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 2005  ottobre 20 Giovedì calendario

Oltre i confini della realtà. Vanity Fair 20/10/2005. Sono laico. Sono ateo. Senza nessuna prosopopea né certezza: più che convinzioni assolute si tratta di inclinazioni

Oltre i confini della realtà. Vanity Fair 20/10/2005. Sono laico. Sono ateo. Senza nessuna prosopopea né certezza: più che convinzioni assolute si tratta di inclinazioni. Sono, anche, tollerante e possibilista. Una volta, una vita fa, mi sono sposato: in chiesa. Piuttosto che chiedere a un’altra persona di uscirne, sono entrato. Al prete, nei colloqui pre-matrimoniali, ho cercato di spiegare le mie posizioni. "Un ateo mistico", concluse. "Ti aspetti troppo dalla fede", aggiunse. "Expect the unexpected" ho letto su un muro di New York e, in effetti, aspetto quel che non mi aspetto. Così, un giorno, ho ”incontrato” Rol. UNA STRANA TELEFONATA Era una lontana estate in cui lavoravo come capo della cronaca nazionale alla Stampa di Torino. A Rimini, Fellini viveva una lunga agonia cominciata in una stanza del Grand Hotel. Il giornale decise di chiedere un’intervista sui destini del regista a un suo caro amico: il dottor Gustavo Adolfo Rol. In città era una leggenda. Sulle sue presunte capacità si accendevano dibattiti tra sostenitori e scettici. Tra i primi c’erano personaggi famosi e potenti. Guidavano la pattuglia dei secondi esponenti ecclesiastici e, in nome della scienza, Piero Angela. Rol concesse l’intervista. Fu affidata a un redattore culturale. Quando la spedì, secondo i calcoli del mio computer era lunga, ma di appena due righe. Tagliai e feci per mandare in composizione, quando il mio telefono squillò. Era il vicedirettore, Lorenzo Mondo. "L’intervista a Rol è giusta?". "Cresceva di due righe, ho tagliato". "Bisogna chiedergli il permesso". "Per due righe?". "Chiamalo, ti do il suo numero di casa". Lo trascrissi. Telefonai. Al terzo squillo una voce rispose: "Va bene così". "Prego?". "Quel che lei ha fatto va bene, non si preoccupi". Seppi poi che stupire l’interlocutore indovinando chi fosse e perché chiamasse era un ”gioco” ricorrente di Rol. Fu gentile, mi invitò ad andarlo a conoscere, cosa che di solito concedeva con difficoltà. Non lo feci, avevo le mie zone oscure e non volevo varcarne la frontiera, non allora. Riappesi e rilessi, con occhi diversi, l’intervista. A un certo punto sosteneva che la suite del Grand Hotel dove si era ammalato Fellini era ”numerologicamente segnata”. Il concetto non mi era chiaro, lo archiviai alla voce ”effetti speciali”. Fellini morì di lì a poco. Non realizzò mai il suo film più bello e visionario, Il viaggio di G. Mastorna. Rol glielo aveva sconsigliato. Diceva che avrebbe fatto varcare la frontiera di zone oscure a cui non si era pronti. Anni dopo, divenuto inviato dello stesso giornale, mi trovai a Rimini aspettando un ”noto personaggio”. Avrebbe alloggiato al Grand Hotel, il salone all’ingresso era pieno di giornalisti e telecamere. Fu annunciato che il suo aereo privato era atterrato all’aeroporto. Ci fu eccitazione. Mi avvicinai al commendator Arpesella, storico direttore del Grand Hotel. Era un uomo anziano e fuori dal tempo, con una storia personale ricca di avventure e tragedie. Portava camicie dal collo rigido e immacolato, fermacravatte di madreperla. Gli chiesi che stanza avesse riservato al ”noto personaggio”. Come se fosse una scelta ineluttabile, rispose: "La suite di Fellini". Numerologicamente segnata. Il trambusto travolse i miei pensieri, ”il noto personaggio” era arrivato al Grand Hotel, i flash illuminarono l’ingresso di Lady Diana Spencer, a una delle ultime uscite pubbliche prima dello schianto nel tunnel dell’Alma a Parigi. TESTIMONI DELL’IMPOSSIBILE Altri anni dopo, in una delle mie piccole reincarnazioni, ero diventato sceneggiatore televisivo. Proposi a una rete un film in due puntate su Rol e l’idea fu accolta. Andai a Torino per raccogliere testimonianze e documentazione. Mi rivolsi a persone che mi assomigliavano: laici e scettici. Il primo con cui parlai potevo essere io con trent’anni in più. Si chiamava Remo Lugli, era stato come me inviato della Stampa, era alto e distaccato. Su Rol aveva scritto un libro, il migliore di quelli che avevo letto, perché Lugli, alfiere di un giornalismo che fu, non aveva la tendenza a credere, ma a verificare. Aveva partecipato a molti ”esperimenti” in casa di Rol e li riportava: oggetti che apparivano, tele che si dipingevano, indicazioni che componevano frasi di senso compiuto. L’aveva fatto con lo stupore di chi si arrende progressivamente a qualcosa cui non dà un nome, che non gli chiede sottomissione, ma esiste, innegabile. Parlandone, ancora si accendeva di meraviglia. Salimmo in macchina e andammo da un tal Provera, che di Rol era stato nominato esecutore testamentario. Era un altro di ”noi”. Aveva una piccola impresa, produceva caminetti, non sfere di cristallo. Non aveva mai letto libri su Nostradamus e considerava fumo l’occulto. Ma Rol era stato un’esperienza chiave della sua esistenza. Con la stessa serenità con cui io potrei ricordare un temporale improvviso, lui rievocava: "Era carnevale, fece apparire un piatto di frappe in mano a mia suocera, così, dal niente". Pensai che anche i prestigiatori deliziano il pubblico, ma l’effetto di Rol era diverso, molto più incisivo. Provera aveva partecipato a ”esperimenti” di contatto con persone scomparse e una cosa aveva concluso: "Ora ho una diversa idea della morte, non è più qualcosa che mi spaventa, so che è una soglia, oltre la quale non tutto è buio e questo lo devo a Rol". Lugli, di lato, gravemente assentiva. Tornai a Torino, andai al palazzo in via Silvio Pellico dove Rol aveva vissuto e condotto i suoi esperimenti. Stava a pochi passi dal parco del Valentino. Bussai a ogni porta, chiedendo ricordi. Mi aprirono per lo più cortesi e anziane dame torinesi. Annotai spesso la seguente frase: "In questa casa, a parte me, tutte sono state innamorate di Rol". Una me ne mostrò la foto incorniciata. Un’altra l’aveva sostituita, sotto il cuscino, con quella del parroco, detto ”Uccelli di rovo”, don Piero Gallo, che consideravo con onore un amico. Salii all’ultimo piano, quello di Rol. Nella porta a fianco viveva una famiglia che conoscevo. La figlia, ora sposa di un fotografo e madre di due bambini, aveva diretto un hotel a Genova. Era una donna pratica, più a suo agio con il ”marketing” che con il ”channeling”. Eppure, rovistando tra i ricordi del tempo in cui viveva lì, disse con naturalezza: "Ci fu una volta in cui lo vidi crescere. Eravamo in ascensore, lui aveva quel profumo strano, che solo lui possedeva. Mi guardò, sorrise e cominciò a crescere. Di almeno trenta centimetri. I pantaloni gli diventarono alla zuava". Sua madre annuiva. Suo padre era stato per anni lo scettico di famiglia, poi si era arreso anche lui. Ora rievocava la casa accanto come di un luogo magico da cui, di notte, proveniva una musica particolare: una esecuzione della Marsigliese che non aveva mai saputo ritrovare, che forse non era mai esistita. In quella casa ora viveva un ex professore di applicazioni tecniche convertitosi in analista. Aveva una clientela speciale: solo ricchi e potenti. I maligni dicevano che aveva continuato la tradizione di Rol. In tutta la mia indagine, però, non ho mai incontrato una sola persona a cui Rol abbia chiesto una lira. Fa differenza. I RAGAZZI SALVATI Andai a trovare don Piero Gallo, che aveva celebrato il funerale di Rol. Tra un sacerdote aperto e un ateo mistico ci si intende. Il punto di contatto è lo spiraglio alle possibilità. Don Piero non si era preoccupato delle remore ecclesiastiche su Rol, lo considerava un buon cristiano. Quel che aveva, di speciale o no, veniva da Dio. Per come la vedevo io, il problema della Chiesa è allontanare dagli uomini l’idea di Dio, negare la possibilità che noi, esseri imperfetti, si sia, allo stato puro, liberati dai condizionamenti dell’educazione, della società, della religione, dei. Rol ci aveva provato e questo era stato il suo peccato. C’era una storia su di lui che volevo verificare: raccontava Catterina Ferrari, la donna che l’aveva accudito negli ultimi tempi, che avesse salvato due ragazzi dalla fucilazione a opera dei tedeschi, in qualche modo vincendoli a un colonnello con i suoi ”esperimenti”. Era accaduto nel paese di San Secondo, dove c’era una villa di famiglia. Mi fece da guida un vispo anziano che si fregiava del titolo di cavaliere concessogli dall’allora primo ministro Giuliano Amato. Ritrovammo la cascina degli scampati, la vedova di uno di loro (non si scampa in eterno). Parlava soltanto in dialetto. Il traduttore mi disse che confermava l’episodio. La circostanza non conteneva elementi soprannaturali, ma per me equivaleva a una canonizzazione. Rol aveva usato le sue capacità, quali che fossero, per consolare e salvare. Tanto bastava. Chiesi di andare alla sua tomba e il cavaliere mi accompagnò. Mentre io leggevo l’iscrizione, lui andò davanti a un’altra lapide. Lo raggiunsi: era commosso. Disse: "Mio figlio. Si è suicidato. Per amore". Allargò le braccia come a dire: il mistero è ovunque. Tornai a Roma e raccolsi altre testimonianze. Il direttore di un importante quotidiano mi raccontò una serata in casa di Rol: gli aveva parlato dello spirito che lo accompagnava, aveva fatto passare carte attraverso i muri. Maurizio Costanzo rievocò la storia di un ”quadruccio” che Rol gli aveva spedito in regalo per riconoscenza ("avevo fatto scrivere di lui sulla Domenica del Corriere") ed era misteriosamente scomparso. Scrissi la sceneggiatura, insieme a un amico più scettico e cinico di me. Quel film divenne il mio Viaggio di G. Mastorna: non si fece mai. Ci furono problemi produttivi. Ma soprattutto nelle stanze delle decisioni, popolate da uomini pratici, concreti, semmai cristiani della domenica, spettatori di Superquark, giunse una voce: Rol, come anche madre Teresa di Calcutta, porta sfortuna. Ecco, questa è una di quelle cose a cui non lascio una sola possibilità e per cui non ho alcuna tolleranza. Gabriele Romagnoli