Corriere della Sera 13/10/2005, pag.38 Sergio Romano, 13 ottobre 2005
Palazzo Koch: una casa pubblica in mano ai privati. Corriere della Sera 13 ottobre 2005. Le scrivo su un tema molto dibattuto: la Banca d’ Italia e il suo governatore
Palazzo Koch: una casa pubblica in mano ai privati. Corriere della Sera 13 ottobre 2005. Le scrivo su un tema molto dibattuto: la Banca d’ Italia e il suo governatore. Dodici anni fa circa, nell’ Italia funestata da Tangentopoli, cominciò un processo che portò alla cessione delle principali aziende statali a privati. Tra le aziende vendute figurava anche l’ istituto di palazzo Koch che fu spartito tra i principali gruppi bancari italiani con la giustificazione che la vendita ne avrebbe garantito l’ indipendenza. Oggi ci troviamo in una situazione paradossale: il controllore (la banca centrale) appartiene ai controllati (le banche) con un evidentissimo conflitto d’ interessi. A questo punto mi domando se in uno Stato democratico si può tollerare che la politica economica venga decisa da un organismo indipendente dagli elettori anziché dal governo liberamente scelto dai cittadini. Domenico Napolitano domenico.napolitano@ gmail.com Caro Napolitano, non sono un economista e corro anch’ io il rischio di incorrere, come lei, in qualche errore, ma proverò a mettere un po’ d’ ordine nelle sue idee sulla Banca d’ Italia e a spiegarle, tra l’ altro, che palazzo Koch non è mai stato venduto. La riforma delle banche pubbliche risale al 1990 e fu opera di una legge che porta il nome di Giuliano Amato e Guido Carli. Il primo l’ aveva avviata con un progetto del 1988 quando era ministro del Tesoro nel governo De Mita, e il secondo la completò quando gli succedette nel governo Andreotti del 1989. Nel corso del dibattito parlamentare Carli ricordò che la trasformazione delle banche in società per azioni era indispensabile per consentire al sistema bancario italiano di sostenere l’ urto di una concorrenza europea destinata a divenire sempre più insistente. Negli anni seguenti le tappe successive del processo ebbero l’ effetto di cambiare l’ assetto della Banca d’ Italia. I proprietari erano gli stessi, ma erano divenuti privati. Si trattò, per certi aspetti, di un ritorno al passato. La legge del 10 agosto 1893, approvata dal Parlamento per iniziativa di Giovanni Giolitti dopo il grande scandalo della Banca Romana, aveva creato una «banca delle banche» autorizzando la fusione della Banca nazionale nel Regno con la Banca nazionale toscana e con la Banca toscana di credito per le industrie e il commercio. Nacque così una specie di centauro, mezzo pubblico, mezzo privato. Aveva il diritto di emissione, ma la facoltà di stampare banconote fu condivisa per qualche tempo con due banche meridionali, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Aveva un organo di amministrazione composto dagli istituti proprietari a cui spettava la designazione dei suoi dirigenti. Ma le nomine diventavano valide soltanto dopo l’ approvazione del Governo. Il carattere pubblico prevalse rapidamente. Nel 1894 la Banca d’ Italia fu incaricata del servizio di tesoreria provinciale dello Stato e negli anni seguenti divenne progressivamente supervisore del sistema bancario e finanziario nazionale. I passaggi decisivi furono due grandi leggi bancarie. Quella del 1926, adottata dopo la liquidazione della Banca Italiana di Sconto (1921) e il salvataggio del Banco di Roma (1925), concentrò il diritto di emissione nell’ istituto di via Nazionale e gli conferì con maggiore precisione il compito di vigilare sul sistema bancario. Quella del 1936, approvata dopo la grande crisi e la creazione delle Banche d’ interesse nazionale, finì per estromettere i privati dal Consiglio di amministrazione dell’ istituto. Il capitale della Banca d’ Italia fu allora suddiviso in quote e distribuito fra Banche d’ interesse nazionale, Casse di risparmio, istituti d’ interesse pubblico, compagnie di assicurazione e istituti di previdenza. Le due leggi furono approvate durante il fascismo, ma Mussolini dette prova di molto buon senso. Come osservano Giuseppe Guarino e Gianni Toniolo in una importante raccolta di documenti pubblicata da Laterza nel 1993, il capo del governo ascoltò attentamente i consigli di Bonaldo Stringher, Giuseppe Volpi, Alberto Beneduce, Donato Menichella, Pasquale Saraceno. Quando si parlò all’ Assemblea costituente delle cose fatte in periodo fascista, Meuccio Ruini disse: se il fascismo ha costruito buoni ponti sul Tevere, occorre utilizzarli, non abbatterli. Uno di questi «buoni ponti» fu, per l’ appunto, la Banca d’ Italia. Da allora, caro Napolitano, la Banca è rimasta un grande istituto pubblico in cui i proprietari, anche quando sono diventati nuovamente privati, hanno avuto, a mio avviso, un ruolo formale. Oggi, dopo la discussa politica del suo governatore, occorrerà probabilmente rivedere il suo assetto e chiedere agli istituti privati di farsi da parte. Ma sarà necessario rimborsare le loro quote e trovare un compratore pubblico: un’ operazione, come ha spiegato più volte Massimo Mucchetti nel Corriere della Sera, su cui le idee sono ancora molto confuse. Sergio Romano