpo strutturato per correre. Muscoli potenti comprimono le vene e spingono il sangue verso l’alto, garantendo un’ottima circolazione. Muscoli inflacciditi dalla sedentarietà si trasformano in grasso. E il grasso non riesce certo a comprimere le vene. Di qui i problemi di cattiva circolazione e stasi venosa». Nel libro Lo zen e l’arte della corsa (Sport Italia, 17 euro), Speciani raccoglie studi che dimostrano gli effetti benefici della corsa anche sulla mente. «Un gruppo di ricercatori ha sperimentato che 15 minuti di corsa al giorno sono più efficaci degli antidepressivi. Gli scienziati hanno preso in esame due gruppi di depressi. Il primo ha corso per 15 minuti al giorno, il secondo ha assunto farmaci. Risultato: i pazienti curati con la corsa sono guariti prima di quelli curati con le pasticche. «Altri studi dimostrano che 30 minuti di corsa, tre o quattro volte a settimana, in un mese fanno aumentare il colesterolo buono (Hdl), che agisce nelle vene come una scarica di sassolini, liberandole dal colesterolo cattivo. Questo significa fortissima prevenzione contro il rischio di infarto». I primi segni di miglioramento sono stati osservati dopo una decina di giorni». La corsa o la marcia, diversamente da altri sport che richiedono scatti potenti ma brevi (partite di tennis o baseball, ad esempio), sono le uniche attività che consentono di bruciare non solo gli zuccheri ma anche i grassi. Con la corsa, insomma, il dimagrimento è reale. Ma quante calorie si consumano correndo? «Indipendentemente dalla velocità, per calcolare le calorie eliminate bisogna moltiplicare il propro peso corporeo per il numero di chilometri percorsi. Esempio: un individuo di 60 chili che corre o cammina per 10 chilometri brucia 600 calorie. E camminando o correndo piano, un terzo delle calorie bruciate sono grassi. Il nostro individuo di 60 chili che corre dieci chilometri e brucia 600 calorie, ne avrà bruciate 400 di zuccheri e 200 di grassi. E i grassi eliminati non li riprenderà di certo con il pasto successivo!».