26 ottobre 2005
Tags : Ruth Klüger
KLGER Ruth. Nata a Vienna (Austria) il 30 ottobre 1931. Germanista. Aveva 12 anni quando venne deportata prima a Theresienstadt, poi ad Auschwitz e infine a Christianstadt
KLGER Ruth. Nata a Vienna (Austria) il 30 ottobre 1931. Germanista. Aveva 12 anni quando venne deportata prima a Theresienstadt, poi ad Auschwitz e infine a Christianstadt. Dopo la liberazione, nel 1947, si è trasferita negli Stati uniti. Ha insegnato letteratura tedesca all’università di Irvine (California); a metà degli anni ’80 è stata la prima donna a capo del dipartimento di germanistica a Princeton; è autrice di saggi e articoli sulla letteratura tedesca. Vivere ancora, tradotto in moltissime lingue, ha ottenuto molteplici riconoscimenti tra cui il premio Grimmelshausen per la letteratura. «[...] in Germania la prestigiosa casa editrice Reclam ha pubblicato un libro di commenti e documenti su questo testo, come è d’uso con i classici. [...] ”Quando, ormai da anni negli Stati uniti, ho cominciato questo libro, ho voluto scriverlo in tedesco, e ogni volta che non trovavo le parole, chiedevo alla bambina austriaca che era in me di ricordarmele. In fin dei conti, è vero, non sono mai andata via da Vienna, è una città dalla quale non sono mai davvero scappata, ma al tempo stesso non posso stare troppo a lungo in un posto, forse perché non mi sono mai sentita a casa da nessuna parte. Se riesci ad andartene, puoi trovare posti migliori, e la maggior parte delle volte funziona. La nostra è stata una generazione di rifugiati, che si è spostata nel mondo come mai prima di allora; io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La fuga è diventata l’espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta; sono interamente una persona del XX secolo. [...] Ho sempre evitato il sentimentalismo. Quello che mi fa paura, nelle persone sentimentali, è che mentono sulle cose. Credere che il mondo possa andare meglio, è fare del sentimentalismo. Certo, anch’io vorrei che le cose andassero diversamente, e quando, guardando i miei nipoti, penso a un mondo migliore per loro, divento sentimentale. Ma nel mio libro e, credo, nella mia vita, ho sempre cercato di analizzare in profondità le relazioni che le persone intrattengono tra loro, specie nell’amicizia e nella famiglia. In Vivere ancora - e questo ha dato fastidio a qualcuno - descrivo come, durante l’esperienza dei campi, le relazioni non diventassero più forti, ma continuassero invece a essere difficili e nevrotiche. La Shoah, la catastrofe, non è stata un beneficio per le relazioni familiari, è piuttosto ovvio. Eppure molta gente crede che, nelle difficoltà, gli esseri umani diventino migliori. Perché mai circostanze peggiori dovrebbero rendere migliori le persone? Auschwitz non è stata una scuola di niente, men che meno di umanità e tolleranza. Mi è capitato di parlare con uno studente tedesco che si stupiva di aver conosciuto a Gerusalemme un ebreo ungherese sopravvissuto ad Auschwitz che detestava gli arabi. Perché, ho reagito io, quell’esperienza avrebbe dovuto renderlo più tollerante? i campi di concentramento sono stati distruttivi dell’animo umano e non solo dei corpi; certo non una scuola di umanità. [...] Gli ebrei, a Vienna, cercavano di trovare le ragioni per cui i non ebrei li odiavano, e uno dei luoghi comuni ricorrenti era che avessero troppo denaro e che lo ostentassero. Mia zia diceva che non bisognava indossare gioielli per strada, per non fare ’antisemitismo’. Si cercava di non suscitare aggressività, si assumeva su di sé lo sguardo dell’altro. Era un vedersi riflessi nello specchio di occhi cattivi, per usare le parole di Yeats nel Mirror of Malicious Eyes. Non si sfugge dall’immagine che ti viene ritorta contro, si finisce per crederle. E questo è forse il veleno più profondo e insidioso del razzismo. [...] la letteratura della Shoah è una letteratura di sopravvissuti, di scampati, e questo dà la confortevole sensazione che tutti ce l’abbiano fatta, ma non dobbiamo dimenticare che la maggior parte delle persone, invece, sono morte nei campi. solo questa evidenza a poter davvero parlare della morte, e non delle sofferenze che i pochi sopravvissuti hanno patito per pochi anni; parliamo di circa sei milioni di persone che sono state uccise, e questo è ciò che i sociologi e gli storici raccontano, e non la letteratura, così abbiamo bisogno di entrambe. [...] Il mio vero nome era Ruth, il mio secondo Susan, ma da bambina tutti mi chiamavano Susi. Quando sono arrivati i nazisti, però, ho voluto il mio nome ebraico; allora non sapevo che anche Susanna lo fosse. Quando più tardi lessi Il libro di Ruth ne fui molto felice, mi parve di essermi riappropriata del nome giusto per me. Amo questo libro della Bibbia. Nel Libro di Esther tutti i nemici degli ebrei vengono uccisi, il Libro di Ruth è scritto contro questo genere di nazionalismo. Ruth non è ebrea, è una mahabita che diventa ebrea, che decide di emigrare perché stima di più l’amicizia con la suocera Naomi che l’appartenenza alla stirpe. [...] dopo la guerra, quando era una questione di ricordare e raccontare, o di dimenticare e andare avanti; io volevo andare avanti, scoprire il mondo con tutte le cose belle che mi erano state precluse. Non volevo guardare indietro. Volevo avere la mia vita, come tutti gli altri. Cominciare quel genere di esistenza che avevo tanto desiderato nei campi; ma ovviamente, al tempo stesso, volevo preservare quello che mi era successo. Era un sentimento ambivalente. [...] Le docce riguardano i morti, l’orrore delle docce riguarda i molti che sono stati uccisi, e non i pochi superstiti che sono stati reintegrati nel mondo dei vivi. Noi non abbiamo mai costituito un pericolo per la società, abbiamo solo cercato di integrarci e, qualunque ferita o dramma avessimo dentro di noi, abbiamo cercato di interiorizzarlo e conviverci. Sì, abbiamo una grande parte di noi che è tra i viventi, in forma separata da quelli che sono morti; ma una piccola parte di noi è due contemporaneamente. Io sono più fantasma di quanto lei non sia, ma io appartengo a lei più di quanto appartenga al mondo di mio fratello, che è morto quando aveva 17 anni. molto triste, ma è così. Però c’è una differenza tra il ricordare i morti e l’essere morti: chi ricorda i morti è ancora vivo. Io ho un grande vantaggio, sono viva; mio fratello è morto e non ha avuto una vita, dopo. Senza vita, nessuna altra cosa è possibile, nessuna cosa può essere pensata o sentita. [...] Un giorno guardavo mia nuora con i suoi bambini, i miei amati e meravigliosi nipoti, e ho pensato: e se qualcuno venisse a prenderli, a strapparli da lei? E poi ho pensato, no, è una cosa che non le potrà mai accadere, questa donna californiana è qui al sicuro, non accadrà... [...]”» (Daniela Padoan, ”il manifesto” 25/10/2005).