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 2005  ottobre 26 Mercoledì calendario

1°settembre 1939, la Germania nazista invade la Polonia e il mondo si incendia. Dopo cinque anni di guerra, Hitler sarà sconfitto, ma il prezzo da pagare sarà quasi insostenibile: milioni di morti, intere nazioni ridotte a cumuli di macerie, sistemi economici completamente azzerati

1°settembre 1939, la Germania nazista invade la Polonia e il mondo si incendia. Dopo cinque anni di guerra, Hitler sarà sconfitto, ma il prezzo da pagare sarà quasi insostenibile: milioni di morti, intere nazioni ridotte a cumuli di macerie, sistemi economici completamente azzerati. Fu il tragico risultato dell’incapacità dei politici di comprendere per tempo e quindi di fermare con la diplomazia il folle disegno egemonico del Führer. Ma chi guidava gli eserciti che si affrontarono nelle battaglie più sanguinose di ogni tempo? Chi erano gli uomini che fecero passare la storia attraverso il giudizio delle armi? Antonello Biagini, professore ordinario di storia dell’Europa orientale all’Università la Sapienza di Roma e consulente dell’Ufficio Storico dell’Esercito dal 1971 ci aiuta a comprendere meglio la figura di sei di questi moderni condottieri: Montgomery (Gb), Rommel (Ger), Patton (Usa), Yamamoto (Gia), Graziani (Ita) e Zhukov (Urss). Quali sono gli aspetti che accomunavano questi sei grandi soldati? «Innanzitutto il concetto di conflitto. Solo dopo gli anni ’50 prevale l’interesse per la difesa. Prima di allora c’erano i ministeri della Guerra, non della Difesa, e molti padri di famiglia avevano combattuto. Ai tempi la guerra era veramente considerata ”normale”. Inoltre, tutti questi sei personaggi erano dotati di genialità strategica: infatti nell’antichità si parlava di ”arte della guerra” perché erano l’improvvisazione e il genio del momento che determinavano la prevalenza di un condottiero su un altro. Ma questa dote naturale da sola non sarebbe stata sufficiente: alla base, al di là delle differenze di nazionalità con ciò che ne consegue, c’era una formazione comune a ogni buon soldato destinato al comando, che prevedeva la perfetta conoscenza del territorio, dei mezzi a disposizione, ma anche dello stato psicologico e addestrativo dei propri uomini alla vigilia di una battaglia. Cito un esempio: gli inglesi hanno sempre preteso che i soldati si sbarbassero tutti i giorni, anche in pieno deserto. Era un espediente per mantenere un contatto con la vita civile, ma anche il modo per comunicare ai soldati l’attenzione costante del comandante. Sono quelle piccole fondamentali cose che poi fortificano lo spirito di gruppo, così utile in combattimento». Quindi l’esito di una battaglia non dipendeva solo dalla bravura e dalla genialità dello stratega... «No. Tutti i generali tedeschi sostenevano il concetto di blitzkrieg (guerra lampo), in base al quale un attacco potente e velocissimo con tutti i mezzi disponibili avrebbe piegato qualsiasi nemico. Ma senza un supporto militare e logistico adeguato, neanche il migliore dei generali avrebbe potuto fare miracoli. Prenda l’espertissimo Rommel: era convinto di poter vincere in Africa, ma quando cominciò a non ricevere più rifornimenti, si convinse che la partita era persa. Ma anche in caso di vittoria, sono sempre necessari mezzi, strutture e anche simboli sufficienti per rendere chiara l’occupazione di un territorio. Qui l’abilità strategica passa in secondo piano». Quale fu il rapporto tra militari e politici? «Sono mondi diversi: i militari tendono a dare una visione professionale, il politico cerca una soluzione spesso di compromesso. Ma quando le due cose si mescolano, possono nascere dei problemi. Hitler si credeva un grande stratega, così come molti militari erano convinti di avere sensibilità politica. Quando la Germania invade l’Unione Sovietica, per esempio, commette un grave errore: se invece di perseguitare gli ucraini, che soffrivano del dominio russo da 400 anni, li avesse resi indipendenti, avrebbe guadagnato un alleato prezioso. Per rimanere in Russia, Hitler obbliga Von Paulus a non ritirarsi da Stalingrado, condannandolo di fatto al sacrificio suo e delle truppe. Se il militare legge la guerra sul campo, è il politico che ha l’ultima parola, soprattutto nei regimi autoritari. La cosa particolare è che in Germania il potere militare, di antiche tradizioni prussiane, si mescolò in toto ai politici nazisti, mentre in passato tra politici e militari il rapporto era stato molto più dialettico. In Giappone una cosa del genere sarebbe stata impensabile: l’ammiraglio Yamamoto era figlio di uno stato teocratico, suddiviso in categorie sacre, dov’era inimmaginabile che i militari, che di queste categorie facevano parte, passassero alla politica. Contrariamente al mondo anglosassone, dove ogni vittima ha un peso e il giudizio dell’opinione pubblica è in agguato, nel Sol Levante si fa la guerra per un imperativo quasi religioso e il numero dei morti non conta. Oltretutto la sconfitta prevede il suicidio per questioni d’onore. Una soluzione personale, di chi vive in una sorta di olimpo, separato dal mondo circostante e non si sottopone a giudizi esterni». E in Italia come fu il rapporto tra forze armate e fascismo? «Nonostante i tentativi del regime, i militari di alto e medio livello non si fecero fascistizzare, rimanendo in maggioranza fedeli al Re. Ne nacquero contrasti anche seri: è emblematico il caso della rivalità tra Badoglio, filo-Savoia, e Graziani, che rimase legato a Mussolini fino alla Repubblica di Salò. Mentre Rommel era un soldato al 100 per cento, in Italia nascevano spesso militari-politici, e Badoglio era certamente uno di questi. Conosceva l’arte del compromesso, era un uomo da scrivania. Graziani, al contrario, era uomo d’azione fino al midollo. Si arrivò al punto che Badoglio, allora Capo di Stato Maggiore, negò i rifornimenti a Graziani in gravi difficoltà durante la campagna d’Africa. Qualcuno parla di uno sgarbo personale, altri sostengono che, vista la situazione ormai compromessa, Badoglio preferì dirottare le già scarse risorse verso altri fronti dove erano impegnate le nostre truppe. Ma certamente Badoglio nemmeno in guerra seppe mettere da parte l’odio per Graziani». Perché Graziani fu così discusso? «In Africa Graziani fece anche delle grandi cose, tenendo presente la povertà dei mezzi, ad esempio un funzionale sistema di rifornimento d’acqua. Della sconfitta e del difficile rapporto con Badoglio abbiamo già detto, ma certamente Graziani aveva un cattivo carattere che non lo aiutava a procurarsi simpatie. Poi c’è l’aspetto delle crudeltà che gli sono state imputate in Africa, ma qui bisogna essere prudenti, perché ai tempi certe forme di repressione venivano perfettamente tollerate, come le pene corporali, che nelle forze armate vengono eliminate solo alla fine della Prima guerra mondiale. Se mai, Graziani non capì che la repressione troppo crudele degli indigeni ribelli sarebbe stata controproducente, compattando contro gli italiani quelle tribù che altrimenti si sarebbero scannate fra loro. Il fatto poi di essere passato alla Repubblica di Salò, secondo qualcuno per bisogno di soldi, lo danneggia come figura morale. Ma in Italia quella della guerra civile rimane una ferita aperta, che ancora oggi non favorisce giudizi sereni». Cosa ci può dire di altri due rivali, Rommel e Montgomery? «Erano due grandi strateghi, il primo rapido e imprevedibile, il secondo metodico ed efficiente. Ambedue amavano la competizione, la prima linea, non erano strateghi da tavolino. Erano abituati alla disciplina, uno cresciuto nelle scuole di stampo prussiano, l’altro nei college dove dominava lo spirito competitivo. Rommel era una sorta di cavaliere romantico. Appariva improvvisamente in mezzo alla battaglia, in piedi su un’autoblindo, con la sua sciarpa bianca. Un vero mito per i suoi soldati e per i nemici. In lui c’era anche un forte senso del dovere: quando entrò in disaccordo con Hitler, conservò comunque fino alla fine un certo senso dell’onore, della fedeltà. Montgomery alimentava il cameratismo con i suoi commilitoni, ne curava l’addestramento, pranzava con loro. Aveva capito l’importanza di diventare un personaggio da idolatrare, in un momento in cui anche i soldati inglesi erano ossessionati da Rommel». E l’americanissimo Patton? «Era il prodotto tipico di una cultura efficientista, privo di formalismo. Era ultranazionalista, consapevole di essere il generale di una grande potenza. Quindi pretendeva il ruolo di protagonista, ritenendo che gli inglesi avrebbero dovuto ringraziarlo per averli salvati in Africa. Nelle grandi alleanze tra paesi democratici, il problema del comando esiste sempre, perché si riproducono in piccolo le tensioni tra gli alti comandi e perché le rivalità vengono date in pasto alla stampa e all’opinione pubblica. Oltretutto spesso questi generali si muovono pensando al dopoguerra, quando nella vita sociale potranno trarre vantaggio dalle loro vittorie. Si pensi ad Eisenhowher, eletto Presidente degli Stati Uniti». In cosa si distingue Zhukov? «Zhukov rappresenta la sintesi tra un nuovo modo di fare la guerra, veloce e dirompente, e uno vecchio, basato sulla pazienza nell’approfittare di elementi quasi naturali che lo rendono più forte: la resistenza del popolo, il terreno, il Generale Inverno. L’importante qui è vincere, a prescindere dal prezzo che si deve pagare. Non c’è un’opinione pubblica a cui rendere conto. Ma la verità è che Stalin si ritirò perché non era in grado di far fronte ai tedeschi, e senza l’aiuto degli Stati Uniti, gli esiti sarebbero stati completamente diversi».