MACCHINA DEL TEMPO NOVEMBRE 2005, 26 ottobre 2005
Perché siamo esseri umani e non scimmie? Perché lo scimpanzé, il parente animale più vicino alla nostra specie, è ricoperto di pelo, non ha una postura eretta, non parla e non ha le nostre stesse facoltà mentali? Le risposte a queste domande sono tutt’altro che banali e sono scritte in un codice che contiene tutte le informazioni per la vita, il Dna
Perché siamo esseri umani e non scimmie? Perché lo scimpanzé, il parente animale più vicino alla nostra specie, è ricoperto di pelo, non ha una postura eretta, non parla e non ha le nostre stesse facoltà mentali? Le risposte a queste domande sono tutt’altro che banali e sono scritte in un codice che contiene tutte le informazioni per la vita, il Dna. La lunga doppia elica, presente nel nucleo delle cellule, contiene i geni che regolano tutti gli aspetti e le funzioni degli organismi viventi. Ma per capire quali di questi geni ci rendono unici nel mondo animale, è necessario fare dei confronti. Adesso è possibile, perché anche il patrimonio genetico dello scimpanzé non ha più segreti. Un consorzio internazionale, chiamato ”Chimpanzee Sequensingand Analyzing Consortium”, composto da 67 scienziati di 23 istituti di ricerca di Stati Uniti, Germania, Italia, Israele e Spagna ha completato per la prima volta la lettura del Dna di un primate. Scoprendo che ci assomigliamo al 96 per cento. Tant’è la differenza che che ci separa dalle scimmie con cui abbiamo condiviso un progenitore comune fino a sei milioni di anni fa. «Siamo sorprendentemente affini», afferma Mario Ventura, ricercatore del Dipartimento di Genetica e Microbiologia dell’Università di Bari, che ha contribuito al lavoro, apparso sulla rivista ”Nature”. Per dare un’idea della distanza genetica che ci separa, il numero delle discrepanze tra il genoma dello scimpanzé e quello umano è circa dieci volte superiore a quello tra due persone qualsiasi, ma è 10 volte inferiore alle differenze tra il nostro patrimonio genetico e quello dei topi, su cui si conduce la maggior parte degli esperimenti scientifici. «Il dato che salta all’occhio è che se mettiamo le sequenze una accanto all’altra e consideriamo i geni che dettano alla cellula le istruzioni per costruire le proteine (le sostanze incaricate di svolgere le funzioni dell’organismo) vediamo che differiamo solo dell’1,2%: per un pugno di geni», continua Ventura. Ma non tutto il Dna è costituito da geni che codificano. Anzi, ci sono intere zone che fanno parte di quello che è stato soprannominato ”junk Dna”, il Dna spazzatura, così chiamato perché non è ancora chiaro a che cosa serva. lì che si raccolgono le differenze maggiori tra uomini e scimpanzé, pari al 2,7%. «Sono dovute a duplicazioni o ricombinazioni di tratti di Dna che, nel corso dell’evoluzione divergente delle due specie, si sono inseriti in alcuni punti del genoma», dice Ventura. «Per esempio, abbiamo trovato tratti che negli umani sono associati alla comparsa di particolari malattie, assenti nello scimpanzé». Come dire: l’1,2% è dovuto all’accumulo di mutazioni, cioè cambiamenti casuali di una lettera nel Dna, di uno stesso patrimonio che è appartenuto a entrambi fino a quando le nostre strade evolutive non si sono separate. La restante percentuale, invece, è esclusiva della specie, frutto della selezione naturale a cui siamo andati incontro. « lì dentro che stanno le risposte che stiamo cercando», continua Ventura. «Ci sono regioni legate alla risposta immunitaria, alla funzione riproduttiva, alla trasmissione dei segnali nervosi, alla percezione dei suoni e dell’olfatto e sono emerse differenze anche dal confronto del cromosoma maschile Y». Cos’è che ci accomuna? La dentatura, per esempio, la struttura dei muscoli delle spalle, il numero delle ossa, il pollice opponibile delle mani che permette di raccogliere gli oggetti. Mentre a fare da discriminante sono la corteccia cerebrale, sede del pensiero, che nell’essere umano è in nove strati contro i sette dello scimpanzé, le dimensioni del cervello e la fronte, che in noi si è appiattita. E, soprattutto, il linguaggio. I ricercatori hanno anche identificato due geni, FoxP2 e Cftr, ribattezzati i geni del linguaggio perché alterazioni a livello di questi tratti di Dna sono all’origine di disturbi della parola. «L’espressione di questi geni è prerogativa umana, ma avere un gene», specifica il ricercatore, «significa avere solo uno degli elementi che concorrono alla funzione verbale. Il FoxP2 negli scimpanzé non si esprime, c’è ma dà istruzioni differenti. Tuttavia non basta questo a spiegare perché noi sappiamo parlare e loro no. Basti pensare che per parlare c’è bisogno di tutta una struttura anatomica e faringea, non può certo bastare avere un gene. La complessità del linguaggio non si esaurisce qui». Il punto è proprio questo: siamo solo all’inizio di un nuovo e affascinante campo di indagine.