Varie, 22 ottobre 2005
PAROLI Loris Tonino
PAROLI Loris Tonino Castelnovo Monti (Reggio Emilia) 17 gennaio 1944. Ex terrorista • «[...] di soprannome faceva “Pippo”, nome di battaglia, da brigatista [...] uno del gruppo storico, quelli “dell’appartamento” di Reggio Emilia, con Alberto Franceschini e Prospero Gallinari. [...] nell’aprile del 1975, catturato dalla polizia a Torino, uno dei primi Br a finire in galera, senza aver mai sparato a nessuno. Dentro per sedici anni, fino al 1990: “Quando sono uscito, mo sono reso conto della relatività del bello. Ero entrato che le auto avevano forme arrotondate, sul dietro, addolcite. Venni fuori dalla prigione che avevano tutte il culo alto, non mi piacevano affatto”. [...] “Pippo” - “Era il soprannome da partigiano del marito di mia madre” - traversa tutte le fasi dell’incubazione brigatista, è un antermarcia, per usare termini dell’opposta sponda politica. Educazione cattolica - “Ma non mi rendeva un diverso nella Reggio comunista. Anche qui ci sono valori cristiani, la solidarietà, l’altruismo, che restano profondi” - Tonino è nel giro dei ragazzi un po’ ribelli, insofferenti per la pacata sinistra ufficiale, segnati dal mito dei “morti di Reggio Emilia”, i caduti sotto i colpi della polizia durante i moti del luglio ’60 contro il governo Tambroni. Paroli è apprendista tornitore alla Lombardini. A casa divora tutto quel che trova sull’epopea di Che Guevara. Quando Franceschini e Gallinari vengono espulsi dal Pci è con loro, a formare il “Collettivo politico operai studenti”. È il ’69. È l’inizio della strada che lo porterà alle Br e in galera. Ci sono infinite riunioni, convegni, spaccature e fusioni. Compaiono personaggi carismatici come Renato Curcio (con lui, Tonino dividerà la cella dell’Asinara). Si comincia a parlare di lotta armata e i primi compagni spariscono nella clandestinità verso le fabbriche delle metropoli. Paroli rimane a Reggio: è sposato e ha un figlio. Un fiancheggiatore attivo e impegnato, oppure “brigatista a mezzo servizio” [...] Fino alla prima cattura di un br clandestino, Paolo Maurizio Ferrari, nel maggio ’74. Si apre un vuoto nell’organizzazione, a Torino. I compagni chiedono di riempirlo a Paroli. “Dissi a mia moglie che la ditta mi trasferiva e che mi sarei fatto vivo, poi sparii al nord”. Lo dice come una cosa banale: “Fu dura per mio figlio. Poi, può darsi che una certa insofferenza per il matrimonio esistesse già. Il punto, però, è che, allora, non coglievi le svolte fondamentali, i momenti di non ritorno. Molte scelte dipendevano dal caso: uno scontro coi fascisti, le botte della polizia. Armi e molotov circolavano: non ho mai avuto la sensazione di un passo definitivo, era come salire su una cremagliera che, dopo il primo gradino, non va indietro. Quando mi presero, la prima notte, incontrai un tizio che stava in carcere da due anni. Pensai: ‘Madonna, come è possibile’. Poi ce ne ho passati sedici”. Il momento dell’affiliazione al gruppo funziona anche al momento dell’arresto: “Bruno Caccia, il procuratore poi ucciso dalle Br, mi chiese perché mi dichiaravo prigioniero politico, me la potevo cavare con pene più leggere. Non avevo sparato a nessuno, nella perquisizione, erano state trovate solo armi, targhe e documenti falsi. Ma non volevo passare per un delinquente comune. E c’era la logica del ‘noi’ collettivo da rispettare. Sennò eri dall’altra parte, diventavi uno di ‘loro’. Magari, sono stato il brigatista più stupido”. Lo dice senza crederci. In galera, Paroli tira dritto, a costo di perdere sconti di pena: “È una trincea. In quegli anni, poi, con le rivolte... Anche se non eri coinvolto direttamente, eri in mezzo. Però sono stato uno dei pochi che non litigava con nessuno, andavo in tutte le gabbie, non ero né duro né morbido, né irriducibile né pentito o dissociato [...] È una categoria giuridica, non politica, che poi ha funzionato per distribuire premi. [...] Fino ai primi ’80, dal carcere tenevo d’occhio linea e azioni. Poi ho cominciato a non sentirmi più aggregato, a non farmi coinvolgere nelle liti e nelle spaccature. La spirale di scontro si aggravava e cominciavo a pensare che si andava alla sconfitta, quella strada era senza sbocco”. Processo lento e difficile: “Il carcere eccita l’egocentrismo. Sei marginalizzato eppure credi di essere al centro del mondo. Intanto ti organizzi una vita. È impressionante: ti dimostra quanto siamo flessibili, ancche lì trovi ragioni di esistere. Nella disgrazia, è stata la mia fortuna. Ho cominciato a dipingere” [...]» (Enrico Mannucci, “Sette” n. 11/2003).