MACCHINA DEL TEMPO NOVEMBRE 2005, 26 ottobre 2005
Le grandi scimmie potrebbero estinguersi entro la fine del secolo. Al momento ce ne sono solo 350 mila nel mondo, una ogni 20 mila esseri umani
Le grandi scimmie potrebbero estinguersi entro la fine del secolo. Al momento ce ne sono solo 350 mila nel mondo, una ogni 20 mila esseri umani. Le specie più a rischio sono sei, concentrate in Africa e nel sud-est asiatico: gli oranghi di Sumatra e del Borneo, il gorilla orientale e occidentale, lo scimpanzé e il bonobo. La popolazione dell’orango di Sumatra, nelle ultime tre generazioni, si è ridotta dell’80 per cento ed entro 50 anni diminuirà ancora, passando da 7.300 esemplari a 250. Lo stesso vale per l’orango del Borneo, i cui 45 mila esemplari rappresentano solo il 10 per cento della popolazione di 50 anni fa. Non va meglio in Africa, dove il gorilla di montagna della Repubblica Democratica del Congo e il gorilla di Cross River, che vive tra Nigeria e Camerun, sono ridotti rispettivamente a circa 700 e 250 esemplari. Le preoccupanti cifre sono contenute nel World Atlas of Great Apes and their Conservation, pubblicato dall’Agenzia per l’ambiente e la Biodiversità delle Nazioni Unite (Unep). Con ricerche e contributi di scienziati di fama mondiale, l’atlante traccia una mappa delle specie esistenti in 23 paesi, analizzandone la biologia, il comportamento e i rischi per il loro stato di conservazione. Le principali minacce sono la perdita e la frammentazione dell’habitat, il commercio di carne selvatica e la diffusione delle malattie. In una parola la povertà, dicono gli esperti. In 16 dei 23 stati analizzati, infatti, il reddito pro capite annuo è inferiore agli 800 dollari. La popolazione cresce rapidamente, cerca spazio dove insediarsi nella foresta tagliando gli alberi e coltivando il terreno. A ciò si aggiunge l’opera di deforestazione delle grandi industrie del legno. I risultati sono l’erosione del suolo e la riduzione e la frammentazione dell’habitat naturale delle grandi scimmie, che finiscono per restare isolate dalle altre specie. «La frammentazione dell’habitat impoverisce le specie», spiega Daniela De Donno, biologa e presidente della sezione italiana del Jane Goodall Institute. «Per esempio, nel parco di Gombe, in Tanzania, dove siamo attivi con vari progetti, stiamo tentando di creare dei ponti per sopperire alla scomparsa di grosse parti di foresta e far muovere liberamente gli scimpanzé. Altrimenti sorge il problema dell’inbreeding (incrocio tra consanguinei), che ha serie conseguenze sulla variabilità genetica delle future popolazioni». I gorilla di Cross River, una delle due sottospecie di gorilla occidentali, per esempio, sono distribuiti tra più di 10 aree frammentate e sono perciò molto vulnerabili. Ma la deforestazione ha un altro grave effetto. Le strade aperte nelle foreste danno il via libera a cacciatori e bracconieri.«In Africa centrale la carcassa di uno scimpanzé o gorilla può valere 20-25 dollari e rappresenta una grossa fonte di guadagno in questi paesi poveri», continua De Donno. «I bracconieri si muovono per le foreste e uccidono i primati per commerciarne la carne o per catturare i piccoli da vendere come animali da compagnia o da esibizione». La pratica del bushmeat, cioè il pranzo a base di carne selvatica, preoccupa non solo per la conservazione delle specie ma anche per la diffusione del virus ebola, che in Africa sta colpendo molti primati. Nel sud-est asiatico, invece, la distruzione dell’habitat è stata accelerata dallo tsunami del 26 dicembre - che ha costretto molte persone a tagliare legname per ricostruirsi una casa - e dalla guerra che per 29 anni ha visto scontrarsi il governo indonesiano con i separatisti ribelli, attivi nella provincia di Aceh, una delle zone più abitate dalle grandi scimmie. Per fermare il declino dei primati, i 23 ministri dei paesi interessati si sono riuniti dal 5 al 9 settembre 2005 a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, per il primo meeting del Great Ape Survival Project (Grasp), progetto lanciato nel 2001 dall’Onu. Da qui hanno chiesto l’aiuto dei paesi occidentali e delle agenzie internazionali: ci sono ben 100 località, soprattutto in Africa, dove intervenire con un piano di conservazione, rafforzare i controlli sulla deforestazione e sulla caccia e promuovere modelli di vita sostenibili per le comunità locali.