Il Sole 24 Ore 25/09/2005, pag.31 Luigi Meneghello, 25 settembre 2005
Che fatica studiare da santo. Il Sole 24 Ore 25/09/2005. Non eravamo proprio sicuri che san Luigi fosse un santo di prima grandezza, interamente a suo agio tra i grandi onomastici del mese di giugno: Antonio il 13, lui il 21, Giovanni il 24, Pietro e Paolo il 29
Che fatica studiare da santo. Il Sole 24 Ore 25/09/2005. Non eravamo proprio sicuri che san Luigi fosse un santo di prima grandezza, interamente a suo agio tra i grandi onomastici del mese di giugno: Antonio il 13, lui il 21, Giovanni il 24, Pietro e Paolo il 29. Era il san Luigi domestico, si capisce, quello del ’500 e della Controriforma, non l’altro, re di Francia del tardo Medioevo, incomparabilmente più importante (non che noi lo sapessimo) sul piano delle cose mondane, una prestigiosa figura di santo europeo, forse con un "soupçon"di boria francese. Il pregio speciale del nostro santo era del tutto privato, la sua straordinaria oltranza in fatto di purezza personale: era così strambamente virtuoso in questa materia, a sentire le zie di chiesa, che per tutto il corso della sua vita terrena non si vide mai i piedi nudi, e non alzò mai gli occhi in faccia a sua madre, essendo lei una donna. Per il 21 di giugno amici devoti mi regalano un libretto, primo volume di una Vita del l’angelico giovane s. Luigi Gonzaga scritta all’inizio del ’600 a pochi anni dalla morte del santo da chi lo aveva conosciuto e frequentato di persona. Questa che ho in mano è una modesta riedizione "moderna" (1911), offerta come buona lettura alla gioventù del tempo "cotanto bersagliata dai miscredenti" e in pericolo di darsi tutta "ai passatempi, alle divagazioni, agli spettacoli, alla lettura di fantastici ed anco di tristi romanzi" (a scapito allora di eventuali vocazioni al chiostro e alla vita evangelica). Per certi rispetti di fondo noi ci sentiamo oggi "aa anni luce" dalla cultura religiosa del Seicento, e a qualche semestre luce dalla temperie del primo Novecento devoto. Ma il bisogno di buone letture permane. Provo a leggere, la lingua è attraente, ha l’impronta del suo secolo: mi addentro con un certo interesse. Cosa ci sarà dietro l’icona paesana di san Luigi? Era destinato a morire in acuto odore di santità a 23 anni, di mal sottile, il primogenito del marchese Ferrante Gonzaga (un ramo cadetto), ma la via della santità l’aveva scelta già nell’infanzia, dopo una breve sbandata in tenerissima età. Mentre infatti la madre lo avviava ai primi atti di devozione, il marchese avrebbe voluto introdurlo all’uso delle armi, e "quando fu in età di quattro anni fece preparare apposta per lui archibugetti, bombardette ed altre armi, picciole tutte", adatte a essere maneggiate da un bambino: e una volta lo fece assistere a una rassegna militare "con una leggera armaturina addosso, e una picchina in ispalla". E per un po’ parve che il bambino ci stesse e si imbevesse nel suo piccolo di spirito soldatesco: al punto che frequentando i soldati, e ascoltando le loro parole "libere e sconce" cominciò ad averle in bocca anche lui! Ma fu uno sbandamento passeggero: poi arrivando all’età della ragione (avveniva anche allora a sette anni) "si voltò a Dio". L’ispirazione religiosa soffocò fin da principio ogni voglia di passatempi e giochi, nella casa paterna o altrove, a Firenze per esempio, dove fu ospite per qualche tempo del granduca: lì c’erano due importanti bambine che avrebbero voluto giocare con lui, Leonora de’ Medici poi duchessa di Mantova, e sua sorella Maria, poi regina di Francia. Lo invitavano, ma lui diceva "che non vi aveva gusto, e che avrebbe preferito fare degli altarini". Altarini, la controparte ispirata degli archibugetti e della picchina. Ben presto la vocazione alla santità gli invase la vita in modo praticamente inesorabile: a nove anni, il voto (alla Madonna) di perpetua verginità a undici la risoluzione di rinunciare al marchesato; tra i dodici e i tredici il proposito di entrare "in una religione" intorno ai quindici la scelta dell’ordine religioso, i Gesuiti. L’intensità della devozione aveva aspetti drammatici. Alla sua prima confessione (ed è difficile pensare che avesse peccati molto mortali di cui accusarsi) si emozionò talmente, con tanta confusione e vergogna di se stesso, che inginocchiandosi ai piedi del confessore, svenne. Le pratiche devote assunsero forme appassionate, per certi versi strabilianti. Immerso in esse spossarsi, ridursi &la tanta fiacchezza da non avere neppure la forza di sputare...". Passare infinite ore astratto in orazione, in ginocchio, meditare sulle "cose di Dio", contemplare di giorno e di notte i misteri della Redenzione e la meraviglia degli attributi divini: e per la dolcezza lancinante di questi pensieri piangere quasi di continuo... Bagnate le vesti, bagnato il pavimento della camera. I servi che spiavano per le fessure della porta lo vedevano prostrato davanti al Crocefisso, lo udivano gemere e singhiozzare... Poi restava immobile, rapito in estasi, una statua. Non era, o non solo, ordinaria compunzione, ma - per quanto può pensare un laico - l’effetto magnetico di un percepito contatto con le cose del cielo. Questa commozione pareva connaturata ai trasporti devoti. A messa (ne udiva almeno una al giorno), alla consacrazione del l’Ostia, scoppiava ogni volta in un pianto dirotto. C’è qui, credo, il cuore segreto della vocazione del giovane e della sua santità. La natura profonda di queste perturbazioni ha del l’enigmatico: siamo in una sfera del sentimento religioso forse interdetta alle sonde mondane. * * * Sul piano dei rapporti umani, l’aspetto di questa storia che più mi sorprende - non ne avevo sentito parlare e non l’avrei immaginato - è la violenza del conflitto tra la volontà del giovane santo-in-terra e quella del marchese suo padre. Il ragazzo era invincibilmente risoluto a farsi religioso, e il padre altrettanto deciso a impedirglielo. In principio pensava che bastasse non dar peso alle inclinazioni devote e ai timidi propositi del figlio, considerarli un capriccio giovanile, temporeggiare: in seguito il contrasto si aggravò. Quando il giovane, sui 15 anni, annunciò di aver deciso di farsi gesuita (dopo aver ottenuto personalmente dalla Madonna la conferma che questa era la volontà di Dio), il marchese andò ("salì")davvero su tutte le furie: "si fe tutto fuoco", minacciò di cacciarlo, di farlo intanto "spogliare e stafilare", e restò profondamente sconvolto per vari giorni. Costretto a letto dalla gotta, angustiato da debiti di gioco, cercava con disperata industria l’appoggio di parenti e amici autorevoli, prelati, vescovi, arcipreti in grado di parlare al giovane per dissuaderlo dal suo proposito e convertirlo al buonsenso: ma tutti finivano col voltarsi dalla parte del renitente. Il marchese, sempre a letto con la gotta, e afflitto da disastrose perdite al gioco, migliaia di scudi (un bello stinco di marchese), lo faceva chiamare ogni tanto, in attesa che l’ostinazione di lui si affievolisse, ma restava deluso ogni volta. Seguivano scoppi di rabbia furibonda, momenti di rimorso, scrupoli tardivi, costernazione, cordoglio. In una certa occasione il disgraziato "s’intenerì in guisa che rivoltosi verso il muro cominciò a versare dagli occhi un profluvio di lagrime". Piangeva a volte "con lamenti, singulti e gridi" tali da spaventare i cortigiani: finché alla fine un giorno, fatto chiamare il figlio, gli diede lo straziante consenso, con altri gran pianti. E il figlio sbigottito corse a chiudersi nella sua camera a piangere anche lui, di sollievo e di doloroso giubilo. L’onda delle lagrime, nella piccola corte di Castiglione delle Stiviere, pareva incontenibile: durante la lettura del l’atto ufficiale di rinuncia del primogenito al marchesato, il marchese "non fece altro che piangere dirottamente". E quando, dimesse le vesti secolari, il giovane volle subito vestirsi "di panno da gesuita" e si presentò così agli ospiti, questi "si commossero a lagrime", e con gli altri il marchese che pianse per tutta la durata del pranzo. Aveva crudamente vessato il figlio per anni, e alla fine la vittima ultima pareva lui, che morì del resto un paio di mesi dopo l’ingresso del figlio nel noviziato. Al l’annuncio della morte del padre il novizio - ora al riparo sulla via del cielo - non pianse: e scrisse alla madre che ringraziava Dio che da ora in poi avrebbe potuto più liberamente dire "Padre nostro che sei nei cieli". - o era - dura cosa la santità: duro perseguirla, duro contrastarla. Oggi ciò che insidia l’ispirazione dei futuri santi non pare siano i contrasti, ma l’applauso, il concerto degli applausi. Luigi Meneghello