Varie, 25 ottobre 2005
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Mandelbrot Benot
• Varsavia (Polonia) 20 novembre 1924, Cambridge (Stati Uniti) 14 ottobre 2010. Matematico • «L’opera e la vita di Benoit Mandelbrot smentiscono molti luoghi comuni sui matematici. Per esempio, l’idea che un grande matematico debba aver già dato il massimo di sé ben prima di arrivare ai trent’anni. Mandelbrot ha pubblicato tutti i suoi lavori più importanti dopo aver passato la cinquantina, alcuni dopo la sessantina e ancora altri dopo la settantina. [...] Inoltre, si pensava che l’opera di un grande matematico dovesse essere comprensibile solo a un pugno di suoi colleghi altamente specializzati. Ma una ricerca su internet per il termine “frattali” (da lui coniato nel 1974) dà 3 milioni e trecentoquarantamila siti. Un altro luogo comune è che un grande matematico sia una raffinata macchina per astrazioni impalpabili, un virtuoso di formule pure, un dimostratore di teoremi. Mandelbrot è anche tutto questo, ma ha esplorato il mondo soprattutto con gli occhi, non solo quelli della mente, insistendo sull’importanza fondamentale dello sguardo diretto sulle forme e le architetture dell’universo, alcune reali, alcune astratte ma direttamente connesse con quelle reali. Nato a Varsavia, cresciuto e laureato a Parigi, poi per molti anni eminente professore di matematica all’Università di Yale e ricercatore nei laboratori della Ibm a Yorktown Heights, Mandelbrot si è sempre mosso con un piede nell’accademia e uno nell’industria, trovando ispirazioni (e applicazioni) in fisica, in economia, in biologia e in chimica. Infine, Mandelbrot ha smentito il luogo comune forse più sottile e radicato: che i modelli matematici debbano per forza fuggire dalla ruvidezza e irregolarità delle cose concrete, sostituendovi curve continue e figure perfette. Mandelbrot considera, invece, la ruvidezza (roughness in inglese) una grandezza naturale, onnipresente, ineludibile, ma trattabile rigorosamente, al pari di temperatura, peso, colore, frequenza, acidità. Immaginiamo di spaccare in due un comune mattone e osserviamo la ruvidezza delle due nuove facce così create. Ripetiamo questa brutale operazione sui frammenti e poi sui frammenti di quei frammenti, fino a quando ci dovremo servire di una lente per osservare quelle piccole facce ruvide. Esse si assomigliano tutte, sono tutte, come Mandelbrot ci ha insegnato a dire, “auto-simili”. Un altro esempio: prendiamo la costa ligure, da Lerici a Turbia (come Dante suggeriva), poi prendiamo un chilometro di quella costa, poi dieci metri, poi un metro, poi dieci centimetri. La ruvidezza resta sempre la stessa, l’intera costa rocciosa e i sui più piccoli tratti sono anch’essi ugualmente ruvidi, sono, appunto, “auto-simili”. Così è anche il cuore di un cavolfiore, così il nostro apparato circolatorio e tant’altro in natura. Egli ha trovato il modo di trattare matematicamente questi oggetti irrimediabilmente ruvidi, mediante insiemi geometrici che hanno un numero non intero di dimensioni (hanno un numero, appunto, fratto; per esempio, quattro terzi o sette quarti). La sua più celebre equazione se la batte per semplicità con quella leggendaria di Einstein (E=mc2). Si tratta di una serie di funzioni, tale che ciascuna di esse è uguale alla precedente innalzata al quadrato, più c (“c” è un parametro). Niente di più, niente di meno. È vero, la serie va vista raffigurata su un piano matematico un po’ particolare, detto piano complesso, per motivi storici. Ma è pur sempre un piano, raffigurabile su un foglio, o su uno schermo di calcolatore. L’insieme infinito di punti che si estrae da quella semplicissima serie di equazioni, cioè il luogo dei punti del piano complesso che danno soluzioni non infinite, è il bellissimo insieme di Mandelbrot, quasi un cavolfiore visto in sezione, un cuore che tocca un cerchio che tocca tanti altri cerchi più piccoli, con minute infinite ruvide propaggini, ciascuna delle quali contiene un intero insieme uguale a quello di partenza, e così per le propaggini delle propaggini all’infinito. [...] Mandelbrot ci dice che la ruvidezza è anche la legge che governa i mercati finanziari [...] che non è vero che gli agenti economici siano tutti uguali e perseguano il massimo del profitto, non è vero che si possano estrapolare le tendenze dei mercati sul medio e lungo termine, non è vero che i prezzi cambino in modo continuo. Domina, invece, anche qui un’ineliminabile ruvidezza. Per esempio, la curva della media dell’indice Dow Jones dal 1916 ai giorni nostri, se tracciata in grafici opportuni, mostra oscillazioni degne di un elettroencefalogramma, vibrazioni caotiche, fughe verso lo zero o verso l’infinito [...]» (Massimo Piattelli Palmarini, “Corriere della Sera” 25/10/2005).