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 2005  ottobre 10 Lunedì calendario

Ecco Luciano: jeans, camicia e autostrade. CorrierEconomia 10/10/2005. Fino a un anno fa avevo una piccola azienda di tessuti, a Prato, che ho venduto appena ha iniziato a sentire i primi morsi della crisi storica del tessile italiano

Ecco Luciano: jeans, camicia e autostrade. CorrierEconomia 10/10/2005. Fino a un anno fa avevo una piccola azienda di tessuti, a Prato, che ho venduto appena ha iniziato a sentire i primi morsi della crisi storica del tessile italiano. Ero la terza generazione dei Nesi produttori di tessuti e ho venduto la ditta. E per quanto sia convinto d’aver fatto bene, ecco, un po’mi brucia. Certi giorni, molto. Oggi, mentre esco a Treviso Nord e il mio telepass manda quel bip che vuol dire che in quel momento ho inviato esattamente quindici euro dal mio conto a quello di Luciano Benetton - perché le autostrade sono sue e gli autogrill sono suoi, anche se praticamente non lo sa quasi nessuno e per tutti Luciano Benetton è sempre e solo quell’icona ormai incastonata nella corona d’angeli del nostro mondo della moda, coi capelli bianchi lunghi da scienziato pazzo, il sorriso contagioso sempre sul punto di sconfinare in una smorfia d’imbarazzo, lo sguardo affilato eppure mai minaccioso: alla fine una specie di simpatico artistoide che quasi tutti ricordano nudo in quella foto e pochi associano al titanico lavoro di costruire dal nulla, a Treviso, forse l’unica impresa italiana che possa dirsi globale, che fattura tremila miliardi delle vecchie lire ogni anno con il tessile e abbigliamento, e quattordicimila se si mettono nel conto anche le autostrade - oggi, dicevo, è però uno di quei giorni aspri e intrisi di inquietudine e struggimento, e continuo a vedere facce di clienti, rappresentanti, operai, li sento che mi chiedono Come stai, Edoardo, e Cosa fai tutto il giorno, Edoardo, e mi dico che qualsiasi cosa vedrò non farò sconti al Principe, e non mi farò abbagliare da una ricchezza alla Charles Foster Kane fatta vendendo maglioni. Invece gli chiederò conto di quella pubblicità zuccherosa e insopportabile che invadeva le città quando ero ragazzo, quelle gigantografie ubique di ragazzi bianchi e neri e gialli e rossi che si abbracciavano e ridevano e saltavano e parevano annunciare l’avvento imminente e inarrestabile di un supermondo nuovo, multiculturale e multirazziale e multitutto, in cui avremmo potuto fregarcene della soma della Storia (che era finita, no, signor Fukuyama?) e marciare finalmente dietro alle bandiere dell’Amore e della Fratellanza, tutti allegri e vestiti da capo a piedi dallo zio Luciano. Gli chiederò cosa ne pensa oggi di Toscani e delle foto delle suorine peccaminose che avrebbero dovuto scandalizzarmi, dei primi piani dei condannati a morte che avrebbero dovuto rattristarmi, del Cristo malato di Aids che avrebbe dovuto agghiacciarmi. Se gli garbano ancora. Perché a me non sono mai garbate. Arrivato a Ponzano per una strada impossibilmente stretta e trafficata, traversando una pianuraccia indistinta solcata da giganteschi Tir croati nuovi, passo davanti a un museo d’arte contemporanea che però mi dicono essere una fabbrica, la fabbrica di Benetton, un edificio immane ed elegante fatto di enormi travi di cemento rette da cavi assicurati a piloni alti più di trenta metri e circondata da giardini perfettamente tenuti, senza nessun parcheggio visibile, come se chi ci lavora fosse arrivato in volo. Poi mi portano a visitare Fabrica, l’enigma che sta al centro della Benetton e infesta una vecchia villa restaurata e usata da Tadao Ando come una sorta di tela bianca per il suo intervento, che mi pare consista soprattutto nel cantare la poesia del cemento curvo. In mezzo al giardino perfetto c’è la scultura di una scala molto alta che va verso il cielo, e per quanto sia una metafora così evidente da essere perfetta mente benettoniana, in una scuola non è male (ma Fabrica è una scuola?) e di certo deve fare effetto ai ragazzi poco più che ventenni che da tutto il mondo fanno a pugni per venire qua a studiare o lavorare o rincorrere idee o tutte queste cose insieme, sul momento non mi è chiaro, nei sette dipartimenti di Fabrica, che sono pubblicità, design, musica, web design, grafica, cinema e video e, ultima arrivata, scrittura creativa. Il dipartimento che si occupa di pubblicità sembra essere tenuto in gran conto, ma io odio la pubblicità, tutta la pubblicità, non sopporto nemmeno l’idea della sfrontata mani polazione che sta alla base della maledetta pubblicità, e non saprei proprio dare un giudizio sulle cose che mi fanno vedere, anche perché mi dicono che non più del dieci per cento del lavoro dei giovani di Fabrica – che stanno lì per un anno e poi basta – finisce poi per avere un qualche uso pratico per l’azienda. Siccome sanno che ho fatto un film da regista mi fanno vedere, io solo in una grande sala di proiezione, un corto a la Bill Viola di Godfrey Reggio, quello di Koyaanisqatsi, che qui è stato il primo reggente del laboratorio di cinema oggi diretto da Marco Muller, il direttore del Festival di Venezia, grande esperto di cinema del Far East, nuovo mercato di riferimento per l’azienda. E quando alla fine chiedo allora cos’è, Fabrica, che non ho capito, la sua direttrice Laura Pollini mi dice che è ricerca, ricerca pura, è l’anima della Benetton, la visione dell’azienda, di Luciano. Hanno anche vinto un Oscar, con No man’s land, che hanno coprodotto. Ed eccolo, Luciano Benetton. uguale alla sua icona e vestito come me: giacca blu, camicia bianca, jeans. Si va a cena e gli faccio i complimenti per la bellezza di quella fabbrica-museo e così mi racconta con trasporto che quella che ho scambiato per un museo è un open space, cioè in tutto l’edificio non c’è neanche una colonna così i camion possono entrarci dentro e scaricare e ogni attività si svolge al coperto, è duecentomila metri quadrati e se voglio domani la visiterò. La sua prima fabbrica la fece nel 1964 grazie all’aiuto di un impresario edile che ebbe fiducia in lui perché le banche non gli avrebbero fatto credito, vi sto che non aveva una lira e la sua idea per sfondare era quella di produrre maglie bianche e tingerle in capo di colori che non si erano mai visti prima nei negozi. Mi dice che nel 1965 mise l’aria condizionata in tutta la fabbrica perché col caldo non si può lavorare e i suoi dipendenti, che venissero al lavoro in bicicletta come negli anni Sessanta o in macchina come oggi, hanno sempre parcheggiato al coperto. Racconta che negli anni 60 gli economisti scrivevano sui giornali che in Europa non si doveva investire nel tessile &abbigliamento ma nella tecnologia, ma lui, ecco, non era d’accordo, e pensava che proprio con l’aiuto delle nuove tecnologie si poteva trovare il successo. Vede, loro parlavano del presente, ma io pensavo al futuro, ed ero convinto che nel futuro ci fosse qualcosa in più, un valore aggiunto. Mi dice che a lavorare si è sempre divertito e poi – provvidenzialmente perché stavo per fargli notare che non è vero, non ci si diverte a lavorare, si può provare soddisfazione, entusiasmo, persino gioia, ma il divertimento è un’altra cosa – si corregge e dice che no, non era divertimento, era una libertà, la libertà di fare ciò che l’aveva sempre affascinato. E poi si mette ad ascoltare con interesse i racconti sulla mia microazienda che non riesco a non scambiare con lui, e si finisce la serata a parlare come vecchi colleghi, io e Luciano Benetton, di lane e filati, tessuti e maglie, tessiture e dipendenti. Poi, mentre mi riaccompagna in macchina all’albergo mi confessa che nel Sessanta era andato a Roma a vedere le Olimpiadi, ed era rimasto così colpito da tutte quelle bandiere, da quei volti, dalle centinaia di sfumature della pelle di quei giovani atleti da convincersi che il mondo era immenso e colorato, e quando gli chiedo, da daltonico irrecuperabile, se per i colori ha una speciale sensibilità, che so, una sorta di dono, lui mi dice che, certo, i colori gli sono sempre piaciuti, e crede anche di intendersene, ma quando da giovane andò a una mostra di Klee e Kandinsky, a Venezia, rimase così affascinato dalla infinita maestria di quei due geni da comprare il catalogo della mostra e portarselo in ufficio, ed ecco da dove vengono, i colori di Benetton. Vado a letto confuso e mi dico che sì, va bene tutto, ma domattina gli chiederò degli analisti finanziari che si sono stizziti perché l’azienda ha guadagnato solo 63 milioni di euro nel primo semestre del 2005 e non 69 come nel primo semestre del 2004, mi farò dire se secondo lui è colpa della crisi dei consumi di tutta Europa o di Zara o di H&M o di tutte queste cose insieme, cioè se è un po’ in crisi anche lui come tutta Prato, tutta Biella, tutta Como, come tutta l’Italia, insomma. Solo che se c’è una genia che odio quanto e forse più dei pubblicitari sono gli analisti finanziari, quelle mignatte che contano gli utili ogni tre mesi e non sanno fare altro che consigliare di mandare la gente a casa. E poi lo so che la Benetton non è in crisi, non importa chiederglielo. Si vede da tante cose, prima di tutto dalle facce della gente che ci lavora. Le so riconoscere, io, le aziende in crisi. La mattina dopo visito con sgomento la fabbrica, che poi è soprattutto un gigantesco reparto spedizioni perché la produzione è stata spostata quasi tutta in Croazia, Ungheria e Tunisia, e vedo nastri trasportatori lunghi chilometri e una specie di macchina smista-pacchi alta venti metri che sarebbe un peccato non si muovesse a levitazione magnetica, e assisto alla transumanza ipnotica, disneyana di migliaia di scatole pronte per la spedizione. Quando chiedo di vedere il suo ufficio, la cui anticamera è ornata dalle gran coppe vinte nella breve e fortunata puntata in Formula Uno che mi ero del tutto scordato, devo constatare che Luciano Benetton ha un ufficio più piccolo e spoglio di quello del mio ex socio Alvaro. Sotto la finestra ci sono quattro belle carpe koi a nuotare pigre in una vasca d’acqua cristallina ricavata nel giardino della grande, bella villa restaurata dove sono stati ricavati tutti gli uffici dell’azienda. C’è un gran silenzio, qui, spezzato solo dai lontani muggiti dei Tir croati, e mentre aspetto Luciano Benetton ripenso a quando, ieri sera, mi ha detto che nella vita ha sem pre voluto essere uno specialista, e qualsiasi cosa voglia dire per lui, mi pare di capire che tutto lo scintillio della fama mondiale, e le provocazioni di Toscani, e la Formula uno, e il basket, e il rugby siano sempre stati solo dei mezzi per vendere di più e nient’altro, davvero nient’altro; che alla fine della fiera Luciano Benetton non sia mai stato l’artista-mecenate-stilista delle mille foto, ma semplicemente un imprenditore proprio come lo ero io, solo cento mila volte più bravo di me, capace di accumulare una ricchezza oceanica ma anche di spargerla intorno a sé, e che questo non solo sia abbastanza, ma sia tanto. In quest’epoca di opaca commistione di ruoli, è bello che lui che sembra un artista si sia contentato di essere un imprenditore. E così quando lo vedo arrivare per salutarmi prima della mia partenza, sereno e risolto, indicibilmente fortunato, apparentemente felice, ho solo voglia di chiedergli se è contento di quello che ha fatto, oppure se c’è qualche sogno che gli è rimasto, qualche pungolo, qualcosa di non realizzato, e quando lui mi dice Rifarei tutto, anche gratis, annuisco e penso che mi garba quest’uomo, c’è poco da fare, e se non faccio svelto a rimontare sulle sue autostrade lo assolvo perfino dall’essere stato uno dei grandi fornitori di sogni di quel mondo anestetizzato, dorato e ingenuo e bellissimo che è finito l’undici settembre, quell’Arcadia in cui si viveva annoiati a sfogliare le pagine delle riviste in cui le bruttezze della vita erano lontane e confinate nella pubblicità di Benetton, come se mostrandocele riuscisse però anche ad allontanarle da noi, a proteggerci in qualche modo, mentre danzavamo come falene, vestiti da lui, noi bambini degli anni alla fine dell’Età dell’Oro. Edoardo Nesi