Varie, 20 ottobre 2005
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LIBBY Lewis New Havens (Stati Uniti) 22 agosto 1950. Politico. «L’inseparabile capo di gabinetto di Cheney, denominato ”Scooter” per la sua straordinaria capacità di lavoro» (’La Stampa” 20/10/2005) • «"Guilty"
LIBBY Lewis New Havens (Stati Uniti) 22 agosto 1950. Politico. «L’inseparabile capo di gabinetto di Cheney, denominato ”Scooter” per la sua straordinaria capacità di lavoro» (’La Stampa” 20/10/2005) • «"Guilty". Colpevole di quattro dei cinque capi di imputazione. Di spergiuro e ostruzione del corso della giustizia. Il verdetto che consegna a una galera federale Lewis ”Scooter” Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente degli Stati Uniti, il ”Dick Cheney di Dick Cheney”, scioglie ogni ragionevole dubbio su una menzogna mai messa in discussione neppure da chi, essendone accusato, sosteneva di non doverne rispondere per umana e giustificabile smemoratezza. Libby - ha deliberato [...] una giuria di sette donne e quattro uomini dopo dieci giorni di camera di consiglio - non si è smarrito nella confusione di una memoria fiacca. Tacendo il proprio ruolo e dissimulando la fonte delle proprie informazioni, ha consapevolmente mentito a un gran giurì incaricato di individuare chi e perché avesse bruciato l’identità di un agente coperto della Cia, Valerie Plame. Lo ha fatto per proteggere se stesso e la Casa Bianca dalle responsabilità di una campagna di aggressione concepita, nell’estate del 2003, per coprire la manipolazione delle ragioni della guerra in Iraq. Per punire chi quelle manipolazioni aveva pubblicamente denunciato, l’ex ambasciatore americano Joseph Wilson, marito dell’agente Valerie Plame. E tuttavia non è nel merito (in qualche modo atteso) del suo epilogo giudiziario che l’affare riassume o esaurisce la sua sostanza. Perché il criminal case 05-394, il feroce rito di degradazione politica che, per cinque settimane, si è consumato nell’aula numero 16 della ”E. Barrett Prettyman Us court house” di Washington, non è stato il semplice redde rationem con un accusato di spergiuro. Il cuore del processo Libby è in ciò che apparentemente è stato lo sfondo e il contesto del giudizio. nel convitato di pietra che lo ha abitato - il vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney - e alla cui testimonianza la difesa Libby ha ritenuto di dover rinunciare per l’insostenibile costo giudiziario (il rischio di ”auto-incriminazione”) e politico che avrebbe rappresentato per la Casa Bianca. in quel che hanno documentato, in modo nitido, diciannove testimoni e centinaia di pagine di documenti declassificati di Cia, Casa Bianca, Dipartimento di Stato sul cosiddetto ”Nigergate”. Sulla catena di eventi che, tra l´autunno del 2002 e l’estate del 2003, prima sostennero la menzogna a fondamento della guerra in Iraq (il riarmo nucleare di Saddam Hussein) e quindi alimentarono la campagna di manipolazione che di quella menzogna avrebbe dovuto coprire le responsabilità e di cui Libby sarebbe stato soltanto uno dei protagonisti. Il più malaccorto o, forse, il più sfortunato. Il processo ha potuto documentare le pressioni sulla Cia del vicepresidente Dick Cheney perché non rimanesse lettera morta l’intelligence fasulla accreditata nell’autunno 2001 dal controspionaggio militare italiano, il Sismi, secondo cui l’Iraq di Saddam avrebbe negoziato con il Niger una fornitura di 500 tonnellate di uranio grezzo (yellowcake). Pressioni capaci di creare imbarazzo prima, sudditanza e conformismo poi, e comunque tali da consentire alla frottola di farsi strada nelle ormai famose 16 parole pronunciate da George W. Bush nel suo discorso sullo stato dell’Unione. Gli appunti autografi, i report e le e-mail di Craig Schmall, l’agente di Langley addetto al quotidiano briefing con il vicepresidente degli Stati Uniti hanno confermato che quel ”falso” aveva un’unica fonte. E che quella fonte non erano né i servizi inglesi, né i francesi, ma ”il servizio segreto estero” che quella bufala aveva accreditato in origine (il Sismi). Hanno svelato come la genesi e gli esiti di quel ”falso”, nell’estate del 2003, fossero diventati un’ossessione per la Casa Bianca. Soprattutto quando il segreto che avrebbe dovuto proteggerli era stato scoperchiato da Joseph Wilson, l’ex ambasciatore che, spedito in Niger, aveva potuto verificare la grossolana falsità dell’intelligence arrivata da Roma. Marc Grossman, ex sottosegretario di Stato, ha riferito sotto giuramento che a metà giugno del 2003, ben tre settimane prima di svelare con un editoriale sul New York Times il suo ruolo nella vicenda dell’uranio nigerino, l’ambasciatore Wilson è già obiettivo della Casa Bianca. Dick Cheney chiede a Libby di raccogliere ogni brandello di informazione che consenta di ricostruire il suo viaggio in Niger, che identifichi chi, alla Cia, lo ha individuato come l’uomo adatto a verificare l’intelligence sull’uranio. E Libby ottiene proprio da Grossman una risposta a stretto giro. A Langley - è l’informazione - chi ha scelto Wilson per la missione in Africa è stata Valerie Plame, agente assegnata all’unità armi di distruzione di massa e moglie dell’ex ambasciatore. una notizia eccellente, capace di demolire la reputazione dell’ex ambasciatore e mettere in imbarazzo la Cia, cui la Casa Bianca imputa il fiasco dell’intelligence sulle armi di distruzioni di massa e a cui è intenzionata ad accollare anche il costo politico della bufala nigerina. Soprattutto, è notizia di cui Libby trova una solida conferma anche altrove. Il capo di gabinetto di Cheney discute infatti di Wilson e Valerie Plame l’11 giugno con Robert Grenier, all’epoca numero tre della Cia e, pochi giorni dopo, con Craig Schmall. Alla Casa Bianca si può mettere in moto la macchina del rumore che deve avvolgere Wilson in una nuvola di discredito utile a far dimenticare la sua verità sull’uranio nigerino. Tra la seconda metà di giugno e gli inizi di luglio del 2003 - documenta il processo - insieme a Libby, almeno altri tre uomini chiave dell’Amministrazione si preoccupano di disseminare l’informazione che deve bruciare l’identità di Valerie Plame. Richard Armitage, allora sottosegretario di Stato, e Karl Rove, allora consigliere politico del presidente Bush e sua ”linfa vitale” (la definizione è dell’avvocato di Libby), la soffiano al columnist Robert Novak. Armitage si ripete con Bob Woodward del Washington Post. Ari Fleischer, allora portavoce della Casa Bianca, ne discute con Libby e fa in modo che il gossip entri in circolo e si depositi nel ”press corp” della Casa Bianca (ammette la circostanza durante il processo in cambio dell’immunità che gli viene riconosciuta). Libby si spende con Judith Miller del New York Times e Matthew Cooper di Time. un’operazione di spin imponente, che raggiunge e incenerisce il bersaglio a mezzo stampa, governata dalla regola non scritta ma bene accetta che trasforma l’informazione in comunicazione, annullandone la funzione pubblica di controllo, che piega il cronista a strumento consapevole in balia della propria fonte, di cui accetta di raccogliere e veicolare la disinformazione impegnandosi a proteggerne o, peggio, dissimularne l’origine. Il giornalismo ne esce in pezzi e il processo, nel farsi specchio di questo annullamento, diventa testimone impietoso di una galleria di imbarazzate ammissioni, con premi Pulitzer costretti ad ammettere di aver abdicato al proprio ruolo (la Judith Miller in primis, come lo stesso Woodward) [...] aprendo il dibattimento, Patrick Fitzgerald, il procuratore speciale che ha sostenuto la pubblica accusa, aveva abilmente chiesto ai giurati di dimenticare che questo fosse un processo alle ragioni della guerra in Iraq. Ma sapeva che non poteva non esserlo [...] commentando la sentenza, ha fatto sapere ciò che sin qui aveva taciuto. Che quello Libby resterà il solo processo. Nel ribadire infatti che quanto accertato ”allunga una nube sulla Casa Bianca”, il prosecutor ha aggiunto che non è sua intenzione e potere diradarla. Perché, nonostante si conoscano ora le identità di coloro che per primi ”soffiarono” alla stampa il nome della Plame (Karl Rove e Richard Armitage), ”non ci saranno nuove inchieste, non verranno formalizzate nuove incriminazioni” [...]» (Carlo Bonini, ”la Repubblica” 7/3/2007) • «[...] la sua condanna apre naturalmente più domande di quante risposte dia: mentiva e ostruiva per coprire chi, questo Libby, se non Cheney e tutta la Casa Bianca? Questo processo, che i pretoriani dell’amministrazione, intuendone bene il rischio politico, avevano cercato di licenziare e minimizzare come un ”Nothingate”, una scandalo di nulla, era partito dal caso celebre della ”polvere gialla”, dall’uranio che Bush accusò Saddam di avere cercato per dotarsi di armi atomiche. Dal panico scatenato dentro la Casa Bianca, e in particolare nell’ufficio dell’onnipotente vice Dick Cheney, per coprire le tracce di questa e altre bufale viste come il filo tirato che può disfare tutta la calza, nasce la vicenda Libby, il classico caso del samurai chiamato a gettarsi sulla spada per salvare il padrone. L’ironia di questa indagine e di questa condanna sta nel fatto che lo scandalo che accese la miccia, la fuga del nome dell’agente Cia, Valerie Plame, moglie del diplomatico inviato a indagare sull’Uranio nigerino, non produsse mai un’incriminazione né costituì un reato. La prima fonte per quel nome spifferato ai giornali risultò addirittura essere non uno dei cortigiani di Bush e Cheney, ma un loro rivale, il vice di Powell al Dipartimento di Stato, Richard Armitage. Ma le indagini ufficiali avevano mosso la coda di paglia che avrebbe scosso la presidenza. Nel terrore che gli interrogatori e le indagini svelassero gli altarini di una presidenza in lotta con sé stessa e in guerra interna contro le altre istituzioni dell’esecutivo, come la Cia o il Dipartimento di Stato dietro la facciata della militaresca, volitiva unanimità, al piccolo Libby, soprannominato ”Scooter” dal padre per la sua vivacità, fu chiesto di mentire, negare, evadere, coprire, bloccare le indagini, impedire che la calza si smagliasse. E alla fine, come sempre accade nei grandi affaire americani, dal Watergate al Monicagate, non fu il peccato, ma l’ansia di nasconderlo, a perdere il peccatore. Libby non mentiva per proteggere l’autore di una fuga di notizie. Mentiva per nascondere quel viluppo di bugie e di complicità intestine nelle quali la Casa Bianca era avvinghiata. La condanna di Libby è quindi la pietra tombale su una bizzarra, e in ultima analisi tragica, stagione della storia americana sconvolta dallo shock dell’11 settembre, la fine di una cabala di personaggi, di intellettuali veri, di garruli magliari, di profittatori, che avevano trovato in quel giorno il trampolino dal quale lanciarsi a rifare il mondo a propria immagine e accrescere il proprio potere, in un trip di onniptenza e di autoreferenzialità i cui frutti dolorosi cogliamo ogni giorno. I teorici del ”nuovo secolo americano”, tra i quali Libby, avevano trovato nello smarrimento e nella fragilità di Bush e nella cupa determinazione di Cheney gli strumenti per sperimentare la propria dottrina dei ”cambi di regime” a piacimento, in una versione moderna e ancora più violenta del ”Great Game”, del grande gioco dell’impero britannico, giustificata dalla nuova missione civilizzatrice dell’uomo bianco contro il terrore islamico. Con un’ostinazione autistica e supponente che le radici culturali trotskyste dei neocon tradivano, Wolfowitz e Feith al Pentagono, Libby e Abrams alla Casa Bianca, Pearle negli snodi del complesso militar indistriale, Kristol, abile piazzista dal megafono dei mass media, avevano invaso i nodi linfatici del potere, combattendo una guerriglia interna contro chi osava opporsi, dal Dipartimento di Stato e dalla Cia. [...]» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 7/3/2007).