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 2005  ottobre 16 Domenica calendario

Keith Haring, cattivo maestro. Il Sole 24 Ore 16/10/2005. "Avevamo rispetto per i graffitisti, ma il nostro era un lavoro diverso, e non ci siamo lasciati accomunare da quella situazione"

Keith Haring, cattivo maestro. Il Sole 24 Ore 16/10/2005. "Avevamo rispetto per i graffitisti, ma il nostro era un lavoro diverso, e non ci siamo lasciati accomunare da quella situazione". Non è possibile fraintendere queste parole, con cui Keith Haring, parlando di sé e di Jean-Michel Basquiat, prende le distanze dalla scena del graffiti writing. Borghese, ben integrato nei bassifondi brulicanti di vita di New York, frequentò numerosi writer, coinvolti a vario titolo nell’ambiente delle gallerie più underground (Rammellzee, Crash, Lady Pink), con i quali realizzò alcuni murales, sempre legali. Nel 1978 New York aveva già scatenato ben due campagne contro i graffiti e le gallerie interessate a mettere le mani sul fenomeno avevano bisogno di un elemento come Haring, bianco, illegale ma non troppo, e facilmente comprensibile (palatable, come lo definì correttamente Dondi, uno dei writer più sfrenati del l’epoca). Iniziò a disegnare negli spazi pubblici nel 1980, approfittando dei cartelloni neri, vuoti in attesa delle affissioni pubblicitarie: i suoi personaggi, dal ragazzo radioattivo al barking dog, erano quasi onnipresenti nelle stazioni della metro, ma raramente sui treni. Nonostante alcuni punti di contatto le differenze sono macroscopiche, a partire dal l’intento, artistico nel primo caso, narcisistico nel caso dei graffiti. Haring voleva allietare la gente comune e il suo stile lo dimostra. Le firme dei writer, al contrario, sono autoreferenziali e volutamente illeggibili. Il culto del nome, il rischio e la fama sono obiettivi ignoti all’artista newyorchese, che non firma mai le sue opere (addirittura, raramente le titola) e che affronta una tiepida illegalità (cartelloni sfitti, cassonetti, marciapiedi) per raggiungere un pubblico ampio e generalista, estraneo alle gallerie più chic. I writer, pur non immuni alle avance del mercato, devono pochissimo al creatore del bambino radioattivo e alla sua commerciabile e commerciata arte. I suoi modi e le sue tecniche - stencil, gessetti, poster e raramente bombolette spray - sono molto più vicini a quella che chiamiamo street art: i simboli e i loghi, spesso adesivi o comunque rimovibili, che vediamo per strada sempre più spesso. Santy, uno dei più attivi street artist milanesi, ritiene Haring "facile da attaccare e da glorificare" ma anche che "rappresenti una svolta epocale: porta ai massimi livelli lo stile del segno (proveniente dal writing) e mostra quanto gli spazi urbani possano ospitare espressioni alternative ai graffiti". Haring ha aperto una nuova via (non contrastante ma parallela rispetto ai graffiti): solo dopo vent’anni i suoi imitatori hanno scoperto la gioia di disegnare per strada, in maniera leggibile, loghi e personaggi e sono riusciti a coinvolgere pubblico e critica. Non solo seriale e illegale, l’arte di Haring esprime innumerevoli significati simbolici. E armato di gessetti, ma anche di argomenti: è questo che manca a molti street artist d’oggi. La mostra "The Keith Haring Show" è alla Triennale di Milano fino al 29 gennaio 2006. Alessandro Mininno