Il Messaggero 11/10/2005, pag.12 Roberto Gervaso, 11 ottobre 2005
Il Principe Totò. Il Messaggero 11/10/2005. Caro Signor Gervaso, mi è capitato l’altro giorno, sfogliando il settimanale Oggi, una frase di Totò che sottopongo alla sua riflessione e a un suo commento: "Sono, ormai, all’età in cui si tirano le somme e non ho fatto nulla
Il Principe Totò. Il Messaggero 11/10/2005. Caro Signor Gervaso, mi è capitato l’altro giorno, sfogliando il settimanale Oggi, una frase di Totò che sottopongo alla sua riflessione e a un suo commento: "Sono, ormai, all’età in cui si tirano le somme e non ho fatto nulla. Sarei potuto diventare un grande attore e, invece, su cento e più film che ho girato, ve ne sono, di degni, non più di cinque. Ma se anche fossi diventato un grande attore, cosa sarebbe cambiato? Noi attori siamo solo venditori di chiacchiere. Un falegname vale certo più di noi. Almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo". Ettore Capuano - Salerno Caro Capuano, Totò aveva ragione: non è stato un grande attore. E non è stato nemmeno un attore grandissimo. Totò è stato un attore sommo, un genio. Io, ma non solo io, lo metto sullo stesso piano di Charlot, al quale mancò l’umanità e la generosità del collega napoletano. Nella storia del nostro cinema, ma anche di quello mondiale, un capitolo, anzi un capitolone, spetta a questo eclettico e geniale interprete, a questo formidabile mito, a questo inesauribile e inimitabile poeta della recitazione. Qualcuno (spero, non lei) mi accuserà di aver fatto scialo di superlativi. No: scrivendo quel che scrivo del protagonista di film che ho visto e rivisto decine di volte con lo stesso godimento, le stesse risate, gli stessi sorrisi, scrivendo quello che scrivo non esagero, non concedo al più idolo dei miei idoli solo ciò che merita, che si è guadagnato con l’immenso talento, una lunga gavetta e tanti digiuni. Il successo ha un prezzo, com’è giusto che sia, ma quello che pagò Totò, figlio naturale di una popolana del quartiere Sanità e di Giuseppe de Curtis, patrizio napoletano, fu altissimo. Parlo con cognizione di causa perché don Antonio lo conobbi bene. Lo incontrai nei primi anni Sessanta a una conferenza stampa. Presentava il suo ultimo film. Indossava un doppiopetto blu firmato Caraceni, cravatta in tinta, scarpe di Pedrocchi. Sul più bello - o sul più brutto - un collega, di non ricordo quale giornale, si alzò e gli chiese: "Totò, dopo questo film, cosa farà?". L’attore, senza scomporsi, rispose: "Mi chiami pure Principe. Anzi, voglio venirle incontro: Sua Altezza Imperiale". Legittima rivendicazione, autenticata da una sentenza del Tribunale di Napoli che, molti anni prima, con un’ineccepibile sentenza, lo aveva autorizzato a fregiarsi dei titoli e dei nomi di Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito, Gagliardi de Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, esarca di Ravenna, e tante altre cose che sarebbe uggioso elencare. Il mio collega, paonazzo di vergogna, gli occhi bassi, guadagnò frettolosamente l’uscita, fra l’ilarità generale. Quando il principe concluse la conferenza stampa, mi avvicinai a lui per stringergli la mano (scrivevo allora per il "Corriere della Sera") e portargli i saluti di Montanelli, un suo messaggio e il desiderio d’incontrarlo. Sua Altezza imperiale mi rispose che sarebbe stato felice di conoscere il grande giornalista e c’invitò entrambi a cena, la domenica successiva, a casa sua, in viale Monti Parioli 4. Ci ritrovammo a tavola: il Principe, la bellissima, elegantissima, dolcissima compagna Franca Faldini, Indro, la moglie Colette ed io. Non fu una serata allegra: fu una serata austera. Quasi un’udienza ufficiale, resa meno solenne da una cena deliziosa scandita da rare leccornie e impreziosita da un brindisi a base di champagne d’epoca, che ci accompagnò per tutta la durata del pranzo. Totò, che solo Franca chiamava Totò, seduto a capotavola, parlava e gestiva come un basileus bizantino. Più che in una casa privata, anche se di un inquilino illustre, ci sembrava di essere alla corte di Bisanzio. Più che invitati ci sentivamo sudditi cui era stato concesso l’alto onore di condividere la mensa con il sovrano. Dalla bocca del padrone di casa uscirono solo monosillabi o dotte puntualizzazioni araldiche, che Montanelli ed io mai avremmo osato contestare, anche per difetto di dottrina, digiuni com’eravamo di questioni o beghe dinastiche. L’Almanacco di Gotha io non l’avevo mai letto né sfogliato. E poi mi bastava l’ineccepibile sentenza del tribunale di Napoli per non mettere in dubbio la validità delle patenti nobiliari accampate dall’anfitrione, di cui ricordo una sola battuta, appena bisbigliata e subito repressa: "Ah, Teodora, quella gran puttana di mia zia". Teodora, moglie di Giustiniano, prima d’ indossare la porpora aveva fatto la meretrice all’ippodromo. Basilissa, si era trasformata nella più intransigente custode della virtù pubblica. Prima del congedo, solenne come l’accoglienza, il principe ci disse: "Di Totò non resterà niente". L’ attore napoletano non sarebbe mai salito sul prestigioso trono di Costantinopoli. Ma Antonio de Curtis, se quell’impero fosse risorto, ne sarebbe stato il legittimo erede. Roberto Gervaso