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 2005  ottobre 08 Sabato calendario

«Non date soldi al cinema: rinascerà». Corriere della Sera 08/10/2005. «Un festival del cinema a Roma? Per carità

«Non date soldi al cinema: rinascerà». Corriere della Sera 08/10/2005. «Un festival del cinema a Roma? Per carità. Dipendesse da me, abolirei tutti i festival, anche quello di Venezia. Per far rinascere il cinema italiano, in un momento così poco interessante e così poco creativo, l’ideale sarebbe azzerare tutto. Niente finanziamenti statali, nessun aiuto obbligato, nessuna concessione da parte del sistema politico, comunale o governativo che sia. l’unica strada percorribile per dare la possibilità a chi davvero ha delle buone idee e dei buoni progetti di vederli realizzati. Vedi, il cinema è una cosa delicata, preziosa, di una certa rarità. Questo diluvio di opere diventa noioso, ripetitivo, privo di senso. C’è troppo cinema. Decine di autori e di registi ottengono dal ministero l’aiutino, parola orribile che però dà il senso della miseria generale, a prescindere dalla qualità. Fra i registi di oggi, penso che il migliore sia Nanni Moretti, l’unico che ancora mi incuriosisce un po’. E lui, non ha cominciato con un super8? Eppure, anche se la pellicola era quella che era, si capì subito che aveva il talento e usava il linguaggio giusto». Tardo pomeriggio, in via Paisiello, al confine fra i Parioli e il quartiere che affaccia sulla villa Borghese, nell’appartamento romano di Suso Cecchi D’Amico. Una casa che è già nella leggenda: sono stati scritti qui quasi tutti i capolavori del cinema italiano. Al tavolo, «che poi diventava di cena, e poi ancora di lavoro, senza che quasi ce ne accorgessimo» ciascuno dei grandi aveva un suo posto: Ennio Flaiano, Luchino Visconti, Luigi Zampa, Alessandro Blasetti, Michelangelo Antonioni, Francesco Rosi, Luigi Comencini, Roberto Rossellini, Renato Castellani, Cesare Zavattini, Nino Rota, Mario Monicelli, Age e Scarpelli, Vittorio De Sica. Lei, l’unica donna, autrice e sceneggiatrice, protagonista e testimone di un’epoca, con grande discrezione prova a ridimensionare il suo ruolo: «Sapevo battere a macchina con dieci dita, avevo studiato e lavorato come segretaria e interprete, conoscevo le lingue. Ero utile a mettere ordine nelle idee volanti dei miei amici». Quando ha compiuto i novanta, lei che non ama proprio le celebrazioni, è stata definita la madre di tutto il cinema italiano: «Forse perché offrivo tè e biscotti Gentilini, c’era aria di casa, erano tutti simpaticissimi. Siamo peggiorati con gli anni, ma eravamo davvero un bel gruppo. Sono proprio contenta di averli avuti tutti qui». Lo dice guardandosi attorno, come a voler dialogare ancora con le ombre immortali che hanno abitato questo luogo. Suso è ancora bellissima. Abbronzata, è appena rientrata dalla villeggiatura a Castiglioncello. Elegante, tutta in nero, traffica con il telefono, scrive, commenta con allegria il rincorrersi dei cani. Sul telefonino della figlia Silvia, luccicano le immagini dei suoi bagni settembrini. E luccicano i suoi occhi, illuminati dai due fili di perle che fanno parte di lei. Si stupisce che io sia arrivata fin quassù per parlare di politica. «A casa mia, non se ne parlava mai: i miei genitori erano persone libere da ogni condizionamento. Certo, c’era il regime fascista. Fino al 1938, però, c’erano anche spazi di libertà. Noi ragazze, io e mia sorella, studiammo all’estero: prima in Svizzera, poi a Cambridge. Tornai con una gran voglia d’indipendenza e mi cercai un lavoro: lo trovai al ministero delle Corporazioni, non ero neanche maggiorenne. Come ho raccontato nell’intervista a mia nipote Margherita ( Storie di cinema e d’altro di Margherita D’Amico, edizioni Bompiani, ndr), Mussolini non era un incompetente come molti pensano oggi e nei posti chiave aveva messo dei tecnici, non dei fascisti. Tecnici, e per di più incorruttibili. Tutti controllati, spiati, intercettati. Da allora, sono diventata molto riservata. «Una volta, Mussolini si sedette di traverso sulla mia scrivania e si mise in posa... Era galante, ma mi parve che portasse il busto e mi sembrò ridicolo. Fu allora, tra questi esperti di economia e finanza, che ho conosciuto Enrico Cuccia, di poco più grande di me. Parlavamo di libri, di cinema, andavamo alla birreria Dreher, non faceva sport e non alzava mai la voce. Ho ancora una sua foto, molto bellino, col ciuffo biondo, nel comodino: andò in missione in Etiopia e mi portò due volumi con l’ex libris del Negus. Siamo rimasti in contatto sempre. Gli incontri e le amicizie un tempo erano importanti, oggi tutti incontrano tutti. Tra noi, bastava mezza parola: un grande amico». Suso sposa Fedele, Lele, D’Amico nel 1938: «Mio marito era intensamente impegnato in politica. Con Adriano Ossicini e Franco Rodano erano i fondatori del gruppo dei cattolici-comunisti. Da allora, la direzione di sinistra, per me, è stata naturale. Come la fede e la frequentazione della chiesa, senza esagerazioni. Gli anni della guerra e dell’occupazione nazista sono stati difficili, ma fu un’esperienza di solidarietà meravigliosa. Mio suocero, Silvio, fu arrestato praticamente senza motivo, insieme ad altri intellettuali. Io avevo i miei primi figli piccolissimi, Masolino e Silvia, cercavo di prendere le difficoltà con allegria. Non avevamo niente, neanche l’acqua, e così imponevo a tutti quelli che salivano a casa nostra, al settimo piano senza ascensore di via Cantore 17 – la casa del giornalista Paolo Milano, che, costretto a fuggire perché ebreo, ci aveva lasciato l’appartamento perché glielo custodissimo – di portare un fiasco pieno d’acqua. Noi donne aiutavamo i nostri mariti, padri e zii, che si nascondevano dai nazisti, davamo una mano con cibi e giornali, messaggi e informazioni utili per la resistenza, eravamo giovani e incoscienti». Nel dopoguerra, tutto il mondo del cinema italiano sembra schierarsi, compatto, con la sinistra. «Mah, andiamoci piano – suggerisce – io ho conosciuto due veri comunisti soltanto: Visconti e Zampa. Visconti ha sposato cause e idee che non gli venivano dal cuore, ma dalla ragione. Come se dovesse per forza aderire ad un mondo che non gli somigliava per eseguire un dovere. Si faceva guidare da Antonello Trombadori, uno che si sapeva imporre. Gli altri? Direi che per più di trent’anni è stato molto elegante essere di sinistra. Nessuno avrebbe mai detto che non lo era, lasciavano che si pensasse, erano sempre possibilisti. Si parla di egemonia culturale del Pci, ma noi scrivevamo delle storie rubate alla strada, alla cronaca, l’unico politico che abbiamo frequentato era proprio Antonello. «Non ci sentivamo né delle vittime, dei perseguitati dalla censura – che pure c’era, eccome – né dei politicanti. Certo, anche nelle commedie, c’era un’idea della morale, un senso della giustizia, ci sentivamo dalla parte della ragione. A un certo punto, arrivò il cinema di denuncia vero e proprio, ma io continuo a pensare che anche Ladri di biciclette avesse una sua amarezza in qualche modo molto politica». Suso Cecchi scatta come una tigre quando è il momento di difendere Franco Zeffirelli dagli attacchi che gli arrivano dai colleghi di sinistra, alla fine degli anni Settanta: «Franco voleva forse liberarsi dall’eredità di Luchino Visconti e magari ha esagerato. Ma andava difeso, è un grande regista». I soli politici che ha conosciuto e frequentato, i sindaci Rutelli e Veltroni, lo racconta sorridendo, «ricordano certamente le mie lettere furibonde per il degrado della mia villa Borghese. A proposito di villa Borghese. Lo sai che una mattina, molto presto, incontrai Silvio Berlusconi? Era solo. Ci trovammo a fare una lunghissima passeggiata e una gran chiacchierata. Ho un’istintiva simpatia per lui, anche se non avrei mai immaginato che gli italiani gli avrebbero dato tanta fiducia e tanto consenso. Ci siamo poi frequentati poco, visti a qualche festa da Zeffirelli e in altre occasioni ufficiali. Di quella mattina, però, ho un bellissimo ricordo». sera. Suso esce per andare al cinema con la figlia Silvia, come sempre. «Sai, mamma e papà non hanno mai visto, anzi mai acceso, la tv» spiega e sorride: «Pensavano fosse come il veleno». Barbara Palombelli