Note: [1] G. Olimpio, Corriere della Sera 13/10; [2] M. O’Hanlon, Corriere della Sera 14/10; [3] E. Caretto, Corriere della Sera 20/10; [4] B. Schiavulli, Avvenire 20/10; [5] M. Emiliani, Il Messaggero 20/10; [6] F. Battistini, Corriere della Sera 20/10; , 22 ottobre 2005
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 24 OTTOBRE 2005
Perso il Califfato afghano, Al Qaeda sogna di costituirne uno in Iraq appena se ne saranno andati gli americani. «Dobbiamo essere pronti a colmare il vuoto di potere» ha scritto Ayman Al Zawahiri, braccio e mente del movimento, in una lettera ad Abu Musab Al Zarkawi intercettata dalla Cia. Il vice di Bin Laden vede il Medio Oriente come «un uccello, dove le ali sono la Siria e l’Egitto mentre il cuore è la Palestina»: espulsi gli americani dall’Iraq, la sua strategia prevede la creazione di uno Stato islamico che diventi il trampolino per estendere la Jihad al Levante (Siria, Libano) e all’Egitto. Al Zawahiri è convinto che «gli americani se ne andranno presto» e che prima di allora i suoi devono assolutamente recuperare il favore popolare, per questo ha chiesto al proconsole qaedista in Iraq di astenersi da uccisioni indiscriminate mozzando meno teste possibile: «La metà della nostra battaglia si svolge nel campo dei media». [1]
In Iraq c’è ancora speranza. E molte cose funzionano. Ma nel complesso i motivi di apprensione superano quelli di ottimismo. Per costruire la nazione e reprimere l’insurrezione servono progressi su tre fronti: sicurezza, economia, politica. Michael O’Hanlon: «Rispetto all’estate, l’autunno sembra essere iniziato un po’ meglio ma in realtà le vittime toccano sempre una media di 65-70 morti al mese, la stessa dalla caduta di Saddam. Le altre notizie sono anche peggiori. Le forze di sicurezza irachene hanno perso più uomini negli ultimi cinque mesi che in qualsiasi periodo precedente, con una media di 60 morti la settimana. Settembre ha registrato i record assoluti per gli attacchi con vittime e per le morti tra i civili iracheni. Il tasso di criminalità è il peggiore del Medio Oriente. Le infrastrutture per il petrolio subiscono circa 10 attacchi al mese, più che due anni fa. E, nelle ultime settimane, i ribelli hanno raggiunto una media di 90 attacchi al giorno, la più alta dalla fine del regime. Di positivo ci sono i progressi delle forze di sicurezza irachene: si stanno addestrando circa 30.000 unità per il primo e secondo livello, che prevede una certa loro autonomia e quindi una riduzione delle truppe della coalizione il prossimo anno, se la tendenza continua. Ma l’alto numero di morti indebolisce le forze locali: come se la caveranno se il Paese inizia a sgretolarsi etnicamente e la coalizione a ritirarsi?». [2]
L’economia va meglio. Il Pil è cresciuto in due anni del 50%; gli studenti sono aumentati del 20%; i servizi telefonici raggiungono 4 milioni e mezzo di persone (un milione prima della guerra); acqua potabile e sistemi fognari sono a disposizione della metà della popolazione. Restano tre fattori negativi: disoccupazione altissima (30-35%) e sottoccupazione sul 20-25%; scarsi investimenti e sviluppo dell’imprenditoria locale per mancanza di sicurezza; insufficiente energia elettrica: l’offerta è tornata ai livelli degli ultimi anni di Saddam, ma la domanda è cresciuta tantissimo e i black-out sono continui. [2]
In tale situazione l’Iraq deve per forza puntare sulla politica. O’Hanlon: «Nonostante si siano ribellati agli Usa nel 2004, nonostante la carneficina avvenuta nel loro Paese, gli iracheni erano felici della caduta di Saddam e avevano grandi speranze. Perfino i sunniti mostravano un cauto ottimismo alle elezioni del gennaio 2005: il 40% di loro pensava che le cose stessero migliorando. Purtroppo tutto è cambiato con le violenze della primavera. Ora meno del 50% degli iracheni ha ottimismo per il futuro o fiducia nel governo». [2] Un passo avanti nella riconciliazione nazionale e verso la democrazia potrebbe essere il processo a Saddam Hussein iniziato mercoledì scorso. [3]
Il primo round l’ha vinto (forse) Saddam. Barbara Schiavulli: «Si è capito subito dal modo in cui è entrato nell’aula: dritto, fiero, infastidito e perfettamente capace di trasformare quella che doveva essere una vittoria della giustizia in uno show. Se avesse avuto un guanto lo avrebbe gettato in faccia al giudice e lo avrebbe sfidato a duello». [4] Marcella Emiliani: «Che Saddam Hussein non riconoscesse come legittimo il tribunale iracheno chiamato a giudicarlo era scontato. Quel: ”Chi siete voi? Io sono il presidente!” è degno degli annali ossequienti e drogati della sua defunta dittatura. Saddam recita se stesso e la sua linea difensiva sembra essere tutta qui». [5]
Di solito i despoti deposti la fanno franca. Francesco Battistini: «I colonnelli greci e i generali argentini. Il condor nero Pinochet e il liberiano liberticida Taylor. Il Negus rosso Menghistu e il khmer rosso Pol Pot. Processati, mai uccisi. Graziati con l’ergastolo. Con l’esilio. O con udienze infinite, come quelle di Slobodan Milosevic che da 3 anni e 8 mesi si trascinano nel Tribunale internazionale dell’Aja». [6] Igor Man: «Che si sappia, nel mondo (o universo) islamico, i tiranni sono morti in battaglia ovvero ammazzati da sicari, e persino nel proprio letto, col conforto degli adepti più fedeli e dei più cari familiari. Mai in seguito alla condanna d’un tribunale. Saddam Hussein fa storia a sé». [7]
Processare un capo di Stato mette a dura prova l’ingenuità legale del sistema giuridico. John Keegan: «I processi di tutti i giorni vengono svolti in nome dello Stato, la Repubblica in Francia, o nel nome del potere costituente, il popolo negli Usa, o in nome del governante, la Corona in Gran Bretagna. Praticamente in ogni sistema, perciò, un capo di Stato sotto accusa può rifiutarsi di riconoscere l’autorità della corte, come fece Carlo I di fronte al Parlamento nel 1649. Alla fine la corte semplicemente insistette sulla propria giurisdizione e lasciò il re a protestare invano. Venne condannato a morte il sabato e giustiziato il martedì successivo. Al Parlamento era stato intimato di essere perentorio: ogni rinvio avrebbe concesso tempo: ai dubbi di formarsi, a chi cercava di salvare il sovrano di organizzarsi, alla diplomazia di giocare le sue partite». [8]
Il tribunale di Bagdad ha la ”sindrome di Norimberga”. Antonio Cassese: «Per la prima volta nel 1945-46 leader politici e militari vennero sottoposti a giudizio per i loro crimini. Norimberga servì a documentare le atrocità naziste e il genocidio, ancora non abbastanza conosciuti nel dopoguerra. Servì a scuotere le coscienze di tutti i tedeschi che avevano colpevolmente taciuto o accettato. Servì anche, come fece notare al Presidente Truman il più eminente membro dell’accusa, l’americano Robert Jackson, ad aprire gli occhi agli americani che, non avendo visto la guerra da vicino, non ne avevano vissuto direttamente gli orrori. Ma tutti sanno che Norimberga si macchiò di una grave colpa: vennero processati e puniti solo i vinti. Uno dei 22 imputati riuscì a far parlare dei crimini degli alleati solo di sfuggita. L’ammiraglio Doenitz invocò il principio tu quoque per discolparsi dell’accusa di aver fatto colare a picco dai sottomarini tedeschi le navi commerciali delle Potenze alleate senza previo avvertimento, e di non aver salvato i naufraghi; egli dunque abilmente fece interrogare dalla corte l’ammiraglio statunitense Nimitz, il quale ammise che anche gli americani si erano comportati nello stesso modo». [9]
giusto processare gli ex dittatori? Cassese: «Se il dittatore non è morto a seguito del conflitto che ha portato alla sua destituzione, se non è fuggito, l’alternativa al processo è solo l’esilio. Ma in casi come questo di crimini gravissimi l’esilio non è sufficiente, l’ex dittatore va processato. Ma, attenzione, il processo va celebrato non solo contro l’ex dittatore, lo sconfitto: deve concludersi con la pronuncia su tutti i crimini commessi da chicchessia. Da questo punto di vista, getta una pesante ombra sul processo contro Saddam l’articolo 14 dello Statuto che prevede che il Tribunale possa pronunciarsi sull’aggressione contro un paese arabo, quindi il Kuwait, ma non contro l’Iran, che non è considerato un paese arabo, anche se di religione musulmana. Perché due pesi e due misure? L’aggressione all’Iran, sappiamo bene, fu sponsorizzata dall’occidente...». [10]
La strategia della difesa di Saddam è questa: alzare un polverone di responsabilità che ricada in qualche modo sugli Stati Uniti. Colpevoli prima di aver rifornito di armi l’Iraq di Saddam, poi di aver invaso il paese alla ricerca di fantomatiche armi di distruzione di massa. Schiavulli: «E non si escludono colpi di scena. Per esempio, la richiesta da parte dei difensori dell’ex dittatore che si presentino in tribunale testimoni eccellenti. Come il segretario alla Difesa statunitense Donald Rumsfeld, l’ex amico americano che non aveva disdegnato in passato di stringere la mano a Hussein». [11] Jacques Vergès, «avvocato del diavolo» noto per aver difeso il nazista Klaus Barbie, il terrorista Carlos, Milosevic ecc.: «Dubito che si riuscirà a parlare del sostegno di Paesi occidentali a Saddam, delle forniture americane di armi chimiche e biologiche, della complicità nei crimini attribuiti al regime. I consulenti americani hanno già scritto la sceneggiatura». [12]
Il processo Saddam è diverso dal processo Milosevic. Vergès: «All’Aja è illegale il tribunale, ma Milosevic può difendersi, la stampa è informata, gli avvocati denunciano la presentazione di testimoni anonimi e i giudici rispettano almeno le forme del processo. In queste condizioni, Milosevic ha già vinto, perché ha smontato il grande show degli americani». [12] Vittorio Zucconi: «I registi washingtoniani avevano respinto ogni ipotesi di un tribunale internazionale come quello che sta trascinando all’infinito il processo a Slobodan Milosevic proprio per evitare che l’impenitente ”Rais” potesse giocare tra i cavilli». [13] Battistini: «Le due sbarre si somigliano perché, dietro, ci sono due dittatori che disprezzano chi li giudica. Ma solo per questo: Saddam rischia la pena di morte, Milosevic no; l’ex raìs ha un avvocato, Slobo si difende da solo; Bagdad brucia, Belgrado fuma; il sunnita ha 7 coimputati e dovrà discolparsi per una strage sola, il serbo è accusato con altri 125 e ha già parlato 14.521 minuti per respingere 66 imputazioni, contrastare 295 testimoni, spiegare tre guerre». Il ”Wall Street Journal” ha scritto che proprio «l’esperienza Milosevic ha insegnato a concentrarsi su pochi eventi-chiave della dittatura Saddam». [6]
Saddam e i suoi sono sotto accusa per una strage avvenuta nel villaggio di Dujail l’8 luglio 1982. Il conflitto con Tehran, iniziato da appena diciotto mesi, stava volgendo al peggio, con la minaccia di uno sfondamento iraniano delle linee irachene, anche grazie al sostegno dato al nemico dai movimenti curdi e sciiti che durante la primavera-estate di quell’anno avevano provocato sollevazioni in varie città del sud aprendo un vero e proprio ”fronte interno”. Quella mattina Saddam Hussein aveva deciso di fare uno dei suoi giri di propaganda, alla periferia di Dujail il convoglio di auto presidenziali venne attaccato. [14] Michele Farina: «Gli assalitori avevano mirato all’auto che era appena stata regalata al raìs dai maggiorenti del villaggio. Come tradizione, la carrozzeria era marcata con il sangue fresco dei montoni sgozzati in onore dell’ospite. Ma all’ultimo momento Saddam non si fidò e cambiò auto. Si salvò. E decise di vendicarsi alla sua maniera. Dopo un’ora, già gli elicotteri sparavano sugli orti: 900 abitanti, tra cui vecchi e bambini, furono deportati in un lager in mezzo al deserto al confine con l’Arabia Saudita; 143 persone furono impiccate in segreto ad Abu Ghraib al termine di un finto processo». Dujail non è Halabja, dove 5 mila curdi morirono gasati, ma grazie ai documenti ritrovati nel quartier generale della polizia segreta è la strage per cui sembra più facile da provare la ”catena di comando” che inchioda Saddam. [15]
La sentenza, si dice, è scontata. Zucconi: «La punizione, che sarà l’impiccagione (proprio come a Norimberga) vorrà essere contemporaneamente di condanna per il ”barbaro tiranno” e di implicita assoluzione per chi lo ha rovesciato». [13] Il ”New York Times” ha scritto che una pena è già stata inflitta: il processo è la vendetta di curdi e sciiti contro i sunniti e «l’occasione d’una riconciliazione nazionale è stata dissipata prima ancora che entrasse la corte». Battistini: «Meglio andare presto alla sentenza, allora. E decidere che fare, di questo Saddam: un destino alla Napoleone o una fine alla Ceausescu? Esiliarlo e dimenticarlo in una prigione lontana, ”come fecero le potenze mondiali con l’aggressore Bonaparte” (tesi di Paul Kennedy, storico americano, Università di Yale)? O meglio ”decapitarlo secondo la legge islamica” (opinione di Amir Taheri, scrittore iraniano) e soprattutto ucciderlo subito, come fecero i rumeni col Conducator, l’unico dittatore della storia recente processato e giustiziato?». [6]
Sono molti quelli che vorrebbero impiccare l’ex dittatore. Bernardo Valli: «Se Saddam si dissolvesse nel nulla anche il miraggio cui guarda l’insurrezione armata svanirebbe. quel che immaginano molti iracheni affamati di pace. Insieme all’illusione di un possibile ritorno del raìs sanguinario si spegnerebbe la violenza. Nelle leggende muore il mostro e finiscono i suoi malefici. Qui, scomparso Saddam, dovrebbe finire la guerra civile e ritornare la pace. Tutto questo assomiglia a un sogno. La realtà è un’altra. Saddam è un incubo e un simbolo. Guerriglia e terrorismo hanno radici concrete, indipendenti da lui». [16] Man: «Condannandolo a morte, il TSI ne farebbe certamente un martire da leggenda. Al processo lo si lasci dunque parlare, senza timore: le colpe dell’Occidente che se ne servì (male) per far fuori Khomeini le conosciamo, le abbiamo già metabolizzate e non ci sono ”documenti” compromettenti in giro come quelli (presunti o veri) con cui Mussolini, se processato, avrebbe messo in imbarazzo qualche grande leader anglosassone (e dunque si pensò bene di impedirgli di parlare)». [7]
Qualunque ragionamento giuridico si farà sulla legalità di questo processo, Saddam rimane indubbiamente un criminale. Keegan: «Un capo di Stato come Saddam, che combinava la tirannia contro il proprio popolo, l’aggressione contro i vicini e la sfida all’ordine internazionale, non si è visto nel mondo dalla morte di Hitler. Da questo punto di vista, si tratta di un secondo Hitler che si merita la sorte che gli Alleati nel 1945 avevano preparato al dittatore nazista. Studiosi del diritto internazionale hanno sempre avuto i loro dubbi sulla legalità in senso stretto del processo di Norimberga. Per fortuna, l’opinione popolare - il giudizio dell’uomo della strada - ha sempre riconosciuto che i favoriti di Hitler ebbero quello che si meritavano. L’importante è fare in modo che anche l’uomo della strada contemporaneo ritenga meritato il verdetto a Saddam». [8]