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 2005  ottobre 26 Mercoledì calendario

Alzi la mano chi, dopo i cinquant’anni, si preoccupa per la salute delle proprie ossa pur sentendosi in buona forma fisica! Come volevasi dimostrare

Alzi la mano chi, dopo i cinquant’anni, si preoccupa per la salute delle proprie ossa pur sentendosi in buona forma fisica! Come volevasi dimostrare ... Un atteggiamento comprensibile, ma non esente da rischio. L’osteoporosi, chiamata ”ladra silenziosa” poiché ruba il calcio dall’osso senza farsi notare, raramente si manifesta con dolori. Al più causa un lieve mal di schiena a chi sta a lungo in piedi, che scompare, però, con il riposo. Così le preoccupazioni vere cominciano soltanto alla prima frattura, quando un colpetto spezza vertebre, femore o polsi. Ma ormai è troppo tardi, il danno è fatto. Negli Stati Uniti ne soffrono almeno dieci milioni di persone, soprattutto donne in menopausa. In Italia non va meglio: ogni anno si registrano 250 mila fratture, 70 mila al femore. Danno osseo a parte, l’osteoporosi peggiora la qualità della vita. Alcune fratture - soprattutto del femore e soprattutto nelle persone più anziane - possono addirittura portare a morte per complicanze circolatorie o polmonari, o inducono denutrizione perché ostacolano l’autonomia. Tuttavia, contenere i danni o prevenire l’osteoporosi si può. Questo il messaggio che viene diffuso questo 20 ottobre, in occasione della decima edizione della Giornata Mondiale contro l’Osteoporosi, con lo slogan lanciato dalla Lega italiana osteoporosi (Lios), ”Non mollare l’osso!”. Nonostante le apparenze, il tessuto osseo è tra i più vitali dell’organismo. Due squadre di ”operai” sono all’opera giorno dopo giorno per demolirlo e ricostruirlo tanto che, ogni dieci anni, il nostro scheletro è interamente riassorbito e ricostruito con tessuto nuovo. Le squadre, sparpagliate in tre o quattro milioni di cantieri (le Unità di rimodellamento osseo) dove avviene il ricambio, sono formate da cellule specializzate, chiamate osteoclasti e osteoblasti. Dalla nascita alla maturità (20-25 anni) prevale l’attività degli osteoblasti, che lavorano alacremente per costruire lo scheletro e garantirgli la densità ottimale. «Il picco di massa ossea, cioè il massimo accumulo di minerali nell’osso», spiega Maria Luisa Bianchi, esperta di malattie metaboliche ossee dell’Istituto Auxologico di Milano, «si raggiunge attorno ai 20-25 anni e rimane costante fino ai 50 circa. In questo periodo, demolizione e ricostruzione sono in equilibrio. Se misuriamo la densità minerale ossea (Bmd) con la mineralometria ossea computerizzata (Moc), otteniamo un valore chiamato T-score, che indica di quanto la Bmd di una persona si discosta dal valore medio di altre giovani e sane della stessa ”razza” e ”sesso”. Il valore di Bmd, però, non è uguale per tutti. Nelle donne è inferiore del 5 per cento rispetto agli uomini, mentre, a parità di sesso ed età, è maggiore nelle popolazioni dalla pelle nera rispetto ai bianchi e, ancor di più, agli asiatici». Che cosa accade in seguito? Dopo i 50 anni, o nelle donne in menopausa, gli osteoblasti rallentano il ritmo e permettono agli osteoclasti di avere il sopravvento: questi producono acidi che dissolvono la matrice ossea, liberando i sali minerali. In tal modo assottigliano la struttura dell’osso, che diventa più fragile. Così, se si scende sotto certi valori di Bmd (per esempio, perché da giovani si era raggiunto un ”picco” troppo basso), si può arrivare all’osteoporosi. Ma perché alcuni s’ammalano d’osteoporosi con facilità? «La predisposizione dipende da molti fattori di rischio», precisa Bianchi, che è anche Segretario generale della Lios. «Al primo posto l’essere donna, cioè partire da una massa ossea minore e, prima o poi, andare in menopausa. Questo evento accelera le perdite di calcio e, se precoce (prima dei 45 anni), rappresenta un fattore di rischio ben riconosciuto. Un altro fattore è avere genitori con osteoporosi. O soffrire di malattie croniche che richiedono lunghe cure con cortisone, e di quelle che inducono malassorbimento intestinale, come la celiachia. Fattori predisponenti sono anche l’alimentazione povera di calcio e la carenza di vitamina D, che regola l’assorbimento intestinale del calcio e aiuta a mineralizzare l’osso». Uno zampino lo mette anche la genetica: qualche anno fa un gene chiamato COLIA1 era stato associato a una densità ossea inferiore alla media, mentre un’altra variante genica sembra agire sul recettore cellulare per gli estrogeni, contribuendo a ridurre la massa ossea. I candidati al ruolo di colpevole, però, sono più numerosi (una trentina almeno, forse più), e siccome la torta è ricca e fa gola, alcune delle principali aziende di biotech (DeCode, Celera, Myriad Genetics e Abbott Laboratories) si sono messe in caccia di un gene adeguatamente predittivo da usare in test fai-da-te per capire il rischio individuale. Finora i dati ottenuti sono ancora poco applicabili alla clinica (e anche in futuro potrebbero creare falsi allarmismi). Tuttavia, dimostrano l’estrema complessità di un tessuto così poco appariscente. Che cosa dobbiamo fare per mantenere le ossa in efficienza? Assumere calcio in quantità adeguate all’età: al bambino di 1-10 anni servono 800 mg; all’adulto 1.000 mg, mentre in menopausa e in tarda età nuovamente 1.200-1.500 mg. Se c’è sufficiente vitamina D, infatti, il 30-40 per cento del calcio che ingeriamo con i cibi - latte e derivati, ma anche acque minerali calciche (con oltre 200 mg di calcio/lt) - viene assorbito dall’organismo e si deposita nell’osso. L’alimentazione da sola, però, non basta. Bisogna saltare, correre o ballare. Fare, cioè, un’attività in cui la forza di gravità stimoli l’osso favorendo la mineralizzazione. Sono queste le basi della prevenzione? Certamente valgono in gioventù. Quando l’età avanza, invece, va sentito il parere del medico sui fattori di rischio individuali. Così, se fosse il caso, si possono prendete contromisure più mirate.