Varie, 16 ottobre 2005
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DiRuscio Luigi
• Fermo (Ascoli Piceno) 27 gennaio 1930, Oslo (Norvegia) 23 febbraio 2011. Poeta. Emigrato a Oslo nel 1957, lavorò per decenni in fabbrica. Le sue prime raccolte poetiche (Non possiamo abituarci a morire, 1953, e Le streghe s’arrotano le dentiere, 1966) sono state raccolte nel volume Firmum (Pequod, 1999) • «[...] Il parlato di Di Ruscio assomiglia alle sue partiture in versi e in prosa, incandescenti e a getto continuo, riguardo alle quali si sono fatti tante volte i nomi di Hasek e Céline (vedi anche una lettera del 1969 di Italo Calvino ora nel ricco sito internet www.luigidiruscio.com). [...] Di Ruscio è noto per due titoli (Non possiamo abituarci morire, 1953, ritenuto un capolavoro del neorealismo poetico, e il romanzo picaresco Palmiro) ma, pur non avendo avuto mai accesso alle grandi tirature, ha goduto nel tempo di lettori sceltissimi, da Franco Fortini a Salvatore Quasimodo, da Antonio Porta a Giancarlo Majorino. [...] “Non sento unitario il mio lavoro di poeta, o meglio io l’ho diviso, e lo sento diviso, in due parti, quello degli anni cinquanta e sessanta che si chiude con Firmum e poi un altro che comincia con Apprendistati e Istruzioni per l’uso della repressione, risalenti agli anni settanta. Da una parte cioè ci sono poesie relative a un paese, il mio paese che è Fermo, dall’altra invece le poesie di un’esperienza più attuale, con la fabbrica di oggi, la grande città che è Oslo. Per esempio le poesie di Istruzioni per l’uso della repressione le ho quasi scritte di getto, avevo poco tempo per darle a Giancarlo Majorino che allora dirigeva una collana di poesia per l’editore Savelli, con Roberto Roversi: l’ho scritto velocemente ma è anche la raccolta alla quale sono più attaccato sia perché ho fatto meno fatica sia perché ci sono un sacco di ricordi della famiglia, dell’incontro con la fabbrica, e poi il gran casino della repressione di allora, il caso Moro e le Brigate rosse... Antonio Porta mi disse che il titolo vero della raccolta avrebbe dovuto essere Istruzioni per l’uso della ‘depressione’. Lavoravo in fabbrica, avevo pochissime ore per scrivere, la sera tornando a casa mi mettevo davanti alla macchina da scrivere e quasi sempre i primi versi erano insignificanti, però poi pian piano arrivavo al nucleo forte, come se fosse una seduta psicoanalitica, come se io mi suscitassi da me le domande partendo da una frase insignificante, a un certo punto scattava qualcosa che sta nel profondo, e così la poesia veniva da sé, sempre dopo otto o dieci versi di completa insignificanza. Adesso invece lavoro su poesie molto corte, molto veloci, epigrammatiche, imito un po’ le scritte sui muri, i graffiti, qui a Fermo per esempio ho trovato una scritta bellissima ‘Ciao terra, è iddio che vi saluta’... Forse ormai è il fatto che quando mi arriva un libro di poesia, le poesie lunghe non le leggo mai, vado sempre a leggere quelle corte. [...] la poesia va per le corte e la prosa va per le lunghe. Palmiro ho cominciato a scriverlo negli anni cinquanta, quando stavo ancora a Fermo, verso il 1954-’55: trovai un mucchio di manifestini nella sezione del Partito comunista, me li portai a casa e cominciai a scrivere, poi dovendo emigrare me li dimenticai e dopo vent’anni li ritrovai in soffitta dove li aveva messi da parte per me mia madre; me li sono riportati in Norvegia, a Oslo, e in pochi mesi ho scritto Palmiro, il mio romanzo di formazione di giovane comunista a Fermo. Adesso invece lavoro così per la prosa: normalmente lo spunto parte da una lettera che mi arriva, io preparo la risposta ma questa risposta di solito va fuori degli argini, viene fuori un casino, non la posso spedire e così la metto nel computer fra i ‘documenti’ e la lascio accumulare; in questo modo è nato Le mitologie di Mary, controllando fra tutti i documenti archiviati tutte le pagine in cui c’era la parola ‘Mary’, poi li ho organizzati e stampati come fossero un mosaico. E Mary mia moglie continua dirmi ‘scrivi, scrivi, che tanto io non lo leggerò mai...’, perché lei non sa l’italiano... È chiaro comunque che, rispetto alla poesia, nella prosa si può passare più facilmente dal tragico al comico, si possono fare dei salti, invece nella poesia è tutto quanto più raffreddato. Oppure è così: quando una cosa viene molto bene, resiste da sola, è autosufficiente, quella è poesia, quando una cosa invece non resiste da sola e c’è bisogno di una discussione, di una spiegazione, quella invece è prosa. [...] La questione della poesia ‘operaia’ mi fa venire in mente la questione della poesia ‘marchigiana’. Sì, molti anni fa c’era una rivista che mi dava spazio, ‘Abiti-lavoro’, e così con l’etichetta della poesia operaia io utilizzavo quello spazio. Lo stesso è avvenuto per la poesia marchigiana, che pure quando stavo ancora a Fermo e incontravo Franco Matacotta, Acruto Vitali, Alvaro Valentini, Luigi Crocenzi, non se ne parlava affatto: per noi che Giacomo Leopardi fosse di Recanati era insignificante come il fatto che Ugo Foscolo era nato in un’isola greca, ci sembrava una cosa di estremo provincialismo. Poeta operaio, sì... ma la mia esperienza è totale, come dire poeta sposato, poeta fermano, poeta emigrato, il fatto è che noi possiamo definirci in tanti modi. [...] Scrivo in italiano, posso scrivere soltanto in italiano, ma ho l’impressione che l’italiano di oggi sia molto povero; non è il mio italiano a essere speciale, semmai è semplicistico quello di tanti altri, oggi che le persone qui, quando torno, mi fanno l’impressione di gente che parla dentro uno spot pubblicitario visto in televisione, perché ne imitano senza volerlo le parole e l’intonazione. Forse sono stato sbattuto nel posto giusto, ‘sbattuto’ come dice Heidegger o qualcosa del genere, perché se fossi rimasto a Fermo non so cos’avrei potuto scrivere. La Norvegia mi ha dato la possibilità di uno spazio vitale, in un mondo così diverso da quello italiano che mi ha fatto capire meglio proprio quello italiano, la sua specificità. Per esempio, la democrazia norvegese è abbastanza avanzata, lì un partito come la Lega è inconcepibile, addirittura in Norvegia non esiste un partito che si possa definire di estrema destra. Al parlamento norvegese è stata eletta una donna originaria del Bangladesh, in un parlamento voglio dire dove già i deputati almeno per la metà sono donne, e così al comune di Oslo. [...] La socialdemocrazia scandinava non è come quella italiana, se pure ne esiste una. Mi chiedo quale socialista norvegese potrebbe mai mettersi al governo con Silvio Berlusconi, lì sarebbe ridicolo, assurdo. Molti socialdemocratici svedesi, non va dimenticato, sono di origine trotzkista, infatti il primo paese dove si è rifugiato Trotzky, prima di andare in Messico, è stato proprio la Norvegia. Nei congressi del Partito socialdemocratico norvegese si apre e si chiude con l’Internazionale, in Italia non mi risulta che sia così. [...] I miei maestri? I primi testi di Giuseppe Ungaretti, che sono un incunabolo della mia prima poesia, poi senz’altro la prima raccolta di Franco Fortini, Foglio di via, oppure alcune poesie di Ibsen che in seguito ho tradotto, come quella che si intitola Il potere della memoria, dove dice che per addomesticare l’orso bisogna metterlo a bollire in un grande tegame e nello stesso tempo suonargli una canzone: l’orso è costretto a saltare per la scottatura, quasi a ballare ma, finito l’esperimento, l’orso continuerà a saltare ogni volta che sentirà quella musica, cioè si rimetterà a ballare ricordandosi di quel dolore. La poesia è un po’ così, probabilmente qualche cosa di atroce in essa deve ripetersi, qualcosa che ci induce a ripetere quel dolore, quella angoscia. [...] Io il concetto di postmoderno non l’ho mai capito, mi è sempre sembrata una cosa un po’ strana, magari è una cosa seria ma non me ne sono mai interessato e posso dire che in fondo non me ne importa niente. Invece mi dispiace che adesso si dica tanto male di Benedetto Croce, del quale rimangono alcune verità: pensa che le prime volte che leggevo la Divina Commedia, certi canti dell’Inferno io li sottolineavo e molto tempo dopo mi sono accorto che erano quasi sempre gli stessi che preferiva Benedetto Croce parlando di Dante e distinguendo fra poesia e non-poesia. [...]”» (Massimo Raffaeli, “il manifesto” 15/10/2005).