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 2005  ottobre 04 Martedì calendario

Carver, l’abisso dentro una sigaretta spenta. Corriere della Sera 04/10/2005. «Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori – scrisse una volta Raymond Carver, di cui Mondadori stampa tutte le opere narrative nel Meridiano, con l’ottima traduzione di Riccardo Duranti (a cura di Gigliola Nocera, pagine 1

Carver, l’abisso dentro una sigaretta spenta. Corriere della Sera 04/10/2005. «Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori – scrisse una volta Raymond Carver, di cui Mondadori stampa tutte le opere narrative nel Meridiano, con l’ottima traduzione di Riccardo Duranti (a cura di Gigliola Nocera, pagine 1.352, e 49) – finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne staremo seduti un momento o due in silenzio... Magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove eravamo prima. La temperatura del nostro corpo sarà salita o scesa di un grado. «Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, ci alzeremo e, creature di sangue caldo e nervi, come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita». E questo è proprio quello che capita quando finiamo di leggere un racconto di Carver: rimaniamo lì, immobili, senza respiro. Perché, se è vero che l’inizio – come diceva Carver stesso – è importante per ogni racconto, alla fine di ogni suo racconto, quasi sempre, anche in presenza di situazioni che crediamo non debbano riservarci sorprese, si rimane sbalorditi: qualcuno dice una parola che non ci aspettavamo, compie un gesto minimo e cambia tutto. Carver ebbe una vita breve (era nato nel 1938, morì nel 1988) e piena di difficoltà, segnata da un matrimonio precoce, dalla miseria e, per lunghi periodi, dall’alcol. Fece quasi tutto: «Ho lavorato in segheria, ho fatto l’uomo delle pulizie, il fattorino, ho lavorato in una stazione di servizio, ho fatto il garzone in un magazzino: ditene un altro e l’ho fatto». La fortuna letteraria – in poche parole: essere riconosciuto come il maggior scrittore di racconti della seconda metà del secolo negli Stati Uniti – gli arrise relativamente tardi: poco più di dieci anni prima della morte. Tra le varie ingiustizie che gli riservò il destino, ci fu quella di essere accomunato, in qualità di padre putativo, al cosiddetto movimento minimalista, fiorito negli anni Novanta. Carver, infatti, di minimalista non aveva un bel niente. La sua poetica, se di poetica si può parlare, era quella della sottrazione, semmai: che con le pratiche minimaliste non ha nulla a che vedere. Diceva di non avere alcuna teoria su come scrivere racconti. Io – diceva – non parto mai da un’idea. Vedo qualcosa, una sigaretta spenta in un barattolo di mostarda, i resti di una cena e cerco cosa c’è dietro. Una volta andò da suo padre, un uomo umile – immortalato in una poesia splendida, con il cappello in testa, lo sguardo vuoto e dei pesci in mano – a comunicargli che voleva fare lo scrittore. Il padre gli dette il seguente consiglio: «Scrivi di cose che conosci. Scrivi di quelle gite che facevamo per andare a pesca». Carver, quel consiglio lo seguì in pieno: partiva dalle cose che conosceva o vedeva, per scoprire il mistero profondissimo che queste cose nascondevano in loro; talvolta, l’abisso. Un altro consiglio che seguì fu quello di Pound; lo aveva trascritto in un foglietto che aveva appiccicato alla scrivania. Era il seguente: «Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura». Per raggiungere codesta accuratezza – e compensare il talento che credeva di non possedere – lavorava sodo. Scriveva e riscriveva, tagliava senza pietà; seguendo l’esempio di maestri come Tolstoj, sottoponeva ogni racconto a una infinità di revisioni consecutive. Il linguaggio, proprio perché descriveva oggetti comuni (una sedia, un letto, delle tende) doveva essere preciso. I dettagli, in questo senso, erano importantissimi. I dialoghi dovevano essere perfetti: «Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocuo e far sì che provochi al lettore un brivido lungo la schiena: l’origine del piacere artistico, secondo Nabokov». Pensava che le cose che contano fossero l’amore, la morte, i sogni, le ambizioni, crescere, fare i conti con i propri limiti e quelli degli altri. E, insieme a queste, tutte le altre cose non dette: quelle che restano fuori dal racconto e – ci illudiamo – la superficie della nostra vita si sforza di cancellare. Tra queste, il senso della perdita: la morte. La morte è presente in ogni episodio di perdita, nei racconti di Carver. Non solo in quel capolavoro intitolato Una cosa piccola ma buona nel quale un bambino muore nel giorno del suo compleanno e il pasticcere consegna un’inutile torta a due genitori annichiliti. presente, come perdita della propria identità (con lo sgomento che ne consegue), in racconti come Loro non sono mica tuo marito o Vicini. presente, soprattutto, nello strazio della vita coniugale: nei matrimoni nei quali l’amore svanisce, nei matrimoni nei quali l’amore è tradito, nei matrimoni nei quali l’amore è sostituito dall’egoismo. Questi sono i racconti più belli di Carver. Si svolgono nelle cucine dominate dal frigorifero che contiene i surgelati e le birre; nei salotti con le bruciature delle sigarette sui divani; davanti alle bottiglie vuote di whiskey; nelle stanze da letto.  incredibile quanto dolore c’è in queste stanze da letto! il dolore che non si vede. una delle cose che restano fuori da un racconto e dalla vita. l’abisso che la società americana di quegli anni – e dei nostri, con ogni probabilità – nascondeva dietro le casette ordinate delle sue periferie come dietro gli appartamenti più ricchi; dietro ai vetri dei supermercati e dietro ai finestrini delle automobili degli uomini diretti al lavoro; dietro ai vetri degli uffici; dietro la felicità; dietro le lusinghe del sesso; dietro le illusioni dell’amore; dietro l’angolo. Giorgio Montefoschi