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 2005  ottobre 06 Giovedì calendario

Citati: i miei amici mattacchioni. Panorama 06/10/2005. Italo Calvino da giovane, che si aggira per Torino d’inverno con sandali ai piedi e maglioni colorati; le lettere inedite di Carlo Emilio Gadda, gran signore ottocentesco incapace di affrontare i fantasmi quotidiani; l’affabulazione vertiginosa di Giorgio Manganelli

Citati: i miei amici mattacchioni. Panorama 06/10/2005. Italo Calvino da giovane, che si aggira per Torino d’inverno con sandali ai piedi e maglioni colorati; le lettere inedite di Carlo Emilio Gadda, gran signore ottocentesco incapace di affrontare i fantasmi quotidiani; l’affabulazione vertiginosa di Giorgio Manganelli... Nel Meridiano Mondadori che raccoglie le opere di Pietro Citati, l’usuale Cronologiadiventa un racconto biografico avvincente, pieno dei vividi ritratti dei suoi contemporanei, di risvolti sconosciuti, di passione intellettuale. Le 34 pagine curate da Paolo Lagazzi, come il resto del volume, gettano una luce nuova sulla vita di un autore aristocratico e inclassificabile, aperto a tutti i saperi, sempre in bilico tra malinconia saturnina e leggerezza mercuriale. Citati è nato a Firenze nel 1930, è cresciuto tra le geometrie meravigliose di Torino, ha studiato alla Normale di Pisa, insegnato all’Università di Monaco e all’Avviamento di Frascati, infine ha vissuto a Roma. Le amicizie sono state importanti nella sua esistenza, non a caso il Meridiano si chiude con lo struggente La morte degli amici, in cui parla di Calvino e Manganelli. Nella sua casa romana, lo scrittore, che sta architettando una collana di classici dell’Islam, ha appena finito un «libro di 70 pagine su Fitzgerald», ed è in partenza per Parigi dove lo aspetta «una bellissima mostra sulla melanconia», ricorda affetti e persone. A 17 anni è alla Normale di Pisa, giovane moderato in una tana comunista. I compagni erano tutti stalinisti, io per niente. Amavano Palmiro Togliatti, io lo detestavo. C’era soprattutto un gruppo attorno a Delio Cantimori, il quale era stato nazista fino al’40, che esercitava una specie di dittatura intellettuale. A quell’età tuttavia ci si accorda su tantissime cose. Avevamo professori ottimi. Il più grande filologo classico del secolo, Giorgio Pasquali, un uomo di una simpatia, buffoneria, saggezza meravigliose. Mio maestro era Luigi Russo, il rettore, un mediocre critico letterario. Io ero rimasto folgorato dai saggi di Gianfranco Contini, ed ero continiano. Il biennale di italiano era d’obbligo ma tutti i normalisti, che erano snob, si rifiutavano di seguire Russo. Lui si vendicava: gli assenti venivano sospesi dal cibo. Sospesi dal cibo? Sì. Ma per fortuna venivano organizzate delle collette. Del resto alla Normale si faceva letteralmente la fame. Pastasciutta una volta la settimana, le altre una specie di broda. La carne era costituita da un animale sconosciuto, probabilmente pollo ma non era sicuro, che era stato battezzato «il vipistrello». Vi divertivate? La vita era molto divertente, io stavo nel palazzo dei Cavalieri, uno dei più belli della Terra, avevo una stanza alta 10 metri, larga 60. Se volevo dei libri, in ciabatte e pigiama scendevo in biblioteca, ne prendevo 20 e me li portavo in camera. Lo sa che mi coricavo alle 9 e mi svegliavo alle 4 per studiare?A volte però andavamo nelle osterie di Pisa a bere e tornavamo tardi passando per le finestre. Mi ha detto Salvatore Settis, l’attuale rettore, che negli archivi c’è uno scritto di Capitini, l’allora segretario: «Questo Citati non è sciocco, ma ha l’abitudine di andare a bere con i suoi compagni e tornare alle 3 di notte». Oggi non lo faccio più. Mai avuto tentazioni verso la sinistra? Devo confessare che nel 1951 alle elezioni amministrative di Torino ho votato per il comunista Celeste Negarville. La cosa non si ripeté più. Ma non ho neppure avuto tentazioni verso la destra. Tra gli amici della sua adolescenza torinese ci sono Italo Calvino ed Elémire Zolla, lo studioso di religioni. Italo l’ho conosciuto a un dibattito tra la gioventù socialdemocratica (io e pochissimi altri) e quella comunista (lui e moltissimi altri). Siamo diventati amici. Io avevo grande ammirazione per lui. Non credo sia bello Il sentiero dei nidi di ragnoma Ultimo viene il corvo, scritto quand’era giovanissimo: contiene dei racconti meravigliosi. Era comunista, il che non giova all’intelligenza, e non era molto colto. Poi diventò coltissimo. C’è un suo saggio del 1960, Il mare dell’oggettività, che finisce contro di me e la mia difesa della critica letteraria «mimetica», in cui attaccava tutto quello che c’era di bello nella letteratura di allora: Gadda, Musil, Pasternak, Beckett. Non gli piaceva niente, aveva un ideale volterriano, stendhaliano. Io ero il contrario. Lui era un genio, io non lo sono per niente, ma dal punto di vista culturale avevo ragione. Tant ’è vero che le Lezioni americane sono fatte tutte sui miei amori giovanili. Non dico di averlo influenzato, ma che vi è arrivato da una strada diversa. Queste contrapposizioni non hanno influito sulla vostra amicizia? Per niente. Calvino era privo di aggressività. Negli ultimi anni era notissimo, e veniva spesso attaccato. Lui non faceva altro che giustificare i suoi nemici. Anche Carlo Fruttero, un altro grande amico e uno degli uomini più buoni che abbia conosciuto, è così. l’ultima estate di Calvino è stata tremenda. La passò lavorando alle Lezioni americane, a Roccamare, dove sia lui che Fruttero erano venuti a costruire le loro case. Era scontento: «È una cretinata» diceva «io sono uno scrittore, perché devo andare a spiegare agli altri che cos ’è la letteratura?». Non fece mai il bagno, lui che amava tanto quel paesaggio. Poi finalmente si liberò delle Lezioni. Ci trovammo una sera a cena a casa mia, c’erano anche Gianni Merlini, presidente della Utet, e Fruttero, con le mogli. Italo fu spiritosissimo, fece tutta una storia della politica italiana secondo i baffi, con o senza. Due giorni dopo stette male. A Siena lo operarono inutilmente. Con la testa fasciata, continuava a ripetere: «Giovanna (la figlia, ndr) è una brava ragazza». E Zolla, com’era? Quando l’ho conosciuto aveva 19 anni. Andavo sempre a trovarlo in via Pesaro, il posto più squallido della Terra, vicino a una rimessa di tram. Stava all’ultimo piano, disteso su un sofà damascato, e leggeva. Io non sapevo niente, ero un innocente, lui aveva letto tutto. Ciò che nessuno sa è che era un uomo divertentissimo. Faceva imitazioni, era paradossale, aveva uno spirito di demonio e di angelo. A Roma c’erano tre amici che le telefonavano tutti i giorni... La telefonata mattutina con Attilio Bertolucci era bertolucciana: odore di prati emiliani, di Tasso, di letteratura inglese... si parlava di tutto. Quella con Zolla era puramente farsesca, risate alla follia, era il buffone mistico, una figura del buddismo. Abbiamo lavorato molto insieme, ho curato la pubblicazione di diversi suoi libri, come I mistici, uscito da Garzanti di cui ero consigliere. Lui era molto sincretistico, non c’era religione che non gli interessasse. Poi l’amicizia si ruppe. C’era anche la telefonata di Gadda. Sì, solo che Gadda sbagliava l’ora. Mi telefonava all’una e mezzo pensando fosse un momento buono. Io a quell’ora mangiavo la bistecca con mio figlio Stefano che era tornato da scuola. Per 15 anni ho mangiato la bistecca fredda a causa di Gadda. Se gli avessi detto che era l’ora sbagliata si sarebbe ucciso!La grande tragedia comica di Gadda. Io ero suo padre sa?Pur avendo moltissimi anni di meno. Lei gli fece da padre? Mi chiedeva consiglio per le cose della vita: le tasse, la domestica, l’editore, il rapporto con gli scrittori e gli esseri umani in genere. I suoi libri in sostanza li ho messi insieme io. Dal Pasticciaccio alla Cognizione del dolore, passavano tutti per le mie mani. Sul secondo volume del Pasticciaccio, il libro che non è uscito, abbiamo discusso sei mesi. Ho avuto una venerazione per lui. l’uomo più grande che abbia mai incontrato. Nella ”Cronologia” c’è una lettera inedita dello scrittore. Ho tantissime lettere di Gadda, inedite, bellissime. Una di queste è il racconto di una cena con Alberto Moravia ed Elsa Morante, di una ferocia spaventosa. Scriveva di getto, 10 pagine in 20 minuti, senza una correzione. Pure Giorgio Bassani era suo amico. « possibile, Pietro, che tu scriva talmente male?» mi diceva, , quando cominciai a collaborare a Il Punto, una versione mediocre del Mondo. Aveva perfettamente ragione. Il giornalismo mi servì moltissimo: l’idea di avere un pubblico che ti deve capire. Poi imparai a scrivere grazie a Goethe, il mio primo libro che pubblicai tardi, a 40 anni, dopo un decennio di infinita rielaborazione. Bassani era un uomo delizioso, dalla conversazione incantevole, eravamo grandissimi amici, lui, Niccolò Gallo, un gentiluomo siciliano naturalmente comunista, e sua moglie Dinda Gallo. Bassani lavorava in modo stranissimo: scriveva a blocchi, ci lavorava sopra due giorni e poi passava a un altro. La cosa meno bella era che quando aveva scritto un periodo mi telefonava e diceva: «Pietro, secondo te va questo?». E io: «Giorgio, fammi leggere tutto il libro». Al ”Punto” collaborava anche Pier Paolo Pasolini. Da giovani siamo stati amici. Lui era poverissimo, guadagnava 30 mila lire al mese insegnando a Ciampino. Mi ricordo che nel 1954 lo accompagnai a Frascati con mia moglie Elena sulla 1100 che ci aveva regalato mia suocera. Doveva vedere Sergio Citti per farsi raccontare dei particolari su un furto che poi sarebbe andato in Ragazzi di vita. Pasolini voleva che tutto il mondo fosse omosessuale: «Tu sei un refoulé» mi diceva. «Pier Paolo, sono quello che posso, non so arrivare alla tua beatitudine» rispondevo. I nostri rapporti si interruppero quando cominciò a fare i film. A parte Accattoneli trovai orribili. Con Manganelli e Federico Fellini, gli incontri avvenivano al ristorante. Manganelli è la persona più intelligente che abbia conosciuto, senza paragoni. Parlava mirabilmente, come mai io sono stato capace a scrivere. Era in grado di inventare periodi complicatissimi di 25 righe che si tenevano insieme con invenzioni aeree. Era spiritoso, aulico, sembrava un uomo del’600, poi raccontava barzellette. Ho imparato moltissimo da lui. Andavamo a cena due o tre volte al mese al ristorante Il Chianti. Di che cosa parlavate? Di infinite cose. Molto di come estorcere agli editori compensi principeschi. E con Fellini? Eravamo come ragazzi. Lui era un uomo di grande intelligenza, buona cultura letteraria, e di verità. Era anche molto buono. Durante gli anni della nostra amicizia, ho attraversato una depressione molto grave, e le sue attenzioni, i suoi riguardi, mi commuovono ancora. Mi raccontava i suoi sogni, ininterrotti e meravigliosi, li chiosava, e si arrabbiava perché io non sognavo. «Lei non sogna perché è un gesuita» mi diceva. Ma io ho un blocco, non mi è possibile sognare. «Non ho bisogno della quantità d’irrazionale di cui ha bisogno lei» rispondevo. Manuela Grassi