MACCHINA DEL TEMPO OTTOBRE 2005, 27 ottobre 2005
Dennis, Emily, poi Katrina. New Orleans sconvolta e allagata, oltre 30 miliardi di dollari di danni, vittime e feriti, 50 mila persone che si rifugiano nel Superdome, lo stadio di football, che la furia implacabile del vento scoperchia
Dennis, Emily, poi Katrina. New Orleans sconvolta e allagata, oltre 30 miliardi di dollari di danni, vittime e feriti, 50 mila persone che si rifugiano nel Superdome, lo stadio di football, che la furia implacabile del vento scoperchia... E non è detto che questa sia l’ultima tempesta. Nell’Atlantico, la stagione degli uragani va dal 1° giugno al 30 novembre: c’è tempo per altri disastri, altre devastazioni. Ma momenti drammatici come in quest’ultimi anni non s’erano visti mai. Già il 2004 fu un periodo nero: Alex, Charley, Frances, Jeanne e infine Ivan, considerato il più intenso uragano dell’ultimo secolo: ha causato oltre 100 morti tra i Caraibi e gli Stati meridionali degli Usa. Un’apocalisse. E il 2005 non scherza: non è mai accaduto che 10 tempeste (per fortuna non tutte destinate a diventare flagelli di Dio) si levassero dall’Atlantico nei primi tre mesi della stagione. Variano nome secondo la parte del mondo in cui si manifestano, ma il risultato è sempre lo stesso: distruzione. Nella zona atlantica e nel Golfo del Messico li chiamano ”uragani”, sembra dal nome caraibico del dio del male, Hurican. Nel Pacifico settentrionale e in Giappone sono detti ”tifoni”, mentre ”cicloni” nell’Oceano Indiano. In Australia hanno un nomignolo buffo, ”Willy Willy”, che però non fa ridere nessuno. Per meritarsi uno di questi appellativi, il vento deve raggiungere almeno i 64 nodi, circa 120 Km orari. Sotto i 64 nodi abbiamo una ”semplice” tempesta tropicale e sotto i 33 una depressione tropicale. Venti più forti si trovano soltanto nei tornado. Li incontreremo tra qualche pagina. Nulla nasce dal nulla. L’uragano, però, non ha bisogno di molto per formarsi. Gli basta un luogo tranquillo e una giusta temperatura. Trova entrambi tra i 5 e i 15° di latitudine Nord e Sud, sopra gli oceani. Qui, nella zona delle calme equatoriali o di convergenza intertropicale (dove convergono gli alisei dai due emisferi terrestri), non ci sono venti che possano raffreddare la superficie marina. Il sole picchia, da queste parti, e giungere ai fatidici 26° Celsius, minima necessaria per sviluppare il fenomeno, non è cosa rara. Calda l’acqua, calda l’aria che la lambisce. Gli strati bassi dell’atmosfera, riscaldandosi, diventano instabili e favoriscono la convenzione, il movimento verticale verso l’alto dell’aria caldo-umida. Salendo, l’aria si raffredda, producendo condensazione e quindi liberando grandi quantità di calore latente. Ora le cose si complicano. Queste colonne d’aria che si levano dalla superficie salgono ad alta quota, abbassando la pressione. A un certo punto, l’intero sistema viene agganciato dagli alisei e pronto a ruotare come una girandola, trascinato dalla forza di Coriolis, causata dalla rotazione della Terra nello spazio. Insomma, tutta questa massa burrascosa gira, gira sempre più man mano ci s’avvicina al centro del vortice. Una volta innescata la rotazione, è fatta: ecco l’uragano. Se le condizioni sono ideali, la tempesta tropicale comincia a ingigantirsi. un processo lento, ma inesorabile: può durare dalle 12 ore fino a diversi giorni. In tutto questo tempo, la pressione al centro della tempesta diminuisce gradualmente e i venti raggiungono i 60 Km/h. Man mano s’intensifica, la situazione tracolla. La pressione precipita. I venti soffiano a oltre 150 Km/h, in una stretta fascia circolare compresa tra i 15 e i 25 Km dal centro dell’uragano. Nubi e pioggia s’organizzano in fasce che avvolgono a spirale il nucleo della perturbazione. Si forma l’occhio del ciclone: un muro cilindrico, dal diametro di circa 25 Km (ma può raggiungere i 65), dove regna una quasi calma, poiché in quel tunnel la pressione atmosferica è alta. Ma il tifone non sta fermo, tutt’altro. Tutte le tempeste tropicali si dirigono verso il Polo Nord, lungo un percorso gradualmente incurvato, con cambi di direzione repentini e spesso imprevedibili. Quando raggiunge la costa nord occidentale degli Stati Uniti, la massa ciclonica già raggiunge gli 80-100 km/h. La devastazione ha inizio. S’esaurirà quando morirà la fonte che la sostiene, cioè il calore latente d’evaporazione: di solito, quando il ciclone raggiunge la terraferma o acque più fredde. La colpa è quindi del calore dell’oceano. Non ci sarà per caso lo zampino dell’effetto serra nelle due ultime e sfortunatissime annate? «In effetti», dichiarano Mario e Andrea Giuliacci, i due noti meteorologi del Centro Epson di Milano, «è dal 1995 che le temperature marine superficiali dell’Atlantico tropicale settentrionale sono di 0,3-0,6° superiori rispetto al ventennio precedente. Ma, una volta tanto, l’effetto serra non ha colpe. Quest’aumento s’inserisce in un meccanismo di variazioni cicliche, che hanno durata di qualche decennio». I motivi? «Non sono del tutto chiari, ma pare che il fenomeno sia legato a mutamenti della salinità idelle acque: più sono salate, più sono calde, favorendo lo gli uragani». Seguendo questo ragionamento, avremmo dovuto avere violenti cicloni fin dal 1996. Invece la bomba esplode l’anno scorso. «Questione complessa», rilevano i Giuliacci. «La temperatura non è tutto. Bisogna tener conto di altri fattori. Le caratteristiche della fascia di alte pressione subtropicali, l’intensità del wind shear (ossia delle variazioni di forza e direzione del vento con la quota) e la conformazione della Corrente a Getto africana. Dal 2004, questi elementi hanno giocato a favore della formazione di uragani. Soprattutto l’indebolimento degli alisei al suolo e la presenza di venti da est in quota ha favorito la formazione di cicloni. Poi, la fascia d’alta pressione subtropicale è tuttora molto robusta: forma come un muro, che impedisce all’uragano di dirigersi a nord, incanalandolo invece verso est, facendoli scontrare con i Caraibi e poi, non più bloccati dall’alta pressione, contro il Nord America».