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 2005  ottobre 13 Giovedì calendario

Pupo. Corriere della Sera 13/10/2005. «Non so ancora per chi voterò il 9 aprile prossimo. Certamente, non lo dico e non lo dirò

Pupo. Corriere della Sera 13/10/2005. «Non so ancora per chi voterò il 9 aprile prossimo. Certamente, non lo dico e non lo dirò. Mi sono esibito, come artista, in tutte le feste: dell’Unità, dell’Amicizia, di An. Non sapevo neppure per chi cantavo. Non ho mai usato la politica, né ho mai avuto niente dalla politica: hanno fatto tante chiacchiere su di me, hanno anche detto che ero di destra... Il mio primo voto lo diedi alla Dc, quella vera. Avevo appena preso la patente, mi offrirono 250 mila lire, una cifra altissima per un ragazzo, per fare pubblicità ad Amintore Fanfani: dovevo girare con la 850 special di mio padre per un mese con i cartelli e il megafono sul tettino. Alla fine, per Fanfani fu un tonfo e non mi restituirono neppure i soldi della benzina. Così, votai a lungo per il Psi, poi per Emma Bonino, e poi... La mia famiglia era di centro, mio suocero moriva d’amore per Enrico Berlinguer, sono toscano e ho vissuto sempre fra i rossi. Quelli di una volta, i vecchi compagni, li stavo ad ascoltare ammirato. Da qualche anno, però, la sinistra italiana è diventata snob. Se non vincerà, è per la troppa superbia: a me, mi hanno sempre trattato come un essere inferiore, come se i miei tre milioni di dischi venduti li avessero comprati degli italiani di serie B, inguardabili e da cancellare. Sai chi non sopporto? I radicalchic. Sai cosa ha detto il professor Roberto Zaccaria, l’ex presidente della Rai, di me? Che avrei portato la trasmissione al disastro. E Sandro Curzi, che poi gentilmente mi ha chiesto scusa, mi definiva "la prova vivente che la Rai era stata svenduta", ma il peggio è stato un giornalista di Repubblica che mi ha bollato come "avanzo di Sanremo" e "scarto dell’Isola dei famosi". Per fortuna, il presidente Claudio Petruccioli, che non conosco ancora, mi ha fatto i complimenti al telefono». Senza studiare sociologia, frequentando night, balere, festival musicali e molte case da gioco, Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, è arrivato alle stesse conclusioni del professor Luca Ricolfi, autore del saggio più recensito e citato nelle ultime settimane («Perché siamo antipatici, la sinistra e il complesso dei migliori», Longanesi). Se c’è un leader televisivo di quegli italiani a cui stanno sulle scatole gli intellettuali, i film difficili, i libri faticosi, le trasmissioni colte, eccolo qui. Con un certo coraggio, il mio interlocutore assicura: «Mi annoiano i libri, i film, la televisione, i concerti. Per tanti anni, ho cercato emozioni diverse. La più forte? Battere un banco di chemin de fer, al casino di Saint Vincent, di 130 milioni. Perdere in tre secondi una cifra con cui, allora, si compravano tre appartamenti, quella sì che è stata un’emozione». Dopo la prima mano negativa in quel poker televisivo che si chiama Auditel e che gli ha dato una visibilità in cui è felice di riconoscersi, Pupo mi accoglie in uno dei più lussuosi alberghi dei Parioli, davanti al parco del giardino zoologico. Vive qui da 20 anni, «perché mi fanno un trattamento speciale, pago pochissimo e siamo amici» si giustifica il nuovo re del «prime time», quella mezz’ oretta magica in cui le reti televisive incassano quasi metà del fatturato pubblicitario complessivo. I suoi pacchi, da domani, diventeranno anche uno show di prima serata e i protagonisti saranno intere famiglie e paesi in lizza. Stasera, però, non è di spettacolo che questo ragazzo cinquantenne ha voglia di parlare. Vuole raccontare quanto è stato duro tornare al successo dopo una serie di alti e bassi spaventosi. Lo vuole spiegare a quegli altri, quelli che non fanno parte del popolo dei suoi ammiratori, a quelli che non hanno mai seguito – né lo faranno mai – il suo programma. Tutto comincia in quel di Ponticino, Arezzo, l’11 settembre del 1955. Il padre, Fiorello, fa il postino e sogna per il figlio un futuro da avvocato. Gli zii materni, i fratelli Bozzi, socialisti, suonano nei night con la loro orchestrina e tengono d’occhio il nipote burlone che imita il bidello. Nel 1974, Enzo mette incinta la futura moglie Anna, la sposa, smette di studiare e parte militare. Destinazione: Orvieto, fanteria, reparto assaltatori: «Ci prendevano perché eravamo piccini, dovevamo esercitarci a entrare nei tubi, infilarci dappertutto». In quegli anni, i ragazzi che amavano la musica leggevano Ciao 2001, rivista cult dell’ epoca. Enzo risponde a un annuncio così concepito: «Se non siete dei cani e avete qualcosa da dire, presentatevi a Milano, piazza della Repubblica, alla casa discografica Baby Records». «Arrivammo in centinaia, uno dopo l’altro cantavamo davanti a Freddy Naggiar, un tipo geniale, uno che oggi ha due castelli e passa il tempo a pescare salmoni in Scozia. Fu lui a dirmi, scusa la volgarità, che le mie canzoni facevano cagare, ma, aggiunse "mi piace la tua vocina del cazzo". Fu sempre lui a inventare per me il nome d’arte: Pupo, disse, perché dimostri 15 anni». Il successo, le prime canzoni, i festival vincenti, i milioni, «nel 1980 ne avevo 400 alla banca Toscana di Ponticino, compravo Mercedes in contanti, ero arrogante, adoravo gli adulatori, feci licenziare mio padre dalle poste dieci anni prima della pensione rendendolo infelice, vivevo come in un sogno». Il tonfo, nel 1983: da un milione di dischi l’anno a 15 mila, «mi ero messo in proprio, in un delirio di onnipotenza che mi ha portato nel baratro. Ero al casino tutte le sere, bruciavo il fido concesso ai giocatori abituali in pochi minuti, poi arrivavano gli strozzini, quelli che ti chiedono un 10% di interesse al giorno. Una sera a Venezia stavo per suicidarmi, come ho raccontato nel mio libro («Banco solo», Gremese editore). Ho dovuto vendere tutto quello che avevo comprato: un albergo, una fattoria con 20 ettari, una società orafa, le case. Oggi, però, non sono un pentito: giocare è divertente, è come rinascere ogni giorno. Da due anni, con fatica, provo a resistere alla tentazione. Il direttore generale della Rai, Alfredo Meocci, mi ha chiesto di invitare il pubblico a non giocare, è giusto». Ateo, «non credo in Dio e non ho superstizioni, né amuleti. E’ stato Umberto Chiaramonte, il mio giovane manager, a ricostruire, con pazienza, la mia immagine». Un lavorone: dire di no ai reality, snobbare le comparsate trash, rinunciare a tanti soldi. Continuando a chiamarsi Pupo. Un nome, un destino, o un incubo? «A volte, è stato come una condanna preventiva. Nel 1992, lo rinnegai e mi presentai a Sanremo come Enzo Ghinazzi, poi Mogol mi disse: "Hai sbagliato, ormai tu sarai sempre Pupo. Fregatene di quelli che ti giudicano per il nome"». Il cinquantenne di oggi ringrazia molto «Maurizio Costanzo, che mi invitò ad una confessione pubblica sul mio vizio, Gianni Morandi, che mi portò al suo spettacolo quando non mi voleva nessuno, Paolo Bonolis, che mi volle nella sua "Domenica In" e, più di tutti, Fabrizio del Noce che mi chiamò mentre ero sotto la doccia per chiedermi: "Ti do tre secondi per dirmi se condurrai Affari Tuoi". Io, col telefonino gocciolante, risposi subito di sì, mi sentii come mi ero sentito tante volte al tavolo verde. Sapevo che potevo farcela, anche se la partita è solo all’inizio e nessuno come me sa che tutto può cambiare improvvisamente. Anche io ho vinto qualcosa, dopo due ore di Pupo-story,: una maglietta nera, con su scritto, sul davanti "Forza Pupo, abbasso i pupazzi" e sul dietro,"per una televisione senza la raccomandazione". Serie esclusiva, 100 esemplari, la mia è la numero 83». Barbara Palombelli